XXIII.
Ghiaccio e neve artificiale
Mentre l’ammiraglio Byrd conquista e riconquista il cielo dell’Antartide e Tilman e Shipton progettano le avventure patagoniche, un elettrodomestico ha espugnato le cucine degli americani e sta per entrare in quelle degli europei. In pochi anni il frigorifero ha cambiato e cambierà la vita degli occidentali, infrangendo i limiti geografici e temporali di una civiltà. Con l’ingresso del ghiaccio nelle case si realizza il vecchio sogno di fabbricare l’inverno dove e quando non esiste. La gente s’innamora subito del frigorifero e si aspetta molto dall’amico bombato.
«Chissà qual è il misterioso motivo per cui questo scatolone di plastica ha un effetto consolatorio sulle sofferenze umane – si chiede Marco Presta in anni recenti –. Forse il pensiero che, anche se lei non t’ama più o se il lavoro va male, hai ancora della bresaola e del gorgonzola, riesce ad allontanare quanto meno la paura più grande, antica come l’uomo: morire di fame». Piergiorgio Odifreddi allarga il discorso: «La gente pretende di avere in casa d’estate le temperature che ci sono fuori d’inverno, e d’inverno le temperature che ci sono fuori d’estate. Il che costringe a indossare in casa maglioni invernali d’estate e magliette estive d’inverno».
Non c’è dubbio che il rapporto dell’umanità con il caldo e con il freddo abbia dei risvolti che superano l’aspetto pratico. Serbare una scorta d’inverno in cucina e ribaltare il corso delle stagioni è stato il delirio inconfessato dell’uomo moderno, anche se per un cristiano significava contrastare le regole della creazione. Quattro secoli fa fabbricare il gelo era un affare da alchimisti, stregoni e senza dio. Il divulgatore scientifico Tom Shachtman osserva che nel Seicento «la maggior parte delle persone pensava che fosse impossibile invertire le stagioni all’interno di un edificio, e molti addirittura consideravano sacrilega l’impresa, un tentativo di contravvenire l’ordine naturale delle cose e alterare la configurazione del mondo stabilita dal Signore». Per questi motivi la prova di refrigerazione che l’inventore olandese Cornelius Drebbel esibì all’interno dell’abbazia di Westminster nel 1620 fu accolta dalla corte di re Giacomo I con stupore e spavento. All’epoca degli Stuart il raffreddamento forzato di un ambiente era più una forma di magia che un esperimento di scienza, anche se alcuni visionari continuarono imperterriti a coltivare la diabolica invenzione, ostinandosi nel tentativo di ottenere ghiaccio dall’evaporazione di un liquido.
Sogni contro natura
La posta in gioco era alta. Non si trattava solo più di prelevare il ghiaccio dai luoghi di produzione spontanea per stoccarlo in depositi idonei alla conservazione, e nemmeno di «produrre» ghiaccio in vasche e bacini congelati quando le temperature invernali portavano l’acqua sotto lo zero. Queste tecniche di antica data erano sempre state considerate naturali perché il ghiaccio era fornito direttamente dalla natura, ma potevano dirsi superate dall’evoluzione umana. Il mercato alimentare, l’industria e l’economia domestica dei ceti abbienti avevano fame di freddo e ghiaccio a volontà, in ogni momento e luogo, non solo nella stagione calda, nei posti in cui il ghiaccio abbondava, in quelli dove si cavava a fatica e soprattutto dove il ghiaccio non c’era affatto. Per molto tempo la scienza e la tecnologia avevano inseguito il sogno trasgressivo e contronatura del ghiaccio artificiale: ora si trattava di realizzarlo.
Sull’Enciclopedia Italiana del 1935 Carlo Rodano e Filiberto Dondona argomentano che
fu il Faraday, con gli esperimenti metodici sulla liquefazione stabile dei gas iniziati dal 1823, a fissare in modo definitivo la teoria del cambiamento di stato dei corpi gassosi e ad aprire la via alla produzione meccanica del freddo. La prima macchina che si conosca per la produzione del freddo fu quella a compressione brevettata nel 1835 da J. Perkins, americano stabilito in Inghilterra, che l’aveva destinata a una birreria senza però riuscire ad applicarla. L’idea del Perkins fu ripresa verso il 1856 da J. Harrison, con una macchina a etere etilico che ebbe pratica applicazione, e, con successo ancora maggiore, dall’ingegnere civile Charles Tellier nel 1864.
A Tellier si deve la realizzazione del primo impianto frigorifero su un piroscafo, le frigorifique, che nel 1876 recapita ai francesi un carico di carne macellata nella lontana Argentina conservandola per un viaggio di oltre cento giorni. La tecnica è presto estesa ai vagoni ferroviari. Sul piano alimentare la fabbrica del freddo affranca i produttori e i venditori di cibo dai metodi tradizionali di conservazione per salagione ed essiccazione, che alterano le qualità nutrizionali e organolettiche degli alimenti. Sul piano pratico libera la distribuzione dai costosi processi di prelievo e trasporto del ghiaccio naturale, aprendo la strada a una delle principali rivoluzioni della civiltà industriale. Sul piano simbolico assicura l’indipendenza dalle variabili ambientali e avvicina le regioni fredde a quelle temperate e calde. La fabbrica del freddo fa scendere i ghiacciai nei paesi e nelle città.
Intanto nel 1858 l’ingegnere francese Ferdinand Carré ha costruito la prima macchina ad assorbimento continuo di gas impiegando l’ammoniaca come fluido refrigerante, e dopo Carré la ricerca del freddo è passata nelle mani del collega tedesco Carl Paul Gottfried von Linde, figlio di un pastore evangelico, ragazzo geniale e ribelle.
Carl Linde ha studiato al Politecnico di Zurigo senza diplomarsi perché è stato espulso dopo una rivolta studentesca. Tornato in Germania ha fatto rotta su Monaco di Baviera, entrando nella scuola del Politecnico. Nel 1871, un anno prima di diventare professore di costruzioni, ha pubblicato il fondamentale saggio sulla macchina frigorifera. I produttori di bevande e le distillerie hanno mostrato interesse per il nuovo metodo e l’ingegnere ha cominciato a fornire le prime macchine, fondando la moderna tecnologia del raffreddamento.
Il 21 giugno 1879 Linde apre la Gesellschaft für Lindes Eismaschinen AG, destinata a diventare l’azienda leader in Europa nella creazione del freddo e del ghiaccio applicati alla distillazione, alla birrificazione, alla caseificazione, alla produzione di cloro e cloruro di sodio, e anche alla costruzione delle piste di ghiaccio per la pratica del pattinaggio sportivo.
Il passo successivo è il condizionamento dell’aria negli ambienti pubblici e privati, che come osservano i detrattori equivale a contrastare i cicli spontanei della natura producendo calore nei giorni più freddi e raffreddando i locali con il gran caldo. C’è indubbiamente qualcosa di audace e demoniaco nell’opporre una macchina alla volontà del creatore.
Da pochi anni – attestano Rodano e Dondona – si è diffuso l’uso di raffreddare artificialmente nella stagione calda sale da spettacoli, edifici pubblici, case di abitazione, ospedali, treni per viaggiatori, generalmente con impianti centrali i quali provvedono al cosiddetto condizionamento dell’aria, cioè a purificare quella viziata dalla respirazione, a regolarne l’umidità e la temperatura, e a riscaldarla nei mesi freddi... Le macchine frigorifere possono raffreddare i locali e gli apparecchi nei quali si utilizza il freddo con il raffreddamento diretto, quando i vaporizzatori sono collocati nei locali o negli apparecchi da raffreddare, oppure indiretto quando il vaporizzatore raffredda un liquido che poi si fa circolare in serpentini disposti nei locali.
Non basta più difendersi dal gelo quando scende l’inverno e cercare frescura nei mesi roventi. L’ambizione dell’uomo e il potere della tecnologia vanno progressivamente a contrastare il naturale succedersi delle stagioni. Si produce estate quando la temperatura scende sotto zero e si fabbrica l’inverno quando il termometro sale a trenta gradi.
Neve da cannone
Allo stesso modo, nel Novecento, si comincia a pensare alla produzione di neve artificiale perché il tempo dello svago non sia sottomesso ai capricci del tempo e la voglia di neve si affranchi dalle precipitazioni invernali. Se Dio non manda giù l’oro bianco per gli sciatori bisogna imparare a fabbricare la neve e spararla sulle piste di discesa. Per i progettisti è solo un’ardita evoluzione tecnologica, ma per il pensiero turistico si tratta di una seconda rivoluzione. Lo sport della montagna, che si adattava alla disponibilità di neve e si fermava in sua assenza, diventa un’industria che programma e crea la materia prima, garantendola in ogni situazione climatica e contesto ambientale. Il valore intrinseco del luogo svanisce e la montagna si trasforma in un impianto artificiale.
Nel 1903 un americano di nome Oskar Reynolds inventa un prototipo che produce gelide palline di ghiaccio, anche se il mercato non ha ancora nessun bisogno di neve sintetica. Il primo impiego dell’innevamento programmato potrebbe risalire all’inverno 1948 in Connecticut, quando Walter Schoenknecht, gestore di una stazione sciistica, per ovviare alla mancanza di neve decide di trasportare sulle piste circa cinquecento tonnellate di ghiaccio. I costi dell’impresa si rivelano esorbitanti e nell’inverno successivo Schoenknecht presenta un prototipo di macchina per la produzione di neve che, superati alcuni collaudi, diventa operativo nel 1950. Otto anni dopo Alden Hanson realizza il primo cannone a ventola. L’esordio europeo nel campo della neve finta risale ai primi anni Sessanta, in Germania, ma sono ancora gli americani nel 1969 a proporre il cannone spara neve a elevata capacità. Negli ultimi decenni del secolo la tecnologia fa passi da gigante e la richiesta del mercato genera ricerche e soluzioni sempre più sofisticate, oltre a una radicale trasformazione del pensiero: se nel Novecento i cannoni servivano a compensare le carenze eccezionali, nel terzo millennio la neve artificiale è la sostanza che pavimenta le piste; l’eccezione si è trasformata in regola, modificando la pratica e la filosofia dello sci. Come spiegano gli specialisti Michele Freppaz ed Ermanno Zanini, la neve prodotta dalla macchina è diversa da quella che scende dal cielo:
La neve naturale si forma a partire da gocce d’acqua che nell’atmosfera vengono in contatto con nuclei di congelamento, costituiti prevalentemente da particelle di argilla, per formare granuli di ghiaccio. La sublimazione del vapore acqueo presente nelle nubi sui granuli di ghiaccio origina i cristalli di neve... La neve artificiale si forma prevalentemente da acqua in forma liquida ed è generalmente costituita da cristalli arrotondati. La sua densità è generalmente elevata, con valori superiori alla media della neve naturale... Una volta al suolo la neve naturale si trasforma in relazione alle condizioni ambientali, secondo processi detti di metamorfismo. La neve artificiale, invece, si evolve poco...
Rispetto alla neve naturale la cosiddetta «neve tecnica» presenta una minore quantità di aria, quindi è più dura e compatta. Ha il pregio di mantenersi meglio e più a lungo. Ha lo svantaggio di ghiacciare più rapidamente della vera neve e di gravare più pesantemente sull’ecosistema, consumando grandi quantità di acqua e danneggiando la cotica erbosa. Eppure a partire dal Duemila le piste di sci delle grandi stazioni sono condannate all’uso e all’abuso della neve artificiale, non solo perché la quota della neve si sta rapidamente alzando a causa del riscaldamento climatico. Il vero motivo è che la solidità e l’omogeneità della neve da cannone la rendono paradossalmente preferibile all’altra. I nastri bianchi e le «autostrade» della neve che i gatti meccanici compattano a inizio stagione resistono alle alte temperature e predispongono superfici sciabili anche in condizioni avverse.
Il contraltare alla sicurezza è l’omologazione. Se l’infinita varietà della neve naturale e la magica trasformazione da farina a granulo, da leggera a pesante, da asciutta a bagnata e da invernale a primaverile richiedevano l’adattamento dello sciatore alle condizioni del manto e del terreno, generando interpretazioni, gusti e stili altrettanto infiniti, la neve artificiale tende a resistere uguale nel tempo imponendo una concezione di sport piuttosto uniforme e costretta, ma senza sorprese. Tutto è previsto, il piacere della discesa è garantito, anche se alla fantasia restano pochi margini d’azione. Così se nei primi cent’anni di vita lo sci alpino si è nutrito di sensibilità e meraviglia, all’epoca dei cannoni da neve prevalgono sicurezza, velocità e programmazione. Non ci si chiede più «ci sarà abbastanza neve in montagna?», o «che neve troveremo oggi?», perché l’incognita non appartiene al moderno gioco dello sci. Il sociologo Jean Baudrillard ha osservato ironicamente che la neve non è più un dono del cielo, perché cade esattamente nei posti contrassegnati dalle stazioni invernali.
Naturalmente l’innalzamento delle temperature ha accelerato la corsa all’artificiale e al sintetico, ed è un processo a dir poco paradossale perché l’uomo è il principale responsabile del riscaldamento terrestre. Come se una specie che si autodefinisce evoluta e intelligente alzasse coscientemente la temperatura del proprio habitat e poi, per non pensarci su, fabbricasse neve finta per scivolare, inebriarsi e dimenticare.