XXV.
Cronache dai poli
I «ghiacciai locali» come quelli alpini e himalayani rappresentano meno dell’uno per cento della copertura glaciale terrestre, mentre il restante novantanove per cento appartiene alle grandi estensioni polari e groenlandesi. Dunque era chiaro che la risposta alle urgenti domande sul clima andava cercata nei mari congelati dell’Artico e nei gelidi scrigni dell’Antartide, dove il ghiaccio raggiunge chilometri di spessore. Per paradosso bisognava allontanarsi dal centro delle attività umane per scoprire gli effetti dell’industrializzazione, dell’inquinamento e del riscaldamento globale.
Nel 1955 un ragazzo ventitreenne di nome Claude Lorius laureato in Fisica all’Università di Besançon risponde a un piccolo annuncio della bacheca: «Cerchiamo giovani ricercatori in buona salute e che non temano la solitudine per le campagne di studio promosse dall’Anno Geofisico Internazionale». Claude è magro, visionario e volitivo, e non sa ancora che passerà sei anni della vita in capo al mondo. Tuttavia sa perfettamente che non vuole chiudersi in un laboratorio perché le frontiere della scienza sono sul terreno.
Nel 1956 il ragazzo raggiunge la sperduta base di Charcot, più una baracca che una stazione scientifica, dove fa la conoscenza del feroce inverno antartico e s’innamora del Polo Sud. Intuisce che i ghiacci contengono dei segreti, anche se è presto per dare corpo e respiro alle sue visioni. «L’obiettivo della missione – ricorda Claude – era tastare il polso del continente bianco, di cui all’epoca si ignorava quasi tutto. Non sapevamo nemmeno perché facesse così freddo. Eppure quell’inverno ha segnato per sempre la mia vita.»
Le missioni continuano negli anni Sessanta e Settanta, quando la tecnica del carotaggio del ghiaccio è ancora pionieristica e imprecisa. Manca soprattutto un metodo scientifico in grado di datare i cerchi progressivi delle carote estratte, in modo da trarne indizi utili a decifrare la storia del clima.
Bolle di ghiaccio nel whisky
La svolta arriva casualmente alla base costiera di Dumont d’Urville davanti a un bicchiere. Mentre un pezzetto di Antartide raffredda il whisky di Claude Lorius, il giovane scienziato si accorge che il ghiaccio che galleggia nel bicchiere contiene delle bolle d’aria. In quel momento capisce di avere la chiave davanti agli occhi, perché è probabile che le bolle abbiano conservato l’aria del passato e dunque siano in grado di restituirne la composizione. È un lampo, un’intuizione. Tornato in Francia, Claude si affida al prestigioso Laboratoire de Glaciologie del CNRS di Grenoble per mettere a punto l’analisi chimica del ghiaccio e calcolare la percentuale di anidride carbonica imprigionata nei millenni. L’analisi riesce, il modello funziona. A quel punto il problema si sposta sulle tecniche di carotaggio, che all’epoca si fermano ai 35.000 anni di datazione storica. Troppo poco per le ambizioni di Lorius, che vuole andare più a fondo. Allora si rivolge a chi ha più «carotato» il cuore dell’Antartico, cioè ai ricercatori sovietici che dalla fine degli anni Cinquanta tentano delle perforazioni straordinarie nella spartana stazione di Vostok, uno dei posti più freddi del pianeta, dove per resistere al gelo si alterna volentieri il whisky con la vodka. Ignorando la guerra fredda, l’équipe francese collabora con quella sovietica e Lorius si guadagna l’amicizia di Volodya Kotlyakov, direttore dell’Istituto di Geografia di Mosca.
22 dicembre 1984: i frenchies del laboratorio di Grenoble raggiungono la base russa. La campagna ci aprirà le porte di un tesoro, perché le carote estratte dai sovietici a grande profondità sono conservate nel Polo del freddo. Le nostre giornate sono ben spese. A quaranta gradi sotto zero cominciamo a ordinare, esaminare, campionare, imballare, etichettare... Come abbiamo sempre fatto, ma senza l’ansia della risalita incerta dei carotieri. Qui le carote sono già a disposizione, stipate in un rifugio sicuro, e nei giorni migliori riusciamo a trattare da trenta a quaranta metri di ghiaccio.
Alla fine della campagna Lorius torna a Grenoble con 2083 metri di carote, che permettono di svelare 150.000 anni di clima terrestre analizzando la composizione dell’atmosfera. I prelievi di Vostok spalancano il libro segreto della Terra. I ghiacci profondi del Polo Sud rivelano che le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica e metano, i principali gas a effetto serra, sono aumentate del trenta per cento dalla fine dell’ultimo ciclo glaciale. Non è difficile correlare il riscaldamento climatico alle emissioni dell’era industriale. Il ghiaccio ha registrato tutto, dalle polveri vulcaniche alle sabbie del deserto, dal piombo della benzina alle tracce delle esplosioni nucleari. Il ghiaccio antartico sbatte in faccia all’uomo le conseguenze delle azioni passate e lo inchioda alle responsabilità del presente.
Analizzando il tasso di CO2 imprigionato nella piattaforma, Claude Lorius diventa un testimonial dell’emergenza climatica causata dall’accelerazione del riscaldamento globale. Negli anni Ottanta del Novecento lancia uno dei primi moniti alla comunità umana:
Il pianeta dovrà raffreddarsi sensibilmente nel ventunesimo secolo, altrimenti l’umanità rischia di compromettere le risorse idriche, l’agricoltura, la salute, la biodiversità e, in generale, le condizioni della vita.
Quasi nessuno ascolta il monito di Lorius, ma le ricerche continuano. Nel 1998 i russi arrivano a una profondità di 3623 metri e la datazione dei campioni di ghiaccio sale a 420.000 anni, confermando e accentuando le preoccupazioni degli scienziati. Allora Claude lancia un nuovo allarme:
L’uomo è diventato il primo attore nell’evoluzione del clima... Bisogna rispondere urgentemente all’allerta... Per rendere vivibile il pianeta occorre agire a livello internazionale privilegiando le fonti energetiche meno inquinanti, l’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, la rotaia al posto della gomma; e bisogna fare anche di più: ridurre le diseguaglianze, provvedere ai bisogni dei più poveri, allargare l’accesso all’educazione e impegnarci tutti di persona. Allora signori, io e voi che cosa faremo?
Ancora una volta lo scetticismo e il negazionismo oscurano i dati prodotti, documentati, confrontati, certificati e commentati dalla comunità scientifica, come se l’umanità non sia ancora in grado di accettare e metabolizzare l’emergenza climatica. Negando gli studi e ignorando il problema si sfugge alla responsabilità.
Intanto i carotaggi e la scienza avanzano a passi da gigante raccontando quasi un milione di anni di storia del clima, ma solo nel 2015, con l’Accordo internazionale sul Clima di Parigi, sembra che il mondo apra gli occhi. Proprio nel 2015 esce La glace et le ciel, la biografia cinematografica di Lorius, un film commovente e potente sulla vita dello scienziato intrecciata con la storia del ghiaccio e dell’uomo. L’ottantaduenne Claude torna in Antartide con il regista Luc Jacquet a rivisitare i luoghi della giovinezza con lo sguardo dell’uomo anziano. Scienza e poesia si fondono in un affresco epocale in cui le certezze del sapere convivono con le incertezze del progettare e del vivere. La delicata relazione è impersonata dallo stesso Lorius, un uomo fragile in giacca a vento celeste che scruta il mare di ghiaccio ricordando e pensando. Dopo decenni di attraversamenti avventurosi tra le domande della mente e i misteri della Terra, non gli restano che l’amore per un mondo d’incommensurabile bellezza e le perplessità verso un futuro di difficile interpretazione. La grande sfida per i giovani che si affacciano al mistero del ghiaccio, sessant’anni dopo di lui.
Ghiaccio di mare
Per il profano si chiama semplicemente «ghiaccio», ma ogni ghiaccio è diverso dall’altro. Come ogni glaciologo, naturalmente. Uno dei maggiori esperti mondiali del ghiaccio marino e degli oceani polari è Peters Wadhams, lo specialista britannico che ha scritto Farewell to Ice (Addio ai ghiacci) dopo aver condotto oltre cinquanta viaggi di ricerca nei mari estremi e dopo essersi immerso sei volte con un sottomarino nelle acque del Polo Nord per misurare e capire. Prima di svelare la clamorosa fusione dei ghiacci polari, Wadhams spiega che il ghiaccio di mare, quando congela in condizioni di acqua calma, si forma in questo modo:
mentre la fredda atmosfera sottrae calore alla superficie dell’acqua, le molecole superficiali iniziano a congelare. Il fenomeno produce uno strato sottile di cristalli di ghiaccio indipendenti che galleggiano sulla superficie. Ogni disco o stella rappresenta un cristallo e cresce in modo dendritico verso l’esterno, espandendo i suoi piani ad alveare come un fiocco di neve. Tuttavia le ramificazioni dei cristalli piatti sono molto fragili e si spezzano originando una miscela di frammenti di dischi e ramificazioni, una sorta di impasto semi liquido che ricorda il Latte di Magnesia...
L’impasto originario del ghiaccio marino si chiama frazil o grease ice, che alla lettera significa «ghiaccio oleoso». Se anche il frazil congela allora nasce il primo strato di ghiaccio «giovane», il nilas, poi arriva il ghiaccio del primo anno, che nell’Artico può raggiungere lo spessore di un metro e mezzo in una stagione, e avanti di questo passo. Wadhams precisa che il ghiaccio marino artico è diverso da quello antartico che prende corpo a inizio inverno vicino alla costa ed «è esposto a tutta la forza dell’oceano più grande del mondo». La turbolenza delle acque non consente al frazil di trasformarsi in una copertura omogenea di nilas e il ghiaccio si cristallizza in forma di «frittelle» gelate (pancake ice) che possono anche raggiungere i cinque metri di diametro e cominciano a congelarsi a gruppi, o a chiazze, presentando bordi e forme disomogenee che sporgono dalla superficie e creano un paesaggio simile a «un campo pietroso, come quei piccoli campi delimitati dai muri a secco».
Gli studi di Wadhams si concentrano soprattutto sul ghiaccio marino del Polo Nord, che è un eccellente «termometro» della temperatura terrestre. Nel 1987, attraverso le misurazioni sottomarine, lo scienziato di Cambridge verifica che lo spessore del ghiaccio artico è diminuito del quindici per cento rispetto al 1976 e tre anni dopo denuncia la scoperta sulla rivista «Nature», dimostrando che l’assottigliamento del ghiaccio marino sta accompagnando senza ombra di dubbio la diminuzione della superficie gelata che viene normalmente rilevata dai satelliti. Le ricerche continuano nel decennio successivo e
alla fine il risultato fu sconcertante. Avevamo le prove che negli anni Novanta del Novecento il ghiaccio si era assottigliato del 43 per cento rispetto agli anni Settanta, in termini di valore medio annuale per l’intero Artico... Il mondo aveva bisogno di essere avvertito, e abbiamo fatto del nostro meglio per metterlo in guardia. Purtroppo, non solo i politici e gli industriali non si mostrarono interessati, ma non lo furono neanche gli scienziati esperti di modellistica, che continuarono a utilizzare modelli matematici non realistici... La natura avrebbe presto dimostrato che si sbagliavano.
Nell’agosto del 2000 John Noble Wilford diffonde l’allarme sulle pagine del «New York Times», annunciando che secondo due esperti appena tornati dall’estremo settentrione del pianeta la calotta di ghiacci che per milioni di anni ha coperto il Polo Nord si è «sciolta». Gli scienziati affermano che si è aperta una chiazza di mare larga almeno un miglio, un fenomeno cui nessun essere umano aveva mai assistito con i suoi occhi, la prova tangibile che l’effetto serra ha conseguenze più rapide del previsto sul riscaldamento del pianeta. «Siamo stati colti completamente alla sprovvista», dichiara al giornale James McCarthy, oceanografo di Harvard, uno dei capi della commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite.
McCarthy è arrivato al Polo Nord su una rompighiaccio russa all’inizio dell’estate. Sei mesi prima la stessa nave Yamal aveva dovuto farsi strada attraverso uno strato di ghiaccio spesso oltre due metri, mentre a luglio il ghiaccio «era così sottile che la luce del sole poteva attraversarlo e nutrire la concentrazione di plancton sottostante». McCarthy riferisce che il capitano dell’unità russa che ha ripetuto almeno dieci volte il viaggio in anni recenti non aveva mai visto nulla di simile. Un altro partecipante alla spedizione, il paleontologo Malcolm McKenna, conferma l’eccezionalità della situazione: «Non credo che mai nessuno nella storia sia venuto fino al Polo per essere salutato da acqua salata al posto del ghiaccio», ripete maneggiando le fotografie pubblicate dal «New York Times». La Yamal ha dovuto allontanarsi dieci chilometri per trovare ghiaccio e far scendere i passeggeri. Sul mare quel giorno volavano i gabbiani: era la prima volta, commentavano gli ornitologi.
Il testimonial triste
Se fosse un peluche i bambini non lo vorrebbero nemmeno toccare. L’orso bianco dell’Artico filmato nel 2017 da Paul Nicklen, fotografo del «National Geographic» e attivista di SeaLegacy, subito iconizzato in un video che ha fatto il giro del mondo, è troppo magro perfino per far felice un bambino povero nella notte di Natale. Il protagonista del filmato è un maschio dell’isola di Baffin, nell’Artico canadese. La location è una spiaggia senza ghiaccio a tarda estate. La sequenza è rallentata, tremante, estremizzata come un’interminabile eutanasia visiva. La scena è melodrammatica. Il povero orso con le ossa sporgenti si trascina sulla ghiaia in cerca di cibo, afferra qualcosa con i denti da un bidone arrugginito, trangugia con la bava in bocca e poi si sdraia a terra aspettando la morte.
Nicklen, che ha visto e fotografato molte decine di orsi polari, giura di non avere mai assistito a una scena così eloquente. Perciò il 5 dicembre 2017 decide di condividerla sui suoi canali social perché il mondo sappia che cosa sta capitando agli orsi polari nell’epoca del riscaldamento globale. «Ecco che aspetto ha un orso che muore di fame», dichiara presentando il video. Poi descrive l’incontro con l’animale:
Non volevamo avvicinarci troppo a lui. Non volevo che usasse le ultime energie per cercare di evitarci. Ci ha messo un sacco di tempo e sforzi per riuscire a mettersi in piedi, per poi collassare di nuovo. Non siamo intervenuti. È stata una delle decisioni più difficili che abbia dovuto prendere da molto tempo. Volevo che le immagini raccontassero la sua storia. Volevo poter raccontare la storia della sua specie. Una volta era un enorme orso polare maschio e ora è un mucchio di ossa, con la pelle che ondeggia cadente da quella che fu una figura imponente. Presto sarà morto e voglio che vada in pace dopo una vita vissuta da straordinario nomade polare.
L’orso morente di Baffin diventa subito il simbolo dell’ignavia dell’uomo contemporaneo, anche se Nicklen, onestamente, ammette che «non possiamo provare che si trovi in quelle condizioni a causa della mancanza di ghiaccio». Però aggiunge provocatoriamente una domanda: «Non si tratta forse di un primo sguardo verso un futuro in cui il ghiaccio raggiungerà la minore estensione storica?». Per Nicklen la morte dell’orso è un assaggio di futuro, oltre che un pugno allo stomaco.
Come sempre il mondo dei social si divide tra chi piange di commozione, chi si sdegna e chi accusa il film-maker di essere un impostore. «Ecco che cosa s’inventano gli ambientalisti per distorcere la realtà», sbottano i negazionisti del riscaldamento. Nei fatti Paul Nicklen è solo un efficacissimo comunicatore; il suo lavoro è osservare, documentare e divulgare. Spetta alla scienza l’interpretazione, e alla politica il rimedio.
Foche dove siete?
A seguito delle polemiche si appura che la spiaggia sulla quale è stato girato il video di Nicklen si spoglia regolarmente in estate, dunque l’orso in fin di vita dovrebbe essere abituato all’assenza di ghiaccio. Che sia semplicemente un orso malato?, suggeriscono i critici. Può darsi, ma anche se fosse così la scienza dà ragione al fotografo. I ricercatori dell’Università di Santa Cruz, monitorando con i collari elettronici e i sensori del metabolismo animale nove femmine nel mare di Beaufort, confermano che i grandi quadrupedi fanno i conti con la fame e soffrono a causa del riscaldamento climatico. Cinque esemplari su nove hanno perso massa corporea in dieci giorni di primavera. E non solo. Gli studiosi californiani si spingono oltre, dimostrando che il fabbisogno di cibo di un orso polare è superiore a quello che la scienza aveva stimato. Pare che gli orsi fatichino a procurarsi la quantità di cibo di cui hanno bisogno perché devono rispettare un ritmo metabolico più alto del normale. A questo si aggiungono gli effetti del riscaldamento che costringono gli animali ad allontanarsi sempre di più per trovare l’habitat abituale della caccia: anche nelle regioni artiche fa caldo e la stagione libera dai ghiacci dura venti settimane più di quarant’anni fa.
In altre parole, gli orsi bianchi devono affrontare viaggi più lunghi per raggiungere il ghiaccio in cui vivono le foche, che in primavera sono giovani e ingenue ma a fine estate diventano reattive, abili a difendersi dagli attacchi. La caccia alla foca sta diventando difficile e faticosa per gli orsi polari, che consumano sempre più energie per trovare carne e immagazzinare calorie, innescando un circuito vizioso e perdente. Spesso il bilancio tra entrate e uscite è negativo e gli animali deperiscono sempre più facilmente. Dovrebbero imparare a integrare la dieta con il cibo di terra come fanno altre specie di orsi, ma sono carnivori super specializzati. Insomma, l’orso bianco si troverà probabilmente a condividere il proprio habitat con l’orso bruno, ma è improbabile che impari a cavarsela come lui.
Nel 2013, sulle pagine di «Conservation Letters», un gruppo di scienziati ha addirittura provato a stilare un prontuario per la salvezza degli orsi bianchi, ipotizzando delle misure che sembrano uscite da un film catastrofico americano. Bisognerebbe spostarli più a nord, oppure integrarne l’alimentazione con cibo industriale per orsi da trasportare sul posto in elicottero. «Questo li renderebbe carnivori semi-selvatici, quasi in cattività, ma non funzionerebbe. E probabilmente non funzionerebbe nemmeno con un eventuale ritorno del ghiaccio», riconosce in un’intervista alla CNN Andrew Derocher dell’Università di Alberta, primo autore della pubblicazione. Sarebbe solo un precario e costosissimo zoo. «Nutrire artificialmente gli orsi o spostarli da un posto all’altro – riflette Derocher – non è certo la soluzione di conservazione ideale né il sogno di uno scienziato come me, che studia questi animali meravigliosi da anni. Eppure è giunto il momento di essere realisti.»
La cronaca dice che gli orsi bianchi vanno sempre più spesso a cercare il cibo vicino alle case degli uomini e si avventurano nei villaggi per frugare nella spazzatura. Mossi dalla fame si spostano per mare su lastroni di ghiaccio precario, come suggerisce un’altra immagine iconica del cambiamento climatico in cui l’arca della salvezza è infinitamente sproporzionata al peso del passeggero. L’animale più possente è diventato il più fragile.
Polo Sud
Dal 2012 al 2015 la perdita annua di ghiaccio nel continente antartico è triplicata rispetto a quella già preoccupante registrata dal 1992 al 2012, passando da 76 a 219 miliardi di tonnellate l’anno. L’ha denunciato il gruppo internazionale di ricerca IMBIE in base all’analisi di ventiquattro stime indipendenti del bilancio di massa del ghiaccio effettuate tra il 1992 e il 2017 grazie ai satelliti. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista «Nature». Insieme alla scomparsa del ghiaccio polare, insostituibile riserva idrica del pianeta, preoccupa i ricercatori il progressivo innalzamento dei mari. «Secondo la nostra analisi, nell’ultimo decennio c’è stato un aumento graduale delle perdite di ghiaccio dall’Antartide, che sta causando un aumento del livello del mare più rapido che in qualsiasi altro momento negli ultimi venticinque anni. Il fenomeno deve allarmare i governi cui affidiamo la protezione delle nostre città e comunità costiere», commenta Andrew Shepherd dell’Università di Leeds, coautore dello studio.
Un altro lavoro del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Irvine e del Jet Propulsion Laboratory della NASA, pubblicato su «Proceedings of the National Academy of Sciences» (USA), conferma che tra il 2009 e il 2017 sono andati persi mediamente 252 miliardi di tonnellate di ghiaccio antartico l’anno, una quantità sei volte superiore a quella registrata tra il 1979 e gli anni Novanta del secolo scorso. «Questa è solo la punta dell’iceberg, per così dire», ha dichiarato senza troppa ironia il coordinatore della ricerca Eric Rignot. «Mentre la calotta polare antartica continua a fondere, ci aspettiamo un innalzamento del livello dei mari nei prossimi secoli che farebbe sprofondare sott’acqua una moltitudine di metropoli costiere, comprese Venezia, New York e Miami, ma anche intere isole dell’Oceano Pacifico, le più esposte ai rischi legati ai cambiamenti climatici.»
I ghiacci polari sono dei formidabili serbatoi. Contengono due terzi delle riserve d’acqua dolce del pianeta, che complessivamente sfiorano il due per cento delle disponibilità idriche mondiali. Il restante 97,3 per cento è rappresentato dai mari e dagli oceani, quindi da acqua salata, e meno dell’uno per cento appartiene all’insieme dei fiumi, dei laghi e delle falde sotterranee. Una delle prerogative del ghiaccio è la restituzione graduale dell’acqua che contiene, fungendo da regolatore naturale dei flussi, ma se il riscaldamento globale dovesse accelerare ulteriormente la restituzione potrebbe trasformarsi in alluvione.