XVI.
L’invenzione della neve

A volte è leggera come i sogni, altre volte è pesante come la valanga. Non cambia solo per effetto della temperatura, del vento o del sole, la neve cambia anche nel tempo e nelle culture. È una questione di sguardi: gli occhi dei montanari dell’Ottocento vedevano metri e metri di neve sui campi strappati alla roccia, sui pascoli, sugli sforzi dell’estate, sulla fatica di sopravvivere al gelo. Per loro la neve era questione di sopravvivenza, non di poesia. In due o tre decenni, con un salto mortale della figura simbolica, la neve è improvvisamente diventata l’oro bianco delle Alpi, più bianco del bianco che c’era prima, quello del latte, e miracolosamente prodiga di denaro, promesse e ottimismo. Il pendio di montagna, che significava sudore e precarietà del vivere, nel Novecento si è trasformato in uno strumento di piacere. Quando i cittadini hanno scoperto che sulla «farina» si scivola e ci si diverte, l’inverno ha preso le sembianze della stagione alpina più attesa, più ricca, paradossalmente la più «calda» per il turismo della neve. Lo sci ha trasfigurato la montagna invernale in un luogo di sensualità ed ebbrezza, esportandovi pezzi di città, strade, automobili, funivie, donne eleganti, liquori e modernità.

Il monte innevato è una categoria di pensiero così nuova, e lo sci un’invenzione così decisiva, che nei primi decenni del Novecento si ridisegna l’immaginario alpino. L’invenzione del turismo invernale viene dalla Svizzera, precisamente dall’Engadina, ai piedi dei ghiacciai del Bernina e del Pizzo Palù. All’inizio dell’Ottocento Sankt-Moritz è solo un piccolo villaggio di neppure duecento anime, isolato dal resto del mondo; nel 1832 viene inaugurato il primo albergo dotato di sei bagni termali; nell’inverno 1864-1865 l’albergatore Johannes Badrutt lancia la provocazione della neve e un gruppetto di turisti inglesi prova a soggiornare a Sankt-Moritz nei mesi gelidi (dietro garanzia di rimborso in caso di maltempo) scoprendo che la cattiva stagione può essere buona in montagna, perché il tempo è più stabile, il cielo è più limpido e con una coperta si può prendere il sole sulle terrazze degli hotel senza temere l’assalto delle mosche e la furia dei temporali. Chi si annoia può farsi trainare dai cavalli sulle carrozze con i pattini al posto delle ruote; chi è in cerca di emozioni può scivolare con le slitte di legno dipinto sui campi di neve farinosa, la versione alpina dello zucchero filato. Friedrich Nietzsche non osa spingersi oltre le ombre tiepide dell’autunno, ma la sua ode all’Engadina è il miglior viatico promozionale:

Come deve sentirsi felice chi prova quelle sensazioni proprio qui, in quest’aria di ottobre costante e soleggiata, in questi giochi scherzosamente felici del vento, da mattina a sera, in questo chiarore purissimo, in questa moderata frescura, in tutta questa atmosfera amena e seria di collina, lago e bosco, in quest’altipiano che senza paura si è adagiato vicino alle angoscianti nevi eterne... come deve sentirsi felice chi può dire: – esistono certamente luoghi più grandiosi e più belli, questa natura, però, mi è più vicina, intima, famigliare, e ancor più.

La moda del fuori stagione prende piede rapidamente: se nel 1870 Sankt-Moritz conta meno di mille turisti nell’arco dell’anno, nel 1873 i pernottamenti sono saliti a oltre ventimila, e l’inverno fa già la sua parte. Non c’è niente di più provocante del contrasto tra il riverbero diurno del sole e il gelo delle notti di luna, l’erotismo della neve soffiata dal vento e le curve delle signore in abito da sera, quando i ceppi di larice bruciano nei camini degli alberghi e nelle stufe di ceramica, ci si scalda con il vin brulé e si danza a braccia scoperte. Lo sci non è ancora arrivato ma tutto è apparecchiato per accoglierlo.

Tra le persone folgorate dal libro di Nansen c’è un certo Mathias Zdarsky, spirito bohémien, uomo creativo e pioniere dello sci alpino, che nel 1889 si trasferisce dalla Moravia al villaggio di Lilienfeld nella bassa Austria. Critico sulla tradizionale tecnica nordica di legatura dello sci, Zdarsky mette a punto il primo moderno attacco metallico: il cosiddetto «Lilienfelder Stahlsohlenbindung». Sostenitore dell’uso del singolo bastone, pubblica un manuale fondamentale – Lilienfelder Skilauf-Technik – che divulga la tecnica dello sci in Europa e totalizza diciotto riedizioni tra il 1897 e il 1925.

Lo sport dello sci è presto ufficializzato con la fondazione dello Ski Club di Monaco di Baviera e dell’Erste Wiener Ski Club di Vienna, tra il 1890 e il 1891. Monaco e Vienna sono le prime città delle Alpi ad accogliere e promuovere l’eredità scandinava estendendola ai ripidi e severi pendii di casa. Dietro alla svolta ci sono i pionieri della tecnica e della divulgazione, tra cui lo stesso Zdarsky e il grande sciatore Wilhelm Paulcke, professore a Oxford e storico della montagna, che nel 1896 realizza l’ascensione dell’Oberalpstock, 3328 metri, e nel 1897 partecipa al primo raid sci alpinistico della storia: la traversata delle Alpi bernesi in quattro giorni. Senza dimenticare il parigino Henry Duhamel, che all’Esposizione universale di Parigi del 1878 acquista da un venditore norvegese un paio di lunghe e strette planchettes che gli scandinavi usano in inverno, e poi importa quattordici paia di sci da distribuire agli amici coraggiosi. Duhamel apre la strada al primo Ski club francese, fondato a Grenoble nel 1896.

In una nube di polvere bianca

Il padre dello sci italiano è l’ingegnere svizzero Adolfo Kind, un uomo non più giovane che guarda lontano. Kind intende la passione per lo sci come una «malattia» collettiva fondata sul contagio, intraprendendo un’azione di apostolato che in poche stagioni, a cavallo del secolo, introduce il nuovo mezzo tra gli alpinisti subalpini diffondendo l’eleganza del gesto e l’ebbrezza della velocità sulle Alpi innevate. Nel 1896 porta a Torino due paia di «assi» di frassino: gli ski norvegesi. Li mostra ai torinesi nella bizzarra abitazione che si è fatto costruire in stile nordico, con tetti alti e spioventi, non lontano dal Po e dal Parco del Valentino. Lo racconta Ettore Santi confermando che Adolfo e compagni calzarono i primi sci sul tappeto di casa Kind, divertiti e stupiti come bambini, e impazienti di lanciarsi sulla neve vera:

la prima lezione la diede appunto lui, Kind, nella sua casa di Torino. Aveva invitato alcuni amici e presentò loro due paia di sci, i primi sci. E lì, gli invitati increduli, si provarono a calzarli tentando anche di compiere una «voltata». Le prime sciate ebbero poi luogo in collina, su qualche prato, spingendosi a cercarne fino all’Eremo e seguendo, in discesa, strade incassate. Di sera le esercitazioni avvenivano sui brevi cocuzzoli del Parco del Valentino.

Kind era figlio di un pastore protestante, come la maggior parte dei protagonisti della storia della neve e del ghiaccio. Giorgio Calcagno spiega che «veniva da una famiglia del gruppo walser che per secoli era vissuta negli alti pascoli della valle di Davos, con la mansione, tra l’altro, di tenere aperti i passi alpini. La montagna faceva parte del suo patrimonio genetico; anche se, dal Quattrocento, i Kind erano scesi a Coira, la capitale dei Grigioni. E a Coira Adolfo era nato, nel 1848: l’anno in cui nasceva tutto in Europa, e perfino in Svizzera. Dopo gli studi di chimica si era laureato ingegnere a Basilea e si era trasferito presto in Italia, per andare a dirigere una fabbrica di candele a Mira».

L’avventura delle candele finisce con un brusco licenziamento e Kind cerca fortuna a Torino, dove allestisce una fabbrica di lucignoli destinati a illuminare sacrestie e austeri palazzi nobiliari mentre in Europa si diffondono le lampadine elettriche. Ma Adolfo ha ben altro nella testa, lui pensa allo sci. La magia della discesa l’ha conquistato perché risponde perfettamente al connubio di ingegno illuminista e di energia visionaria che indica la strada del progresso all’alba del Novecento. Un modernismo frenato da tenaci reminiscenze romantiche; la forza sperimentale addolcita dal gusto e dal sentimento.

Straordinario è il mezzo e straordinaria è la facilità con cui lo sci si sposa con la tradizione alpinistica subalpina, conquistando gli austeri figli del Club Alpino Italiano. Evidentemente tanto austeri non sono, gli alpinisti torinesi, e lo sci fornisce loro due risposte ad altrettanti bisogni: ufficialmente li aiuta a raggiungere e salire le montagne d’inverno, inconsciamente li libera dal fardello della vetta e consente loro di giocare sui campi di neve, «volare» come gli uccelli, lasciarsi andare. Le azioni infantili che in parete possono costare perfino la vita, sugli sci diventano gioco, ebbrezza e liberazione. Racconta nel 1898 uno di quegli alpinisti, l’ingegnere Adolfo Hess, sulla rivista del Club Alpino:

Sono arrivati da Zurigo altri tre paia di sci Jakober, nuovi fiammanti: frassino scelto, venatura sottile e fitta, regolarissima da cima a fondo, senza una sola deviazione, senza un nodo. Questi sci devono camminare da soli: arriveremo in cima al Cugno in un batter d’occhio... Coraggio Paolino: domattina si parte col primo tram di Giaveno, si va a Pra’ Fieul e poi su, su, colle ali ai piedi... Domani è la gran prova: ora andiamo a dormire, ché alle cinque bisogna essere alla stazione del tram. Faccio la strada da corso Dante a piazza Solferino quasi di corsa, per guadagnare qualche minuto; il cielo è stellato e il termometro dev’essere parecchio sotto zero: domani avremo una magnifica giornata... Mi caccio nel letto, mi addormento di colpo e sogno distese di neve e scivolate fantastiche: gli sci vanno dove voglio e come voglio, con una facilità mirabolante scendo, scendo veloce, in una nube di polvere bianca...

La realtà è molto diversa e i pionieri devono vedersela con un gelido viaggio in tram, tra i finestrini rotti e il puzzo nauseante della lampada a petrolio, gli scarponi congelati, una brodaglia calda alla stazione di Giaveno e poi su a piedi sulla mulattiera, incespicando sul ghiaccio fino ai campi innevati, finalmente:

Proviamo a voltarci, col lungo unico bastone di bambù puntato a valle. Passo il bastone all’indietro e mi appoggio sopra colle due mani, come si scende d’estate sui nevai; d’un tratto gli sci si muovono, la raspa di ferro solleva la neve in una nuvola di polvere, faccio sforzi tremendi per non cadere seduto all’indietro. In un tratto di pendio dove il vento ha spazzato la neve polverulenta prendo una velocità inquietante. Premo con tutta la forza della disperazione sul bastone: la raspa si incastra ed eccomi a terra, in un groviglio di ossa e di legni... Riesco a malapena a separare questi da quelle, mi rimetto in piedi, riparto...

Lo slancio di telemark

Nel giorno più corto del 1901, sull’esempio dei club di Austria e Svizzera, nasce lo Ski Club di Torino e la rivista del CAI registra l’avvenimento: «Per iniziativa dell’ingegner Adolfo Kind e di altri soci del Club Alpino Italiano il 21 dicembre ebbe luogo in Torino alla sede del Club una riunione tra i dilettanti di pattinaggio alpino cogli ski, nella quale venne fondato lo ‘Ski Club’ allo scopo di addestrarsi al pattinaggio ed alle escursioni cogli ski e di dare uno sviluppo allo sport invernale». La definizione di «pattinaggio alpino» conferma che lo sci dei pionieri è un mezzo per scivolare sulla neve superando salite e discese. Gli sciatori si sorreggono su un lungo bastone che dopo qualche anno sarà sostituito dai due bastoni. Il tallone libero rende la pratica assai simile allo sci di fondo con tecnica classica, o passo alternato, anche se i più bravi, nelle discese più sostenute, tentano di imitare la tecnica del telemark importata dalla Norvegia, l’elegante stile di voltata e arresto con uno sci più avanzato dell’altro che è anche chiamato «slancio di telemark».

Già si guarda a nuovi orizzonti, salendo montagne e scendendo pendii in Valle di Susa, nelle Alpi Marittime e persino sulle Alpi svizzere. Nell’inverno del 1903, sulle nevi di Adelboden si tiene il Convegno internazionale degli Ski Club europei, con la partecipazione di club svizzeri, tedeschi, austriaci, italiani e norvegesi. Alla fine di aprile 1905 Adolfo Kind, che ha intuito la convenienza di affrontare l’alta montagna in primavera quando le giornate sono più lunghe e la neve è più assestata, tenta di raggiungere i quattromila metri con gli sci affrontando il primo ghiacciaio:

Il 24 aprile – dice la nota dell’ascensione – i signori ing. Adolfo Kind, Ettore Canzio, Mario Corti, da Torino per Verrès si recavano a pernottare a Fiéry (1878 m), il cui albergo è aperto tutto l’anno. Il giorno dopo ne partivano alle 3,15 diretti alle Cime Bianche; i primi ripidi pendii, che erano di neve dura, furono superati con ramponi; più in alto, la neve essendosi fatta sufficientemente soffice, vennero calzati gli ski. Il colle est delle Cime Bianche fu attraversato alle 10, e verso le 15 veniva raggiunto il Colle del Breithorn (3834 m), mentre all’intorno si scatenava una furiosa bufera proveniente dall’Oberland. Deciso il ritorno, stato poi ritardato per la rottura d’un bastone, alle 17,30 si passava il Colle di San Teodulo, alle 19 il Giomein, e si giungeva a Valtournanche alle 22.

Nel febbraio del 1906, a Sauze d’Oulx in Valle di Susa, si organizza il primo corso aperto ai soci degli Ski Club e agli ufficiali dei reggimenti alpini. Per la direzione del corso viene scomodato il celebre campione norvegese Harald Smith:

Il simpatico signor Smith – riporta la relazione dell’epoca – si dimostrò valente maestro e diede brillanti saggi della sua varia e meravigliosa abilità, con rapide salite su ripidi pendii nevosi, con velocissime scivolate e corse, con arresti e svolti istantanei, e coi famosi salti che, per non essere la località convenientemente preparata, si limitarono ad una ventina di metri di percorso aereo, sempre dimostrando una grazia e una sicurezza impressionante.

Nel 1907 arrivano le prime gare internazionali al Colle del Monginevro, con buone prestazioni degli sciatori italiani, e Adolfo Hess, che è considerato lo scrittore e l’intellettuale del gruppo, ne approfitta per un ringraziamento, quasi una premonizione: «Se tanto graditi ed indimenticabili ricordi abbiamo riportato... non dobbiamo dimenticare che in questa contingenza tutta la nostra gratitudine va in modo speciale rivolta ad Adolfo Kind, colui che primo in Italia introdusse ed usò gli ski, di cui predicò l’esercizio e previde la diffusione, coll’esempio e colla fede di un apostolo».

È l’ultimo saluto, perché il povero Kind muore ad agosto sul Pizzo Bernina lasciando al figlio Paolo l’eredità sportiva e morale dello sci.

Sciare in salita

Non tutti gli sciatori cercano il piacere della discesa. C’è chi, fedele allo sci delle origini, usa gli assi innanzi tutto per salire le montagne innevate, come osserva lo storico dell’alpinismo invernale Ercole Martina: «Mentre cadevano le vette più importanti e si chiudeva la prima fase dell’alpinismo invernale, Vittorio Sella e altri aprivano la fase successiva che doveva portare gli alpinisti a percorrere itinerari diversi dalla via normale e a salire le cime minori, mentre nasceva lo sci alpinismo. Confortati dai risultati delle loro prime esperienze, gli alpinisti sciatori si spinsero più in alto, fino a raggiungere le cime più elevate: Paulcke fu il primo grande di questa nuova schiera. Poi venne Kurz».

L’ingegnere topografo di Neuchâtel Marcel Kurz, figlio di un insegnante di violino, è stato il più importante interprete e teorizzatore dell’uso degli sci sui ghiacciai delle Alpi. Il suo libro Alpinisme hivernal è diventato il manifesto di una generazione:

Dalla mia posizione dominavo il ghiacciaio del Gorner – annota lo svizzero nel marzo 1915, durante una campagna sul Monte Rosa –. Come da uno scoglio scosceso i miei sguardi erravano sul suo corso abbagliante cercando incoscientemente qualche punto mobile, come Robinson sulla sua isola a spiare invano l’arrivo di una nave. Ma come i suoi, anche i miei occhi furono delusi. Nulla turbava l’immobilità delle nevi e il Gorner pareva sprofondato in un oblio eterno... E intanto la vita più intensa ci passava accanto, nell’aria azzurra; la si sentiva palpitare sui fianchi del Lyskamm, vicinissimo; lassù, sulla sua cornice ondulata nel cielo, e là ancora nelle ombre che scivolavano ai suoi piedi, lambendo i seracchi.

L’obiettivo del Kurz è la bianca cima del Lyskamm Orientale lungo la cresta vertiginosa che sale dal Colle del Lys. La comitiva raggiunge il colle con gli sci e cerca riparo dal vento alla Roccia della Scoperta, sugli stessi sassi su cui i sette ragazzi di Gressoney, nel lontano 1778, erano venuti a cercare la Valle perduta degli antenati walser:

Appena fummo sulla cresta il vento cessò come per incanto, e questa fu una fortuna perché non so che cosa sarebbe stato di noi se avessimo dovuto conservare l’equilibrio contro la violenza delle raffiche. Quando si è andati a passeggio per tante ore con gli sci su vasti campi di neve, e si lasciano d’un tratto i lunghi pattini per calzare i ramponi e impegnarsi su una cresta affilata come quella del Lyskamm, ci vuole un momento per ritrovare lo sdegno suberbo che se ne ride degli abissi e del pericolo.

Sulla cima del Lyskamm, mentre conta i quattromila del Vallese con il cappello in testa e la pipa in bocca, Kurz sa che la stagione dello sci alpinismo è appena cominciata perché «l’inverno alpino è molto più lungo di quello del calendario». C’è la fase «dell’innevamento preliminare», poi viene la fase centrale «di massima secchezza» in cui la neve polverosa è lavorata e spazzata dal vento, e infine arriva la terza e ultima fase «dell’innevamento definitivo» che precede l’estate alpina. Aprile e maggio sono i mesi più adatti allo sci, quando la neve si compatta sotto l’azione del sole e del gelo notturno, ammorbidendosi come una moquette nelle mattine di primavera. Arnold Lunn condivide la tesi di Kurz: «Mai le Alpi sono più meravigliose che in maggio, quando la loro bellezza è fatta di contrasti... non vi è vagabondaggio in sci paragonabile a quello di primavera sui ghiacciai».

Maratona a quattromila metri

Nel processo di riconquista dei ghiacciai con gli sci manca un tassello: la competizione. L’idea matura nel clima del Ventennio, quando la pratica dello sci alpinismo è abbastanza sperimentata da poter affrontare i ghiacciai a passo di corsa e lo spirito eroico della Grande Guerra non è ancora così lontano. Anzi:

Le facilitazioni che il Governo e le Autorità militari largiscono agli sciatori sono date con il preciso intento di fare negli anni che verranno, della nostra barriera alpina, non una semplice espressione geografica o figura retorica, ma il principale elemento del nostro ordine militare... Ancora troppi sciatori usano gli sci per semplice svago e ricreazione. Occorre che le competizioni sportive e specialmente le salite invernali entrino nell’abitudine della massa. Necessita cambiare le regole e anziché rigare di piste parallele i soliti campi domenicali, preferire la rude competizione che scaglia l’uomo verso il traguardo...

Un anno prima che il Club Alpino Italiano pubblicasse questo appello al sacrificio era scomparso uno dei grandi dello sci alpinismo: Ottorino Mezzalama. Bolognese di nascita e torinese di adozione, ginnasta e schermitore, raffinato conoscitore della montagna invernale, aveva dedicato gli anni Venti all’esplorazione della catena alpina, tracciando una lunga traversata ideale dalle Alpi Liguri al Passo del Brennero. Proprio a un passo dalla fine, nell’inverno 1931, era finito sotto una valanga sulla Cima del Bicchiere in Alto Adige. La grave perdita andava onorata in degno modo, così gli amici del Club Alpino Accademico e dello Ski Club Torino decisero di dedicargli una gara sul Monte Rosa: la «maratona dei ghiacciai». Il percorso era quanto meno straordinario: dal Colle del Teodulo, lo storico valico di collegamento tra il Vallese e la Valtournenche, toccava il Colle del Breithorn, saliva la parete ovest del Castore, scendeva al Colle di Félik, attraversava il Naso del Lyskamm e raggiungeva infine la capanna Gnifetti e l’alpe Gabiet nell’alta valle di Gressoney. Buona parte del tracciato si sarebbe svolta sopra i quattromila metri.

La prima edizione del Trofeo Mezzalama si disputa con tempo molto incerto il 28 maggio 1933. Partecipano quattordici cordate, tra cui dodici italiane, una svizzera e una tedesca; le due cordate francesi si ritirano. Il traguardo è anticipato alla capanna Quintino Sella al Félik, poco oltre metà tracciato, perché la corsa è massacrante e si teme per la salute dei concorrenti. Vincono le guide di Valtournenche Luigi Carrel detto Carrelino, Antonio Gaspard e Pietro Maquignaz, in due ore e tre quarti. Le tre guide di Zermatt sono sconfitte per cinquanta secondi.