XXIV.
La teatrale risalita del ghiaccio

Tra le pagine del Mont Analogue di René Daumal, uno dei libri di culto del Novecento francese, si annida la memorabile descrizione di un ghiacciaio. L’autore è morto prima di terminare il suo «romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche», tuttavia ha fatto in tempo a dirci che il ghiaccio vive e si riproduce.

I ghiacciai sono esseri viventi, in quanto la loro materia si rinnova con un processo periodico in una forma quasi permanente. Il ghiacciaio è un essere organizzato: con una testa che è il suo nevaio, con cui bruca la neve e ingoia dei frammenti di roccia, testa ben divisa dal resto del corpo dalla crepaccia terminale; poi un enorme ventre, in cui si compie la trasformazione della neve in ghiaccio, ventre inciso da profondi crepacci e da solchi, canali escretori dell’acqua superflua; e nella sua parte inferiore rigetta, sotto forma di morena, i rifiuti del proprio nutrimento.

La sua vita è ritmata dalle stagioni. D’inverno dorme e in primavera si risveglia, con scoppi e scricchiolii. Vi sono persino dei ghiacciai che si riproducono secondo dei processi che non sono certo più primitivi di quelli degli esseri unicellulari, sia per congiunzione e fusione, sia per scissione, che dà origine a quelli che si chiamano i ghiacciai rigenerati...

La formazione del ghiacciaio comincia con la trasformazione di un fiocco di neve caduto dal cielo e posato sulla terra. Il fiocco quando atterra è un capolavoro di complessità, meravigliosa forma cristallina. Come un neonato dalle straordinarie possibilità evolutive racchiude in una stella l’infinità delle forme che assumerà da adulto. Al microscopio sembra una creazione artistica. Non ce n’è uno uguale al proprio fratello, sono origami, tele di ragno, fantasie di gelo rappreso, tuttavia ogni fiocco è destinato a semplificarsi per aderire al fiocco vicino, oppure a sparire sotto i raggi del sole. Se la temperatura è abbastanza alta il fiocco fonde; se non lo è evapora per un processo di sublimazione. In un modo o nell’altro, se non ritorna allo stato liquido, il fiocco di neve invernale diventa un compatto cristallo di ghiaccio primaverile. Per gli sciatori è la neve granulosa; alcuni glaciologi la chiamano «neve vecchia». Se i granuli resistono senza fondere al calore dell’estate successiva prendono il nome di firn, un termine dialettale che significa «vecchio di un anno»; l’insieme del firn è la neve persistente dei nevai. Neve perenne o neve eterna, come s’insegnava a scuola.

La lingua di neve compattata e «perenne», che eterna non è, diventa finalmente un ghiacciaio quando raggiunge il necessario spessore e comincia a scorrere sotto la spinta del proprio peso, superando la resistenza interna del ghiaccio di cui è fatta e vincendo l’attrito con il suolo. L’immagine più convincente è del geografo francese Élisée Reclus:

Siccome il ghiacciaio non ha l’agilità né la fluidità dell’acqua, compie tutti i movimenti impostigli dalla natura del suolo con barbara goffaggine. Nelle cateratte non sa precipitare in un velo unito come la corrente d’acqua, ma secondando le ineguaglianze del fondo e la coesione dei cristalli di ghiaccio si spezza, si fende, si spacca in blocchi che pendono variamente e si accavallano, rinsaldandosi in obelischi bizzarri, torrette, raggruppamenti fantastici...

I ghiacciai si muovono, si trasformano, crescono e si ritirano. A volte muoiono. In una parola: vivono. Se lo spessore e la quantità del ghiaccio superano l’equilibrio di massa, il fiume gelato avanza e si fortifica; se invece l’apporto invernale di neve è insufficiente, la fronte della lingua arretra e le dimensioni della massa si riducono. Allora il ghiacciaio smagrisce, s’impoverisce, fonde e subisce un malinconico destino di consunzione.

Alpi spogliate

Sulle Alpi il ritiro dei ghiacciai comincia verso il 1850, con la fine della Piccola Età Glaciale. A partire dal 1860 il regresso è pressoché continuo, salvo qualche temporanea ripresa tra il 1883 e il 1892, tra il 1913 e il 1921 (in corrispondenza dei terribili inverni della Grande Guerra) e tra il 1972 e il 1986. Il fenomeno è già chiaramente visibile alla fine dell’Ottocento, come testimonia l’alpinista scrittore austriaco Eugen Guido Lammer:

si parla sempre del ritiro dei ghiacciai e si ha cura di prendere le misure, ma si fa appena attenzione al fatto che le pareti nevose scompaiono e in tal modo va mutando l’aspetto del paesaggio. Quando negli anni Novanta e poi nel nuovo secolo ebbi a confrontare i monti dello Ziller con l’immagine che era nella mia memoria dal principio degli anni Ottanta, riconobbi con rammarico che l’ermellino un tempo così regale di molte cime s’era screpolato e fatto maculoso; per esempio il Thurnerkamp visto da nord era diventato quasi un altro monte; al posto della parete nord ammantata di neve, una volta così ragguardevole, l’epigono non trovava che un’antipatica arrampicata su lastroni screpolati di ardesia ingombri di detriti bagnati.

Nel 1875 l’abate lecchese Antonio Stoppani dà alle stampe Il Bel Paese, straordinaria fotografia del giovane stato unitario. Quando il suo viaggio attraverso l’Italia si ferma a Santa Caterina di Valfurva, ai piedi del Cevedale e del Gran Zebrù, l’abate osserva con commozione che la volta frontale del ghiacciaio dei Forni è precipitata sul pianoro erboso lasciando dei «ruderi rappresentati da enormi masse di ghiaccio». Il piano di Santa Caterina è stato inondato dalle acque di fusione e

i beventi, levatisi a mane, lo videro tutto sparso di blocchi. Il più allegro all’occasione fu l’oste, il quale non tardò di approfittare di quella grazia di Dio per rifornire con poca spesa le esauste ghiacciaje... La curva di quella volta meravigliosa disegnavasi ancora entro la massa; ma il fiume sgorgava tra le macerie cristalline di quella specie di palazzo di cristallo. Non temete però; quando voi (lettori) andrete a visitare il ghiacciajo del Forno, forse esso avrà riparato le sue rovine.

In seguito Stoppani aggiunge una nota a piè di pagina:

L’augurio non valse. Il ghiacciajo del Forno andò sempre peggiorando e perdendo terreno in questi ultimi anni, che segnano un periodo di regresso universale dei ghiacciai alpini.

Nel 1934 il geologo e glaciologo italiano Federico Sacco pubblica un grande studio delle Alpi che colpisce per la completezza delle argomentazioni e la qualità del supporto fotografico. Anche Sacco evidenzia il processo d’invecchiamento delle prime linee glaciali, che ricordano certe fronti umane inesorabilmente destinate alla calvizie:

davanti alla fronte sonvi spesso collinette moreniche arcuate, per quanto più o meno sbrecciate dal dilagante torrente subglaciale; sono appunto le morene frontali, collegate alle morene laterali. Sono morene storiche, cioè relativamente recenti, risalendo la loro deposizione appena al secolo XIX; cioè le più esterne ed elevate risalgono al principio del secolo scorso con un maximum verso il 1820, e quelle più interne alla metà del secolo scorso, verso il 1850-60; mentre in seguito le fronti glaciali si ritirarono...

Nel 1877 la capanna Konkordia era stata prudentemente ancorata alla roccia cinquanta metri sopra il fiordo gelato dell’Aletschgletscher, nel cuore profondo dell’Oberland. Se l’Aletsch fosse avanzato restava un buon margine di sicurezza, invece è successo il contrario: lo spessore del ghiaccio è talmente diminuito da rendere sempre più difficile l’accesso al rifugio. Il sentiero della Konkordia hütte è stato spostato e sono state aggiunte delle scale. Nel 1975 hanno costruito una scaletta di metallo, prolungata nel 1996, poi di nuovo nel 1999 e molte altre volte ancora. Nel 2018 il rifugio è ormai «salito» di centocinquanta metri sul ghiacciaio, che continua a smagrire come un fiume in secca.

A Chamonix le cose non vanno meglio e anche la Mer de Glace sprofonda nel golfo di granito. A metà Ottocento il ghiacciaio sfiorava i campi e le frazioni di Chamonix, poi si è ritirato sul fianco della valle dell’Arve affacciando la fronte gelata sullo sbalzo di Montenvers; infine è sparito anche quello. Tra il 1860 e il 1870 il naturalista Venance Payot registra già un ritiro di oltre dodici metri l’anno. La discesa non si arresta e oggi abbiamo perso un chilometro abbondante di fronte glaciale. La meraviglia più descritta, dipinta e fotografata delle Alpi ha ceduto trenta ettari di materia prima tra il 1939 e il 1965. Dopo un decennio di relativa controtendenza, negli anni Ottanta la fusione della Mer de Glace ha ripreso vigore fino all’estate rovente del 2003, quando il «mare» spariva a vista d’occhio. Allora per salvare la grotta di ghiaccio hanno steso dei drappi bianchi che sembrano teli da morto e per raggiungere il ghiaccio dalla stazione del treno di Montenvers hanno costruito una scala di quattrocento gradini sotto l’albergo. Scendendo la scala come in un viaggio verso il destino si oltrepassano numerosi cartelli che indicano il Niveau du glacier dans l’année..., che significa «Una volta qui c’era il ghiacciaio». A un certo punto della scala s’incontra il 1985, cinquanta gradini dopo si arriva al 1990, poi comincia la corsa alla fusione fulminea. Arrivati al cartello del 2010 mancano almeno settanta gradini.

Mutazione estetica

Per tutto il Novecento il paesaggio delle Alpi si trasforma sotto gli occhi distratti dei turisti, finché il cambiamento assume le dimensioni di un dramma epocale. In un secolo e mezzo sparisce il cinquanta per cento della superficie glaciale. Se nel 1850 i ghiacciai coprivano circa 4500 chilometri quadrati di terreno, nel 1989 la superficie era ridotta a 2900 chilometri e nel Duemila ne restavano 2270. Poi la discesa ha accelerato. Nel nuovo millennio i ghiacciai delle Alpi, e non solo, sono regrediti ovunque a sorprendente velocità, fondendo insieme al permafrost, lo strato di suolo gelato che funge da collante contro le frane e la destabilizzazione dei versanti. Le bianche chimere che stregarono i cuori dei viaggiatori romantici soffrono e invecchiano come corpi affetti da una patologia incurabile. Molti ghiacciai sono già malati terminali. Soffre e appassisce l’idea stessa della montagna alpina, che da che mondo è mondo – il nostro mondo, ovviamente – è un’immagine multicolore di foreste e radure fino a duemila metri, pascoli sopra i duemila, lingue di ghiaccio in cima alle valli e nastri di neve sulle creste. Senza il ghiaccio le Alpi non esistono nella fantasia della gente.

La mutazione del paesaggio spicca più d’estate che d’inverno, e ai giorni nostri basta calpestare l’asfalto rovente di Chamonix o Courmayeur in certi pomeriggi d’agosto per capire che se la febbre continuerà a salire il Monte Bianco non sarà più se stesso tra mezzo secolo. Sapremo amare un Monte Grigio? Ormai si sogna sulle cartoline d’epoca, perché i ritrattisti e i fotografi sono riluttanti a dipingere nature appassite e le aziende di soggiorno sollecitano i pubblicitari a imbiancare i paesaggi con Photoshop, edulcorando e fingendo. Ma purtroppo la scienza non ha dubbi. I glaciologi prevedono la completa scomparsa dei ghiacciai alpini sotto i tremilacinquecento metri entro il 2050 e i botanici predicono l’innalzamento della fascia vegetazionale da quattrocento a settecento metri. L’ipotesi ci avvicinerebbe in tempi brevi ai mitici scenari walser e alla narrazione che sovrastimò le temperature del tardo Medioevo immaginando campi di cereali nelle terre più alte, alberi da frutto al posto delle conifere ed erba pascolabile nelle conche dei nevai. In questo secolo rischiamo di avverare la leggenda, anche se più nessuno rimpiange un Eden senza ghiacciai.

In un’intervista dal titolo molto esplicativo – Nessuno crede a ciò che non è mai successo –, la climatologa svizzera Martine Rebetez assicura che

cambieranno il paesaggio naturale e la vegetazione spontanea. Per le colture può essere un vantaggio, perché gli abitanti delle Alpi hanno sempre dovuto lottare contro un clima troppo freddo e un’estate troppo breve. Con l’aumento delle temperature si allungherebbe il periodo utile per le semine e le coltivazioni. Una conseguenza negativa potrà tuttavia derivare dalla maggiore frequenza dei periodi di siccità; se poi viene a mancare l’acqua di irrigazione dei ghiacciai, per i terreni e le colture le difficoltà aumentano. Un altro problema potrebbe nascere dai parassiti, che attaccherebbero le piante anche a quote in cui in precedenza non sarebbero sopravvissuti.

Le piante e gli animali sono i primi maestri dell’adattamento. Durante le grandi glaciazioni alcune specie abituate ai climi polari si spostarono verso sud e si adattarono al nuovo ambiente, per poi risalire alle latitudini artiche dopo il ritiro dei ghiacciai. Non tutti i viventi fecero ritorno a casa e qualcuno riuscì a sopravvivere nel nuovo habitat cercando l’ambiente più simile al suo. Li hanno chiamati «relitti glaciali» e sono i migranti da altri climi e i testimoni di altri mondi. Oggi vivono sulle Alpi perché hanno sfruttato le affinità ambientali. Così alcuni uccelli provenienti dalla Siberia, come la civetta nana e il picchio tridattilo, oggi abitano le foreste di abeti. Così alcune piante che erano scese a valle con l’avanzata dei ghiacciai sono già in cammino per riconquistare le morene.

Si va verso una natura alpina inevitabilmente più verde e meno bianca, montagna stempiata e ricolonizzata, un’alpe calda e mediterranea, anche se ci vorrà del tempo prima che le piante pioniere rinverdiscano le lande pietrose lasciate libere dal ghiaccio e gli animali si adattino alle nuove condizioni. Intanto cambieranno le rappresentazioni e muteranno gli immaginari. Gli abitanti e i frequentatori delle alte Alpi occidentali, le alte Alpi, si dovranno rapidamente abituare a un paesaggio sempre più lontano dalle cartoline svizzere e sempre più vicino agli scenari montani degli Appennini o delle Alpi orientali.

Nuovi paesaggi, nuovi sguardi

Torna alla mente l’antica querelle tra occidentalisti e dolomitisti al tempo del fascismo, quando gli alpinisti delle Alpi occidentali dileggiavano i colleghi delle Dolomiti perché li consideravano interpreti di un alpinismo minore. Che alpinismo è se manca il ghiaccio e non si lotta con i ghiacciai?, dicevano. I Monti Pallidi erano bollati come «paracarri» di bassa quota, guglie di mare, relitti di scogliere, ammassi di conchiglie. Sulle crode dolomitiche gli scalatori si permettevano di arrampicare senza gli scarponi e la piccozza, simboli sacri della montagna, danzando leggeri e scanzonati sotto i raggi del sole. Quello non era alpinismo – ripetevano gli occidentalisti –, quella era solo un’esibizione da circo.

La storia del clima li sta sbugiardando perché la mutazione delle Alpi pende decisamente a est. Il ritiro dei ghiacciai va trasformando ogni alpinista in un «orientalista» nel senso fisico e culturale del termine. Predomina il secco ovunque, anche dove una volta il ghiaccio teneva insieme le rocce. I turisti e i villeggianti cominciano a pensare alle Alpi come a un luogo non troppo freddo d’inverno e fin troppo caldo nella bella stagione, con apporti nevosi destinati a fondere prima di diventare ghiaccio e lunghe estati sconfinanti nei territori dell’autunno. Gli scalatori cancellano i versanti soggetti ai crolli e alle frane, sostituendo gli scarponi con le scarpe da escursionismo. Perfino i più irriducibili sciatori rinunciano a scivolare a ferragosto sui ghiacciai perché lo sci estivo non ha più senso.

L’arretramento dei ghiacciai ricorda con un grido ancestrale che neanche le montagne sono eterne. Tutto cambia e si trasforma, tutto muore per rinascere, perché «così procede la storia geologica – ci ha insegnato il geografo Eugenio Turri –, con episodi banali, scontati, di meccanica semplice: eppure sono questi episodi, come battiti cronometrici, che ci danno il senso e la misura drammatica, altamente sublime, del tempo profondo, sommatoria di fatti minimi che affascinano e riempiono il nostro sguardo».

Lo smarrimento dei padroni dell’Antropocene, com’è stata definita l’attuale era geologica, non sta tanto nell’apprendere che le rocce e i ghiacciai si disgregano e scompaiono come fossero esseri viventi, pur con tempi d’invecchiamento infinitamente più dilatati. La vera sorpresa è scoprire che i tempi incommensurabili della natura, con l’amplificata capacità distruttiva della civiltà industriale, possono rapidamente avvicinarsi ai tempi fuggevoli della vita umana, generando angoscia, smarrimento e senso di colpa. La civiltà che ha prima addomesticato e poi rimosso la sensazione del freddo, creando costanti condizioni di vita sopra i venti gradi, tutto a un tratto si accorge di avere bisogno dell’inverno.