XXVII.
Ritirata su tutti i fronti
La prova più sconvolgente della sparizione dei ghiacciai è un documentario del 2012 dal titolo Chaising Ice, di Jeff Orlowski. Anche se restituisce con rara intensità espressiva la bellezza e la poesia del ghiaccio, non è una visione per i deboli di stomaco. Nemmeno il più irriducibile negazionista che abbia almeno un po’ a cuore il destino dell’uomo e del pianeta arriva alla fine del film senza una reazione tachicardica.
Il protagonista del racconto è l’americano James Balog, un bell’uomo nato in Pennsylvania nel 1952. Oggi è tra i più affermati fotografi al mondo. Da alpinista ha esplorato le regioni selvagge, ha attraversato i ghiacciai e ha scalato in Alaska, sull’Himalaya e sulle Alpi. Non è un reporter tradizionale e neppure il classico fotografo naturalistico; non si accontenta di cogliere scatti sulla vita degli animali o delle piante. Ha fatto anche quello, conquistando le copertine dei grandi giornali («National Geographic», «Outdoor Magazine», «Life», «New York Times Magazine»), dopo ha puntato in alto. Dapprima scettico come tanti, poi colpito dal riscaldamento climatico, infine angosciato dalla rapidità del cambiamento, ha scelto il ghiaccio per raccontare il futuro dell’umanità. Sostiene che le forme del ghiaccio contengano la bellezza e la tragicità del destino planetario e che siano la lente più realistica e fantastica per leggere il mondo.
Nel 2007 Balog mette in piedi l’Extreme Ice Survey con il «National Geographic Magazine» e si accorda con il regista Orlowski per la realizzazione di un film. Il progetto è ambizioso e visionario: si tratta di piazzare un gran numero di camere digitali in faccia ai grandi ghiacciai della Terra e di scattare una foto ogni settantacinque minuti per documentarne lo spostamento. Facile da dirsi e difficilissimo da farsi, perché le camere sono delicate e subiscono le frane e il gelo, devono autoregolarsi, lavorano in condizioni di clima estremo e possono essere riparate o sostituite solo durante le visite di controllo di Balog e dei tecnici. Basta un guasto e tutto il processo deve ricominciare da capo. Però Balog non è uomo da tirarsi indietro e i suoi giovani collaboratori hanno condiviso la sfida. Grazie al time lapse e a tecniche di ripresa all’avanguardia, monitorando a muso duro le fronti glaciali del Montana, dell’Alaska, dell’Islanda e della Groenlandia, Balog ottiene migliaia di fotografie che montate in sequenza come un vecchio film descrivono una storia amara.
Lontano dalle strettoie del lavoro di documentazione fine a se stesso – osserva Marco Chiani su mymovies.it – il regista illumina un privato che si fa pubblico, alternando con sagacia i momenti difficili e le conquiste... Oltre all’obiettivo della sensibilizzazione, quello per cui lo stesso Balog afferma di continuare ad insistere sulla stessa strada, la pellicola ha il merito di far affiorare l’occhio di un fotografo al di fuori dei canoni, di un uomo che, quasi alla maniera di un personaggio uscito dalla mente di Werner Herzog, si sporge verso l’abisso per documentare e non per sfidare la natura. Universo illimitato di forme, il ghiaccio riempie il quadro di immagini straordinarie, dettagli o campi lunghissimi di una materia che nasconde una storia...
La realtà ha superato l’immaginazione. In ogni location in cui l’équipe di Extreme Ice Survey aveva previsto un assottigliamento rapido del ghiaccio la natura superava la previsione. Spesso si notavano dei cambiamenti sul terreno da un giorno all’altro, relaziona Balog. Talvolta bastava allontanarsi poche settimane per smarrire le coordinate visive. La situazione si evolveva in tempi molto brevi e i ghiacciai arretravano così velocemente che le postazioni fotografiche «fuggivano in basso» sulla morena. Allora, per scovarle in un paesaggio diventato irriconoscibile, restavano solo le coordinate satellitari. Talvolta la fusione era talmente fulminea da rendere insufficiente il grandangolo delle camere digitali. L’immagine si riempiva di detriti perché il ghiaccio era risalito troppo in alto e troppo in fretta, uscendo dall’inquadratura.
Un giorno, controllando la fronte turrita di un ghiacciaio galleggiante, Balog ha sentito un crac e un tonfo. L’aria s’è riempita di polvere bianca e «in un minuto è scomparsa una città più grande di Manhattan».
Il quadro planetario
Il regresso è mondiale, con rare eccezioni. Ormai perfino le più distratte agenzie di stampa battono dati allarmati e allarmanti sullo «scioglimento» dei ghiacciai. Le agenzie sbagliano, perché il ghiaccio non si scioglie ma fonde. La fusione è il passaggio di una sostanza dallo stato solido allo stato liquido, mentre lo scioglimento è un’altra cosa. Per trasformare un solido in liquido è necessario fornire calore alla sostanza, mantenendo costante la sua pressione; quando il solido raggiunge una determinata temperatura ha inizio il processo di fusione. Un pezzo di metallo che venga scaldato al punto di fusione fonde. Il burro fonde. Il ghiaccio e la neve fondono. Invece sciogliere significa solubilizzare un solido (solubile) in un liquido. Il sale nell’acqua si scioglie. Lo zucchero nell’acqua si scioglie.
Dunque i ghiacciai fondono quasi ovunque, con rarissime eccezioni che confermano la tendenza. In Nord America, riporta il climatologo italiano Luca Mercalli, il ritiro ha visto un rallentamento solo tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, poi è ripreso con vigore. La superficie glacializzata è scesa del venticinque per cento sulla cordigliera occidentale delle Montagne Rocciose dalla metà dell’Ottocento. Spettacolare è stato il ritiro frontale dell’enorme ghiacciaio Muir, in Alaska. Dei centocinquanta ghiacciai che a metà dell’Ottocento si trovavano nel territorio oggi protetto dal Glacier National Park, nel Montana, ne restavano soltanto ventisette nel 2005 e anche quelli scompariranno entro il 2030, quando forse sarà necessario cambiare il nome dell’area protetta.
Ancora più marcata la riduzione dei ghiacciai dell’Alaska, che nel periodo dal 2002 al 2014 hanno perso 52 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno. In una lunga serie di rilevamenti spaziali eseguiti tra il 1994 e il 2018, i satelliti della NASA puntati sul Big Johnstone Lake mostrano uno specchio d’acqua che si mangia voracemente il ghiacciaio Excelsior. In poco più di vent’anni il lago è raddoppiato di dimensioni, mentre il ghiacciaio è arretrato di duecento metri l’anno per quasi cinque chilometri totali. Naturalmente si tratta di un’illusione ottica perché sono le stesse acque di fusione ad alimentare il bacino del lago, che oggi è grande cinque volte il Central Park di New York. Le immagini dell’acqua che «avanza» sono state diffuse dal glaciologo Mauri Pelto del Nichols College in Massachusetts, che spiega come la superficie del Johnstone Lake «abbia iniziato a coprirsi di lastre che si staccavano dal limitare del ghiacciaio. Durante il monitoraggio vedevamo flottare queste zattere di ghiaccio come giochini da bagno in una vasca, ma molto sovradimensionati...».
Anche i ghiacciai della Patagonia, i più grandi dell’emisfero australe, si stanno riducendo più in fretta del previsto. Lo dicono i rilevamenti del satellite CryoSat-2 dell’Agenzia spaziale europea, rielaborati e pubblicati sulla rivista «Remote Sensing of Environment» dai ricercatori dell’Università di Edimburgo. «Con CryoSat abbiamo scoperto che tra il 2011 e il 2017 c’è stato un assottigliamento diffuso soprattutto nella parte settentrionale», riassumono gli scienziati. «Per esempio il ghiacciaio Jorge Montt si è ritirato di 2,5 chilometri e ha perso circa 2,2 miliardi di tonnellate di ghiaccio l’anno, mentre l’Upsala che finisce in un lago ne ha perse 2,68 miliardi.» In controtendenza il Pio XI o ghiacciaio Brüggen, che ha guadagnato 0,67 gigatonnellate l’anno, e il famoso Perito Moreno, forse il ghiacciaio più fotografato al mondo, che mantiene l’equilibrio da novant’anni e periodicamente si rompe in giganteschi blocchi che precipitano nel Lago Argentino togliendo il fiato ai turisti. Comunque in sei anni il ghiaccio patagonico si è assottigliato complessivamente di 21 miliardi di tonnellate a stagione. Il dato inusuale e preoccupante è che le perdite sono aumentate del ventiquattro per cento rispetto all’arco di tempo precedente, confermando l’accelerazione del processo.
La carrellata si chiude con l’Africa, dove il ghiaccio è quasi una provocazione climatica. In Africa la temperatura sale come dappertutto e le nevi e i ghiacciai iconici che abbellivano la vetta del Kilimangiaro stanno rapidamente scomparendo. Tra il 1912 e il 2011 si sono ridotti dell’ottantacinque per cento, mentre nel corso degli ultimi trent’anni il limite delle nevi permanenti è indietreggiato di circa 260 metri passando dai 4760 metri ai 5020 attuali.
Batteri siberiani
All’altro capo del mondo, in Siberia, sembra che il riscaldamento globale progredisca a ritmi due volte e mezzo superiori al resto del pianeta. Gli scienziati russi sono particolarmente preoccupati da quando a Jakutsk, la remota città siberiana dove il termometro scende fino a sessanta gradi sotto zero, hanno scoperto che la fusione del permafrost sta liberando nell’aria spore e batteri che erano rimasti congelati per migliaia di anni. Il permafrost della Jakuzia si sta assottigliando di cinque centimetri l’anno. Nell’estate del 2006 la temperatura ha toccato i trentacinque gradi liberando dal suolo batteri, metano e altri gas serra. Con la sparizione del permafrost il terreno cede, le case si piegano e le tubature di gas e petrolio si spezzano. Inoltre lo scongelamento rinnova l’attività fisiologica dei microrganismi ed espone la vita antica agli ecosistemi attuali.
La preoccupazione principale è l’antrace che si va diffondendo da quando il riscaldamento del suolo ha cominciato a liberare le spore nell’atmosfera. Nella regione è conosciuta come la peste siberiana che stermina gli animali e può colpire anche l’uomo. La fuoriuscita del Bacillus anthracis è facilitata dal fatto che in Jakuzia ci sono migliaia di cimiteri di renne sui percorsi delle migrazioni, così le carcasse scongelate sprigionano i batteri che tornano in vita diffondendosi nell’aria.
La Siberia ritorna in un documentario ipercontemporaneo: Aquarela. Come il coccodrillo gelato di H.G. Willink a suo tempo iconizzò la paura del ghiaccio che avanzava sulla terra degli uomini, le recenti immagini del film di Viktor Kossakovsky rendono l’angoscia della fusione. Girato in novantasei fotogrammi al secondo, Aquarela è un viaggio totale attraverso le manifestazioni dell’acqua, dalla fragilità del Lago Baikal alla potenza dell’uragano Irma alla vertigine del Salto Angel. «Volevo filmare ogni possibile emozione che si possa esperire quando si interagisce con l’acqua», precisa il regista russo nel 2018. Belle emozioni abbinate a visioni molto disturbanti, sentimenti di estasi e ispirazione affiancati agli effetti della devastazione umana.
Le conseguenze del riscaldamento climatico sono espresse da trombe d’aria improvvise e allagamenti disastrosi, ma è la sequenza girata sulle acque scongelate del Lago Baikal in Siberia a togliere il fiato allo spettatore. Il Baikal è la nuova icona del clima terrestre. Campo largo: un’automobile avanza nell’imperturbabile silenzio della landa siberiana, puntando leggera verso un orizzonte di montagne; di colpo la superficie del lago si spacca e l’auto sprofonda. Campo stretto (invisibile): i passeggeri si dibattono dentro la loro trappola e i soccorritori si sporgono sull’acqua cercando di tirarli in salvo. Campo largo: la sequenza si ripete senza pietà, nuova automobile, nuovo sfondamento, nuovo bagno gelato; uno dopo l’altro i veicoli e i guidatori s’inabissano nelle crepe del disgelo. Auto viene, auto scompare: è la roulette russa.
Fonde la Groenlandia
I ghiacci della Groenlandia stanno arretrando da tempo, ma il 31 luglio 2019 hanno superato loro stessi eguagliando e forse battendo il record negativo dell’estate 2012. L’eccezionale ondata di calore risalita dal Centro Europa ha colpito con forza la Terra degli uomini, dimostrando che sul pianeta non esiste nessun luogo al riparo dal riscaldamento globale. Secondo l’Istituto Meteorologico Danese quasi il sessanta per cento della calotta glaciale groenlandese ha registrato «almeno un millimetro di fusione superficiale e si sono riversate in mare circa dieci miliardi di tonnellate d’acqua». In tutto luglio sono stati quasi duecento miliardi di tonnellate. Qualcuno ha fatto i conti: un miliardo corrisponde al contenuto di quattrocentomila piscine olimpioniche.
Il recentissimo studio dei ricercatori dell’Università della California (Mouginot, Rignot e altri) pubblicato nel 2019 sulla rivista scientifica «Proceedings of the National Academy of Sciences» ha analizzato le dimensioni dei ghiacciai groenlandesi a partire dal 1972. La ricerca ha messo insieme i dati degli ultimi quarantasei anni scoprendo che se negli anni Ottanta del Novecento le perdite di ghiaccio ammontavano a 51 miliardi di tonnellate d’acqua l’anno, tra il 2000 e il 2010 sono passate a 187 miliardi di tonnellate e tra il 2010 e il 2018 sono diventate 286 miliardi di tonnellate, una quantità quasi sei volte superiore a quella di quarant’anni prima. Inoltre la fusione avrebbe fatto alzare di quattordici millimetri il livello dei mari adiacenti.
Non che in Groenlandia sia un fatto eccezionale. Non ci sarebbe da stupirsi se il ghiaccio si assottigliasse nella bella stagione per ricompattarsi in inverno, a patto che il bilancio di massa fosse in equilibrio come succedeva fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Oggi non è più così. Un tempo il fenomeno riguardava soprattutto le parti periferiche della calotta glaciale, e la neve che si depositava d’inverno sulla superficie rifletteva la luce solare proteggendo il ghiaccio sottostante. Oggi la neve invernale non basta più perché fonde troppo presto e troppo in fretta, e questo dipende dal fatto che il riscaldamento globale rende fino a cinque volte più probabili le ondate di calore e ne aumenta la durata. Nella serie storica della temperatura media globale il 2018 è stato uno degli anni più caldi mai registrati, avvalorando la serie recente. Il ricercatore dell’Università di Liegi Xavier Fettweis, specializzato nell’analisi dei modelli climatici regionali, ha specificato a Alejandra Borunda del «National Geographic Magazine» che «non si è trattato di un’estate calda in mezzo a molte estati fresche. L’anomalia del 2018 si era già verificata nel 2016, 2012, 2011, 2009, 2008 e così via». Troppe volte per parlare di eccezione. Allo stato attuale la tendenza sembra irreversibile.
Che Himalaya sarà?
Le notizie sui ghiacciai dell’Himalaya erano parziali e lacunose finché l’International Centre for Integrated Mountain Development, all’inizio del 2019, non ha messo in rete The Hindu Kush Himalaya Assessment. L’imponente studio di carattere sociale e ambientale ha richiesto cinque anni di lavoro e l’impegno di oltre 350 ricercatori ed esperti di politiche ambientali e climatiche di 22 paesi e 185 organizzazioni. Le notizie non sono confortanti. Dal rapporto emerge che anche se il mondo rispetterà il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo di Parigi – limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi entro la fine del secolo – si avrebbe comunque un aumento delle temperature di 2,1 gradi nella regione himalayana, con la fusione di un terzo dei ghiacciai. Se invece la comunità mondiale fallirà nel contenimento delle emissioni di gas serra, «le attuali emissioni porterebbero a 5 gradi di riscaldamento e una perdita di due terzi dei ghiacciai entro il 2100».
La regione dell’Hindu Kush Himalaya si estende su tremilacinquecento chilometri attraverso l’Afghanistan, il Bangladesh, il Bhutan, la Cina, l’India, il Nepal e il Pakistan. I suoi ghiacciai alimentano dieci dei sistemi fluviali più importanti del mondo, tra cui il Gange, l’Indo, il fiume Giallo, il Mekong e l’Irrawaddy; forniscono acqua, cibo, energia e reddito a miliardi di persone. I ghiacciai del «tetto del mondo» sono estremamente sensibili al cambiamento climatico. Gli scienziati certificano che dalla fine degli anni Settanta del Novecento, quando si è cominciato a considerare il problema, «le masse si sono assottigliate e ritirate costantemente... creando un aumento di numero e dimensione dei laghi glaciali che possono tracimare improvvisamente». Sui ghiacci ritenuti «inviolati» fino a pochi decenni fa, l’effetto dei gas serra si fa sentire con gli inquinanti atmosferici che salgono dalle pianure indo-gangetiche, una delle regioni più popolate del mondo. Gli inquinanti depositano black carbon e polveri sui ghiacciai, accelerandone la fusione e modificando la circolazione monsonica e la distribuzione delle piogge asiatiche. I Paesi della regione himalayana sono divisi da antiche e recenti rivalità e da differenze culturali, religiose e politiche, ma secondo il rapporto «sono oggi uniti dalle sfide eccezionali che incombono sulle regioni montane».
Claudio Smiraglia, uno dei più autorevoli glaciologi europei, conoscitore delle montagne asiatiche e dei ghiacciai di tutto il mondo, conferma che si tratta di una ricerca seria e di dati sicuramente attendibili, a patto «che lo scenario climatico si sviluppi effettivamente come ipotizzato...». Bisogna tener conto, precisa, che «dire Himalaya è dire qualcosa di estremamente generico, perché in Himalaya si trovano realtà geografiche, climatiche e geologiche molto diverse tra loro. Se poi estendiamo il campo di osservazione dal Pamir all’Himalaya cinese, allora le differenze si accentuano. Il Karakorum, per esempio, ha un comportamento discordante dall’Himalaya centrale o orientale, perché il monsone influenza diversamente il clima di ogni settore montuoso». Circa le conseguenze più facilmente prevedibili se la tendenza dovesse essere confermata, Smiraglia ipotizza lo sviluppo di una serie di effetti a catena: «Il primo effetto è legato ai cosiddetti Glof (Glacial lake outburst floods), i laghi glaciali che collassando di colpo danno origine ad alluvioni potenzialmente disastrose. Ci saranno (e ci sono già stati) parecchi episodi, soprattutto in Himalaya. Invece scendendo di quota e avanzando con la scala temporale, si avranno effetti sulle popolazioni delle valli. Le principali complicazioni saranno legate alla mancanza di acqua da fusione glaciale, ma questo è un tema che va ancora approfondito».
Evidentemente la fusione accelerata dei ghiacciai crea due fenomeni opposti e contraddittori: prima un rilascio eccezionale di acqua, con alluvioni disastrose se collassano i laghi glaciali, poi l’inevitabile carenza d’acqua da fusione quando il ghiaccio scompare e si svuota il principale serbatoio del rifornimento idrico. Per fortuna il secondo scenario sembra più lontano nel tempo, specie se si guarda ai grandi ghiacciai della Terra, ma il tempo corre veloce e la siccità può acquisire dimensioni e conseguenze importanti.
Troppa acqua, o troppo poca
I montanari sanno molto bene che i ghiacciai, nei periodi di relativo equilibrio climatico, servono a garantire i rilasci minimi d’acqua e a mitigarne la furia distruttiva, fungendo da regolatori dei flussi. Prima che la tecnologia arrivasse a concepire e realizzare i grandi invasi idroelettrici, i ghiacciai erano gli unici depositi naturali in grado di contenere ingenti quantità d’acqua per rilasciarla gradualmente in estate, con il disgelo. Certo l’acqua arriva anche con le piogge primaverili e autunnali, ma in assenza di serbatoi capaci di contenere le precipitazioni in caso di alluvione e rilasciarle nei periodi di siccità, si rischia di subirne i danni senza raccoglierne i benefici. Troppa acqua non irriga, ma annega le coltivazioni; poca acqua non disseta.
Al momento i dati più indicativi sul futuro dell’acqua riguardano le riserve del Centro Europa, e così si torna al ruolo delle Alpi. Una ricerca svizzera dell’Ufficio Federale dell’Ambiente (Ufam) ha evidenziato che nel 2006 i ghiacciai elvetici contenevano circa quarantacinque miliardi di metri cubi d’acqua, vale a dire trenta miliardi in meno rispetto al 1980. Nonostante il rapido e inquietante dimagrimento delle nevi e dei ghiacci, che di certo non si è fermato, la Svizzera resta comunque uno dei maggiori serbatoi d’acqua europei, forse il maggiore, grazie alla funzione di sbarramento della catena alpina.
Il territorio elvetico registra un volume di precipitazioni quasi due volte superiore alla media del continente. Mentre in pianura e nel Giura metà dell’acqua piovana evapora, sulle Alpi centrali fino al novanta per cento delle precipitazioni scorre in superficie e dei sessanta miliardi di metri cubi di pioggia annui, il sessantotto per cento lascia il Paese attraverso i corsi d’acqua.
In montagna – spiega la ricerca – le precipitazioni sono «stoccate» sotto forma di neve o di ghiaccio, e defluiscono solo in primavera e in estate. Il ciclo stagionale è essenziale... Inoltre notevoli quantità d’acqua sono stoccate nei serbatoi idrici naturali. I laghi, le falde sotterranee e i ghiacciai conservano una riserva pari a quattro volte il volume annuo delle precipitazioni. Ma le riserve non si comportano allo stesso modo: mentre le acque di superficie e le falde freatiche si rinnovano costantemente, i ghiacciai vanno riducendosi in estensione e volume. Dal 1980 al 2005 abbiamo perso l’equivalente dei laghi di Neuchâtel, dei Quattro Cantoni e di Zurigo messi assieme.
Il glaciologo Amédée Zryd riporta un calcolo impressionante: l’insieme dei ruscelli, dei torrenti e dei fiumi che scorrono sul territorio elvetico è come un flusso d’acqua di sessantacinquemila chilometri, pari a una volta e mezzo la circonferenza della Terra. Le riserve glaciali però si riducono da un secolo e mezzo e sono passate dai novantacinque miliardi di metri cubi del 1901 ai settantacinque miliardi del 1980 ai quarantacinque miliardi del 2005. Attualmente le riserve sono scese sotto i quaranta miliardi e l’Ufam prevede che più del settanta per cento del volume accumulato nei bacini del Rodano, del Reno, dell’Engadina e del Ticino sia destinato a scomparire entro la fine del secolo. Nel 2005 Zryd assicurava che restavano comunque 231 miliardi di metri cubi di acqua dolce stoccati nei laghi, nei ghiacciai, nei corsi sotterranei e nei bacini artificiali. Ma oggi? E domani?