XIX.
Terreni di gioco
Ancora prima che nei circoli alpinistici si pronunci la scandalosa parola sport, autorevoli voci d’oltre Manica osano mettere in discussione l’«alibi» che offusca l’esplorazione estetica e ludica delle montagne. Il famoso storico dell’arte John Ruskin afferma che le montagne «devono essere lo scenario non solo per particolari contesti sperimentali, ma per ogni esistenza degna di essere vissuta» e ironizza sui «molti viaggiatori alpini e gli impegnatissimi uomini di scienza che ci rappresentano in modo volubile i piaceri da loro provati sulle Alpi... Fatico a trovarne uno che non le vedrebbe volentieri tutte ridotte in ghiaia, se potesse essere il primo a esibire un sasso alla Royal Institution».
Ruskin vede per la prima volta le Alpi dalle cascate di Sciaffusa. Descrive l’evento come il suo felice ingresso nella vita, facendo presagire nuove avventure e una conoscenza più ravvicinata. Ma la sua ricerca estetica è destinata a fermarsi proprio lì ai piedi delle montagne, e pure a una certa distanza, dove la prospettiva garantisce la giusta visione e l’invadenza umana non rischia di profanare i santuari della Terra. Nel 1864, l’anno che precede la scalata del Cervino, il più famoso critico britannico libera gli strali contro i profanatori delle Alpi e non risparmia gli alpinisti dell’Alpine Club:
Voi avete disprezzato la natura e le profonde e sacre sensazioni dello scenario naturale. I rivoluzionari francesi trasformarono le cattedrali della Francia in stalle; voi avete trasformato le cattedrali della Terra in piste di gara. La vostra unica idea di divertimento consiste nel percorrere in ferrovia le loro navate e apparecchiare la tavola sui loro altari. Avete installato un ponte ferroviario sopra le cascate di Sciaffusa; avete scavato le rupi di Lucerna per costruire la cappella di Tell; avete distrutto la riva di Clarens del Lago di Ginevra... Voi considerate le Alpi che i poeti amavano e rispettavano alla stregua dei pali della cuccagna in un parco di divertimenti... e quando avete smesso di gridare e avete riempito di cannonate la quiete delle valli correte a casa rossi di erisipela di presunzione, garruli per i convulsi singhiozzi dell’autocompiacimento.
L’alpinista Leslie Stephen, colto intellettuale e uomo di lettere, risponde a Ruskin con il libro-manifesto sulle Alpi intitolato The Playground of Europe: «Il terreno di gioco dell’Europa». È uno slogan, una provocazione e una sfida:
È pur vero che la quiete è stata scacciata drasticamente da alcune zone alpine, ma non condivido l’astio di John Ruskin per la ferrovia che ha disturbato molte solitudini montane... A mio avviso poche cose sono più pittoresche di una strada carrozzabile alpina e non mi sento di disquisire sulla differenza tra la strada del Sempione e il tunnel che sta sotto. Naturalmente, al loro apparire, tutte le novità ci disturbano e c’è stato un tempo in cui l’aratro, nel paesaggio agricolo, ha rappresentato un’innovazione rilevante quanto la macchina a vapore ai giorni nostri. Se si comincia a opporsi alle macchine in quanto macchine, è difficile vedere dove si situa il limite...
Per Stephen andare in montagna non è una religione ma «uno sport come il cricket e il canottaggio. Si vince quando, nonostante le difficoltà, si arriva in cima; si perde quando si è obbligati a ritirarsi». Il papà di Virginia Woolf scrive proprio sport, termine inequivocabile, parola-tabù gravida di significati, e qualcuno, profeticamente, già immagina le montagne trasformate in immensi stadi. Eppure, a dispetto di ogni logica, buon senso e previsione, è proprio l’interpretazione di Stephen ad avere la meglio nell’evoluzione dell’alpinismo e nello sviluppo del turismo alpino. A metà Ottocento le Alpi non sono più un laboratorio a cielo aperto per studiare la genesi delle rocce e il destino dei ghiacciai, e neppure una cattedrale in cui lodare i prodigi della creazione, ma sono diventate un «terreno di gioco» per i cittadini in cerca di vacanza, libertà e riscatto. Niente taccuini, niente barometri, solo corde e chiodi per vincere le difficoltà e battere le cordate concorrenti.
Verso la metà del secolo entra in gioco anche la camera fotografica, inedita forma di rappresentazione paesaggistica e futura compagna dei turisti e degli alpinisti. Sulle prime lastre al collodio trascinate di peso sui pendii restano impressi i seracchi e crepacci delle Alpi, precisamente il Glacier du Grindelwald dei fratelli Bisson nel 1855, i Seracs des Bossons di Auguste-Rosalie Bisson nel 1862 e la Mer de Glace di Giorgio Sommer e Victor Muzet nel 1865, dunque gli stessi panorami dei pittori romantici. Il legame tra la nuova e la vecchia arte è così annodato che quando il fotografo parigino Auguste-Rosalie Bisson, allievo di Daguerre, decide di organizzare una spedizione al Monte Bianco per ritrarre le meraviglie dell’ascensione, vuole con sé anche il pittore-alpinista Gabriel Loppé per i «consigli sul punto di vista». Tale è l’afflato che pervade gli alpinisti-artisti, che Loppé sale quattro volte in cima per perfezionare Le lever du soleil vu du Mont-Blanc.
Il mare di ghiaccio
Dei tre ghiacciai più lunghi e famosi delle Alpi, che sono la Mer de Glace, il Gorner e l’Aletsch, il mare di ghiaccio è il più domestico perché precipita non troppo lontano dalle case di Chamonix. Molto tempo prima che un albergatore partorisca l’idea di costruire un albergo sul promontorio del Montenvers e che un ingegnere pensi di collegarlo alla valle con la ferrovia, il panorama del mare di ghiaccio è già accessibile a un buon numero di turisti-escursionisti del tutto privi di velleità alpinistiche ma spinti dal richiamo del ghiacciaio.
Il primo «cicerone» del Montenvers è Marc-Théodore Bourrit, l’ambiguo pigmalione di Jacques Balmat, che non potendo competere con Horace-Bénédict de Saussure sul piano della ricerca scientifica e non essendo riuscito a scalare il Monte Bianco, si dedica alla promozione di Chamonix e della Mer de Glace compilando una sorta di prontuario per chi sia intenzionato a visitare il luogo:
È inutile coprirsi troppo, ma occorre coprirsi con il mantello o la redingote nei momenti dedicati al riposo; è bene avere suole di para e scarpe ramponate: le migliori hanno punte o uncini a vista che si fissano sotto le suole; le suole ferrate sono pericolose in discesa, perché si impigliano nelle pietre ed è facile cadere; bisogna salire lentamente, scendere con l’aiuto del bastone ferrato e non sopravanzare mai le guide; bisogna evitare di bere acqua durante la marcia perché indebolisce, ma una volta sul ghiaccio l’acqua è consigliabile perché fortifica e rilassa; è utile l’ombrello...
La sorgente dell’Arveyron è la meta classica del tempo, la più rappresentata nei dipinti e negli scritti ottocenteschi. Si tratta di una specie di antro aperto nella parte bassa del ghiacciaio. Per circa un secolo è oggetto di attrazione per pittori e scrittori perché incorpora i due elementi forti della montagna romantica – il ghiaccio e l’acqua –, e perché partorisce un torrente impetuoso che precipita sulla valle dell’Arve. Visitabile con qualche rischio anche all’interno, la bocca del ghiacciaio accende di meraviglia e spavento gli occhi e lo spirito dei visitatori.
La volta della caverna – osserva Paola Giacomoni – faceva apparire il luogo come un palazzo di ghiaccio, come un tempio naturale, un duomo, una fortezza, o anche come un teatro, dove era possibile assistere a un grande spettacolo della natura, in tutta la sua potenza e maestosità. Il fascino era accresciuto da un fenomeno di illusione ottica che faceva moltiplicare gli spazi interni, facendo apparire la caverna come un regale appartamento cristallino dalle mille stanze, in cui si potevano immaginare tesori, ricchezze...
Nella prima metà dell’Ottocento la Mer de Glace acquista pretendenti. Si passa dal rude ricovero del Montenvers ai primi timidi tentativi di ospitalità alberghiera, e ogni volta il successo supera le più ottimistiche aspettative degli imprenditori, sovraffollando le sale e i giacigli. Ben tre imperatrici fanno visita al famoso belvedere: nell’ordine salgono Joséphine de Beauharnais, che viaggia con una scorta di sessantotto guide sotto il nome di contessa d’Arberg, Maria Luisa d’Austria, seconda moglie di Napoleone Bonaparte, e sua altezza Eugénie, sposa di Napoleone III, che visita la Savoia nel 1860 per festeggiare l’annessione alla Francia. I cortei imperiali si dispiegano sullo sfondo dei crepacci grigio-azzurri e il mare di ghiaccio diventa lo spettacolo più blasonato delle Alpi.
Nel 1869 il consiglio municipale di Chamonix decide di costruire il Grand Hôtel du Montenvers e affida il progetto all’architetto Camille Ruphy. Dieci anni dopo lo spiazzo a picco sulla Mer de Glace, opportunamente ingrandito e provvisto di cannocchiali, accoglie un edificio di quattro piani con gli interni rivestiti di legno di pino, alcuni salotti conviviali e un’elegante sala da pranzo. Il primo piano ospita i clienti di riguardo mentre i piani superiori sono riservati agli alpinisti e alle guide. Si delinea la netta separazione tra chi sceglie la montagna come teatro di villeggiatura, i futuri turisti, e chi la frequenta attivamente con scarponi, corda e piccozza. L’approccio dei nuovi avventori è ben raccontato da Édouard Desor, che nel 1844 si trova a soggiornare al Montenvers:
Il gruppo si apprestava a scendere sul ghiacciaio quando una signora si rifiutò: dava l’idea di non avere alcuna intenzione di morire in un crepaccio. Gli altri non si fecero scoraggiare e si misero in cammino. Una guida sorreggeva le dame sotto braccio, seguita da due signori dai baffi enormi, ma al momento di mettere piede sul ghiaccio vinse l’idea che si stava correndo un pericolo esagerato...
Un signore si rivolse a voce alta al vicino: «Non capisco come si possa esporre le signore a un rischio simile!» e la colonna cambiò direzione per tornare immediatamente sulla terraferma. Solo quando furono di nuovo sulla sponda del ghiacciaio, vedemmo quel signore assumere un’aria indispettita e deplorare a gran voce il fatto che le dame fossero così pavide e poltrone: sarebbe stato tanto bello andare a passeggio sulla Mer de Glace!
A partire dagli anni Ottanta il Grand Hôtel attira visitatori sempre più numerosi, attratti dalle montagne e soprattutto dalla vita mondana d’alta quota. All’epoca non c’è moda più originale del soggiorno a duemila metri; ogni borghese che si rispetti sogna di mettersi in abito da sera per l’aperitivo in faccia al Petit Dru illuminato dalla luce del tramonto o dai bagliori del temporale, più o meno negli stessi luoghi in cui il dottor Frankenstein incontrò la mostruosa creatura. L’emozione dei ghiacciai rivaleggia con i castelli medievali, le coste mediterranee e le città d’arte.
Il 25 luglio 1892 un gruppo di finanzieri e imprenditori svizzeri inoltra domanda al Municipio di Chamonix per attrezzare con un treno a cremagliera la salita al Montenvers. Le guide, i conducenti di muli e molti valligiani reagiscono con toni sdegnati alla proposta, predicendo rovina e miseria per i loro villaggi, ma i progettisti non demordono e nel 1897 il Parlamento francese dichiara la ferrovia del Montenvers «opera di pubblica utilità». I lavori cominciano nel 1905, con tecnologie costruttive avanzate (due tunnel e due viadotti), grande spiegamento di mezzi e impiego massiccio di mano d’opera italiana. Nel 1909 il primo treno raggiunge il Grand Hôtel con un viaggio di neanche un’ora. Ora le signore in gonna lunga e i signori in redingote possono trasferirsi comodamente dal loro albergo di Chamonix all’hôtel affacciato sulla Mer de Glace senza neppure cambiarsi d’abito. Sembra che il mare di ghiaccio sia sceso ancora più a valle.
Albe dorate
Il Gornergletscher è il secondo ghiacciaio delle Alpi e scorre ai piedi del versante settentrionale del Monte Rosa nell’alta valle di Zermatt, cioè nel Vallese di lingua tedesca. Quando i sette ragazzi-esploratori di Gressoney lo avvistarono dal Colle del Lys nel 1778, capirono che non era la Valle perduta ma un lungo fiume di ghiaccio. Da Zermatt il Gorner non si vede e gli occhi sono calamitati dal Matterhorn (Cervino), sul fianco destro della scena. Dalla media valle, al contrario, è la piramide a essere nascosta, a favore delle pareti bianche del Castore, del Polluce e dei Breithorn. Il visitatore intuisce che a sinistra della scena c’è un angolo himalayano segnato da scivoli candidi e vetrati, cascate di seracchi e masse gelate in movimento. Uno straordinario mondo di ghiaccio.
A metà Ottocento gli albergatori di Zermatt sanno che la gente non viene solo per il Matterhorn. Conoscono la forza attrattiva dei ghiacciai. Inoltre hanno capito che il Cervino è più bello man mano che lo spettatore se ne allontana, perché guadagna in leggerezza e prospettiva. Se da Zermatt il Cervino è un profilo romantico ritagliato tra i tetti dei rascard, visto di fronte diventa un dio di pietra, sfrontato e irresistibile. Dunque gli imprenditori del turismo concentrano l’attenzione sul costone che delimita la destra orografica del ghiacciaio e sale mansueto oltre i tremila metri: la cresta del Gorner, o Gornergrat.
Da molti anni il belvedere attrae gli escursionisti e gli scienziati, tra cui l’illustre glaciologo James Forbes. Si tratta di estendere l’offerta ai villeggianti e ai turisti costruendo un albergo e dotandolo delle comodità necessarie per ammirare l’alba dorata sul triangolo del Matterhorn. Il primo progetto di ferrovia risale al 1890, quando il treno non ha ancora raggiunto neanche Zermatt. I lavori del Gornergrat iniziano nel 1896 e due anni dopo i convogli sbucano sulla piattaforma adiacente l’Hôtel Belvedere, a 3130 metri. Quello del Gorner è il primo treno svizzero a cremagliera con trazione elettrica e trasporta quasi trentamila turisti in un anno. Quando la «gornermania» cresce, la ferrovia si adegua. Dal 1942 il treno sale anche d’inverno, scavandosi il passaggio tra due muri di neve. A fine secolo diventa una stazione cosmopolita e il «non luogo» più bello del mondo. Giorgio Salza lo descrive così:
Giunge il primo treno, che è formato da un solo vagone. Ne scendono molti portoghesi che lavorano all’hôtel (e certo non lo dirigono), ma anche i primi giapponesi, che qui sono sempre i più numerosi. Vengono da lontano, hanno in tasca programmi stabiliti. I dépliant li informano con chiarezza e loro sanno dove dirigersi... Qualcuno prende appunti, disegna contorni. Così in pochi, nella luce silenziosa del mattino, sembrano inquirenti giunti a investigare sul più vasto teatro che delitto abbia mai avuto... Poi arrivano gli altri treni e ora sono carichi di ogni tipo umano...
Sotto un cielo di ghiaccio
Interessa il Gornergletscher anche l’estrema fase dell’esplorazione glaciale alpina che si prefigge la scalata in senso inverso dei meandri, il censimento degli inghiottitoi e lo studio morfologico dei cunicoli che bucano la pancia del drago. L’avventura sottoglaciale è più materia per gli speleologi che per gli alpinisti.
Alcuni esploratori – scrive Elisée Reclus nella seconda metà dell’Ottocento – son discesi in questi abissi per misurarne la profondità e per studiarne la temperatura e la composizione dei ghiacci profondi. Qualche volta hanno potuto farlo senza molto pericolo, penetrando lateralmente nei crepacci dalle sporgenze delle roccie, che servono di sponda ai ghiacciai. Spesso hanno dovuto calarsi con le corde, come il minatore che discende in seno alla terra.
Nel 1866 lo svizzero François-Alphonse Forel risale una condotta gelata di duecentocinquanta metri nel ghiacciaio di Arolla. Il suo sguardo è profondamente influenzato dalle scoperte di Agassiz, che tempo prima aveva esplorato un pozzo di oltre ottanta piedi di profondità. Nel 1882 l’americano Horace Honey scrive Celebrated Caves e sostiene l’ingenua teoria per cui le «grotte di ghiaccio» sarebbero dovute al calore emanato dalla terra nelle zone di contatto tra la roccia e il ghiaccio. Nel 1895, con il lavoro Karstformen der Gletscher di Seiger, il ghiaccio viene considerato per la prima volta un «materiale carsificabile», dunque da studiare ed esplorare utilizzando le competenze degli speleologi. Joseph Vallot compie alcune esplorazioni nei moulins della Mer de Glace, seguito da Fontaine. Gli sviluppi sembrano promettenti, ma le ricerche si arrestano a fine del secolo.
A metà Novecento si direbbe che l’idea della grotta di ghiaccio affascini più i turisti che gli scienziati. Gli ammiratori del Monte Bianco non si accontentano di contemplare la superficie dei ghiacciai e vogliono entrarci dentro. Nel 1946 Georges Claret e Charles Simond, fiutando il business, chiedono al Comune di Chamonix il permesso di attrezzare la grotta della Mer de Glace e scavano a picconate una galleria e un antro dai riflessi azzurrognoli, guidandovi i visitatori attoniti. Ma il ghiacciaio si sposta di continuo, mentre la grotta deve trovarsi sempre sotto l’asse del Montenvers. E così il gioco non si ferma mai.
Intanto i glaciologi approfondiscono l’intuizione del «carsismo glaciale». Nel fondamentale lavoro dedicato alle Alpi fisiche e umane, pubblicato a Torino nel 1963, il geologo e geografo fiorentino Giotto Dainelli parla esplicitamente del fenomeno:
Chi da Courmayeur abbia fatto una gita fino al ghiacciaio del Miage avrà osservato come quasi sempre uno zampillo, o più di uno zampillo d’acqua, alimenti il laghetto sboccando da piccoli orifizi aperti nella massa del ghiaccio compatto. Dunque vi è anche una circolazione interna, come è quella nei calcari del Carso. E come nel Carso i cunicoli interni sono dall’acqua a poco a poco ingranditi, allargati e approfonditi per l’azione solvente sui calcari... qui i canaletti interni sono ampliati per l’azione fondente esercitata a spese del ghiaccio. E come nel Carso questa formazione di cavità sotterranee può procedere e rendere tanto sottile la volta, che poi questa precipiti, aprendo grandi irregolari cavità nel terreno, e così può avvenire, con processo quasi identico, nelle lingue dei ghiacciai.
Negli anni Ottanta del Novecento si organizza l’esplorazione «sotterranea» dei ghiacciai alpini. Gli speleologi scelgono il ghiacciaio dei Gorner, il secondo delle Alpi, per scendere attraverso i mulinelli glaciali che assorbono l’acqua di superficie, evitando i crepacci che tendono a chiudersi verso il basso. Racconta Mario Vianelli:
Nell’ottobre del 1985 sono alla biglietteria del trenino che sale al Gornergrat, per lasciare una cospicua somma di denaro nelle tasche degli esosi conducenti svizzeri; con me sono Francesca Bellucci, Marco Marantonio e Leonardo Piccini. Le tende vengono poste sulla morena mediana nei pressi del Lago Lungo, un vecchio canyon sbarrato ricolmo di acqua turchese... I pozzi fossili su cui avevamo sperato si rivelano chiusi al massimo a una quarantina di metri di profondità; quelli attivi, ovviamente, sono aperti, ma si arriva sempre al punto in cui l’acqua occupa tutta la sezione del pozzo... L’ultimo regalo del Gorner è il Mostro Tonante, un pozzo dall’acustica così perfetta da amplificare benissimo i rumori, trasformando la cascata diurna nel frastuono di una mandria in corsa.
Gli esploratori tornano l’anno seguente, sempre nel mese di ottobre. Sono gli stessi Vianelli e Piccini con Giovanni Badino, Alfredo Colitto e Giampiero Carrieri. Ostacolati dal maltempo ma favoriti da temperature più rigide dell’autunno precedente, esplorano quattro nuove cavità subglaciali e scoprono un fantastico abisso che battezzano Agassiz:
Dopo un vasto pozzo iniziale di oltre 80 metri, la grotta prosegue con altri salti più brevi intervallati da meandri, che abbiamo seguito fino a 140 metri di profondità, arrestandoci su di un meandro semi allagato: finalmente una grotta vera, complessa e articolata e, fatto importantissimo, percorsa da corrente d’aria al suo interno. L’insospettata presenza di tratti orizzontali nella parte profonda della massa glaciale rivoluziona la teoria secondo cui l’acqua superficiale avrebbe dovuto precipitare con grandi pozzi fino alla roccia sottostante. A questo punto non è assurdo ipotizzare un vero e proprio sistema subglaciale, ipotesi avvalorata dalla presenza di correnti d’aria che in uno dei meandri scoperti, a circa 100 metri di profondità, era particolarmente violenta.