XII.
L’enigma della neve

«Talvolta crolla improvvisa dal monte / Sul liscio ghiaccio una valanga e toglie / Alle tremule stelle il fondamento.» Il poeta romano Claudio Claudiano aveva già capito che più del freddo e della tormenta, più ancora della fame, il male supremo era la valanga. La grande paura dei montanari. Per secoli gli abitanti delle terre alte hanno cercato d’interpretare o divinare il comportamento della neve, costruendo i villaggi nei luoghi più sicuri del pendio e percorrendo i sentieri nelle ore fredde, quando il rischio è minore, o non percorrendoli affatto dopo le grandi precipitazioni invernali. Ma non è bastato. Nonostante l’esperienza, malgrado la prudenza e il timor sacro, le valanghe hanno sempre colpito le comunità alpine perché non esiste fenomeno più imprevedibile. Lo specialista della neve Colin Fraser spiega che

nel sortilegio della montagna innevata s’inserisce la fredda, ma pur suggestiva insidia della valanga: ricorrente o eccezionale; minuscola o immane; candida e precipite nuvola distruttrice, scorrere ed accavallarsi di lastroni, insieme di neve e ghiaccio, o di neve e roccia, o di neve bagnata e fango, o tutto questo assieme; con il buono ed il cattivo tempo; d’inverno, in autunno o in primavera; improvvisa, imprevedibile o attesa, e perfino provocata. È l’enigma antichissimo e sempre nuovo che si ripropone a chi vive o soggiorna tra le nevi sulle quali incombe il pericolo.

Di solito i montanari conoscono la neve. «È pure piccola la Terra, ma è pure immenso un cristallo di neve», scrive Mario Rigoni Stern, che sapeva descrivere la neve come una cosa viva, magica e meravigliosa, dal carattere cangiante. In un famoso racconto Rigoni ha catalogato otto tipi di neve tradotti nella lingua cimbra dell’Altipiano di Asiago:

Brüskalan è la prima neve dell’inverno, quella vera, dopo quella fiacca d’autunno: «Lo si sentiva nell’aria l’odore della prima neve, un odore pulito, leggero, più buono e grato di quello della nebbia». È la neve che copre i campi, li infarina, che avvolge ogni cosa di un velo bianco.

Sneea è la neve abbondante e leggera giù dal molino del cielo: le voci si affievoliscono, il mondo diventa ovattato. È neve da sci e slittini, da caldo del focolare e della stua.

Haapar è la neve di fine inverno, che si scioglie al sole e lascia intravedere il terreno sottostante. Le prime allodole cantano all’imminente primavera.

Haarnust è la neve vecchia che verso primavera, nelle ore calde, il sole ammorbidisce in superficie e che poi il freddo della notte indurisce. Neve per escursioni fuori pista a piedi o con gli sci, ma solo fino a metà mattina, fino a che sopporta il peso senza cedere: vi si cammina come sospesi.

Swalbalasneea è la neve della rondine di marzo, che è sempre puntuale nei secoli, soffice o bagnata, larga o simile a tormenta, volubile come il clima di marzo, neve che è l’ultima resistenza dell’inverno.

Kuksneea è la neve del cuculo, l’uccello che risveglia il bosco. Sui prati che incominciano a rinverdire e dove sono fioriti i crochi non si ferma molto perché ancora prima del sole la terra in amore la fa sciogliere. Neve effimera di fine stagione.

Bàchtalasneea è la neve della quaglia, neve di maggio, non frequente, ma neppure rara: la temperatura cala bruscamente, una grossa nuvola si avvicina e per poche ore butta la neve sui tarassachi e sui miosotidi, allarmando i caprioli, spaventando gli uccelli e uccidendo le api avventuratesi nei prati.

Kuasneea è la neve delle vacche, la rara neve d’estate, che fa scendere urlante dai pascoli il bestiame.

Un cristallo di neve è un miracolo; un mucchio di neve può diventare una calamità. Non serve andare troppo indietro negli anni per imbattersi in nevicate spaventose, che al tempo del riscaldamento globale ci sembrano appartenere a epoche antiche e invece sono parenti prossime della modernità. Pochi ricordano che una delle più tristi pagine del Novecento alpino risale agli anni del boom economico, inverno 1954, quando sul piccolo comune austriaco di Blons nel Vorarlberg si rovesciò la tragedia del secolo. In un giorno scesero due metri di neve inconsistente, la neve si ammucchiò nella notte sul pendio, l’accumulo raggiunse il punto di rottura e la mattina dell’11 gennaio una bomba farinosa soffiò via quattordici case soffocando più di ottanta montanari. Si mobilitò la valle intera, arrivarono i soccorsi, gli uomini si misero al lavoro senza fare calcoli e fu letale perfino la gara di solidarietà, perché verso sera scese una seconda valanga, che deviando sul letto della prima fece altre quarantatré vittime. Alla fine tra le rovine si contarono centoventisei corpi senza vita, una cifra da bollettino di guerra, ma la gente della Großes Walsertal si caricò il peso dei propri morti e nascose al mondo la disgrazia. D’altra parte il mondo era molto più interessato all’automobile e alla lavatrice.

Così tanta in così pochi giorni

Un secolo prima avevano perso la vita sessantasei persone a Gerola Alta, nelle Alpi Orobie. La vicenda era passata ugualmente sotto tono – nessun resoconto giornalistico, nessuna cronaca letteraria –, eppure le case e le anime di un intero versante erano state annientate in un secondo. Di memoria in memoria, e di amnesia in amnesia, anche la triste storia di Case di Sopra si sarebbe persa se non fosse intervenuto il giovane parroco di Gerola a prendere nota dei fatti. Cirillo Ruffoni della Società Storica Valtellinese ha trascritto la sgrammaticata e accurata memoria che don Antonio Brunati lasciò sul registro della parrocchia:

Nel febbraio di questo anno 1836 fu così tanta la neve che cadde in pochi giorni, che dovunque minacciava di formarsi in vallanghe. Nel 29 dello stesso mese, due ore incirca prima che si facesse dì, una terribile vallanga di neve, staccatasi dal vicino monte detto Mezzül e nel luogo dove dicesi alla Spianata, dopo essersi divisa in tre parti uguali, venne con la terza sempre più ingrossandosi con tale impeto e forza a piombare sopra di questo infelice colondello, che lo atterrò tutto, strascinando gran parte delle rovine con dieci persone nel sottoposto fiume Bitto. Questa frazione, che contava ventitrè famiglie, ora non presenta più che un ammasso di rovine. La chiesa che resistè all’urto terribile di questa immensa vallanga potrà, sola, mostrare alla più tarda posterità che quivi fuvvi, un giorno, abitazioni di uomini... Nè qui stette tutto il danno, perchè, allargatasi questa vallanga in cima dei prati che stanno al di sopra di questa frazione fino al di qua ove dicesi alla Teggia, vi atterrò precipitando pei sottoposti canali nel fiume Bitto più di una ventina di stalle coi loro rispettivi fienili, ed una gran quantità di bestiame. Alle Fontane, vicino al bosco detto «Gagg da Mesa», distruggendo una stalla vi uccise anche due persone, una madre cioè e un figlio di circa dodici anni, di Castello, che si trovavano quivi già da varii giorni per il governo dei loro bestiami a mottivo delle strade cattive per la gran quantità di neve che cadeva in quei giorni. Alle «Roie» atterrò pure una stalla detta dei Bass, schiacciando sotto le rovine cinque persone. Tutti questi infelici, più di sessanta, si trovarono dal sonno trasportati alla eternità, e quei pochi che in sì orribile disastro trovarono miracolosamente lo scampo non seppero raccontare come ciò sia succeduto, tanta fu la veemenza e la celerità di questa vallanga, che Dio ci guardi sempre da un simile castigo.

Sempre al Ruffoni e a un altro sacerdote di Gerola, monsignor Agostino Acquistapace, dobbiamo la raccolta delle testimonianze orali:

Difficile e laborioso fu il recupero delle vittime che la furia della valanga aveva sospinto nel fondovalle, dove nel groviglio del legname sradicato si formò un enorme nevaio ghiacciato che ebbe a resistere per tutta l’estate e oltre. Mio nonno Agostino, classe 1844, e quindi a diretto contatto con quelli che della sciagura erano stati testimoni oculari, raccontava che alcune salme vennero alla luce solo a primavera inoltrata, con il disgelo. L’ultima fu raccolta e poi pietosamente composta nel camposanto della parrocchia nientemeno che il giorno di San Bartolomeo, il 24 agosto. E ancora dalle stesse labbra di mio nonno viene il grazioso episodio di una bambina inspiegabilmente scaraventata con la culla nel sottotetto della chiesa e miracolosamente illesa. Secondo un’altra versione si trattava di un maschietto che, pietosamente raccolto ed allevato da una famiglia di Rogolo, sarebbe il capostipite di un ramo dei Colli colà tuttora esistente.

Il miracolo di Bergemoletto

Indietreggiando di un altro secolo, e siamo a metà Settecento, s’incontra un altro miracolo: in Valle Stura la fecero franca due donne e una bambina. La loro storia ha del soprannaturale perché restarono trentasette giorni sotto la neve. Il caso attirò sul piccolo villaggio di Bergemoletto l’attenzione di molti curiosi. Autorità e scienziati s’interessarono alla comunità montanara colpita dalle «valanche delle nevi». Ignazio Somis conte di Chiavrie, medico e professore di medicina nella Regia Università, studiò il caso e pubblicò con la Stamperia Reale un Ragionamento sovra il fatto avvenuto in Bergemoletto... in cui si narra l’odissea di Anna Maria, Anna e Margherita Roccia «disseppellite e cavate vive il dì 25 d’Aprile con maraviglia incredibile di chi le vide...», con un corredo di osservazioni cliniche sull’accaduto. All’epoca non esisteva un nome corrente per definire le «cadute di gran mucchi di neve», perciò il Somis non inserì il termine «valanga» nel titolo del libro ma chiese licenza di adottare la parola in testa al resoconto «perché in Piemonte dal franzese chiamansi Valanche».

L’inverno del 1755 registra delle precipitazioni fuori dal comune non solo nel Cuneese. Tra febbraio e marzo cade una tale quantità di neve che duecento persone muoiono per disgrazie varie tra le valli di Aosta, Lanzo e Susa, e tra la Savoia e il contado di Nizza. Una delle tante valanghe uccide ventidue abitanti della borgata di Bergemoletto, decimando la popolazione. Come riassume Pietro Crivellaro,

è la mattina del 19 marzo, festa di San Giuseppe, e nevica da tre giorni. Udendo il boato in arrivo, il cappellano Giulio Cesare Emmanuel, uscito di casa per dir messa nella chiesetta poco lontana, lancia l’allarme. Due parrocchiani stanno sul tetto di casa, dando le spalle al monte, per spalare giù l’enorme strato di neve ed evitare danni. I due, Giuseppe Roccia, 50 anni, e il figlio Giacomo di 15, saltano giù e fuggono per quaranta passi prima di essere travolti dal turbine della valanga che per loro fortuna non li sommerge. Quando si rialzano non trovano più la casa e la stalla: un attimo prima là davanti stavano a guardarli gettare la neve dal tetto la madre Anna Maria, quarantenne, la figlia Margherita di 11 anni, il figlio Antonio di 5 e la cognata Anna di 24. Ora stanno sotto la valanga.

La massa precipitata dalla montagna è enorme: la valanga copre un fronte di duecento metri per cinquanta metri di larghezza e venti di altezza. Trenta rustici sono stati sepolti dalla neve e dai detriti. Dalla vicina Demonte accorrono conoscenti, parenti, volenterosi, contadini e militari, fino a trecento uomini armati di badili, zappe, picconi e pertiche per sondare la zona colpita. Però la neve è troppo compatta e dopo alcuni giorni di scavi e sondaggi disperati i soccorritori si arrendono. Non resta che aspettare il disgelo.

Passa un mese e finalmente si può riprendere la ricerca dei cadaveri. Ormai è primavera, il sole scalda, lo spessore della neve è diminuito e le pertiche indicano delle vie di scavo. Tra le prime vittime emerge l’anziano prete rifugiatosi in canonica, morto con il rosario in mano: il sacerdote se n’è andato pregando. Mancano ancora alcuni parrocchiani. La famiglia Roccia è stata decimata dalla sciagura e padre e figlio aspettano da settimane di recuperare i propri cari. Giuseppe e Giacomo continuano imperterriti a grattare la neve, finché da Demonte giungono in aiuto due cognati: Giuseppe e Antonio. È il 25 aprile. Antonio ha sognato la sorella Anna Maria che invocava una mano pietosa.

«È lì», assicura Antonio. «Scavate lì, scavate!»

«Quest’uomo ha le visioni», pensano i presenti. Ma qualcuno crede alle visioni.

L’assurda speranza

Gli uomini uniscono le forze, si fanno coraggio e ricominciano a sondare. Finalmente hanno individuato il luogo in cui si trovava la stalla, dove le donne sono sepolte da più di un mese. Adesso scavano con lena inaudita perché i sondaggi delle pertiche hanno incontrato un vuoto da cui sembrano uscire delle voci. Miraggio? Allucinazione? No, sono voci umane, voci di anime sopravvissute a trentasette giorni di angoscia sotto le rovine. In breve vengono estratte le tre donne in condizioni pietose, magre da far paura, accecate dal sole di fine aprile, ma incredibilmente vive. Dalla tomba di neve emergono anche le due capre che hanno salvato la vita alle montanare. Purtroppo il piccolo Antonio è morto dopo pochi giorni.

L’episodio delle miracolate di Bergemoletto diventa anche un caso scientifico. Il medico di corte Ignazio Somis visita e interroga le superstiti alla fine di luglio alle Terme di Valdieri, annotando i rilievi clinici del «miracolo». Anna Maria è la più provata:

dagli occhi suoi – scrive Pietro Spirito rielaborando la relazione del Somis – spesso cadevano lagrime grosse e involontarie, e le pupille si muovevano di continuo tremolando. Di dolor di stomaco e di capo Anna Maria si lamentava, e di sete inestinguibile, e di non poter prender più sonno. E se il sonno infine giungeva, incubi terribili lo visitavano, tenebra fitta, bagli di luci, e suoni e voci deformate: quella di Antonio, il pianto supplichevole, le gelide membra e l’ombra di un fantasma putrefatto.

Avanza l’estate e si profila un nuovo autunno. La famiglia Roccia non ha più niente salvo «l’abbondevole sovvenimento dato dal re e dal Duca di Savoia». La sovvenzione regale li convince a restare a Bergemoletto, ma serve subito una casa per l’inverno. Recuperando le pietre dalle abitazioni distrutte Giuseppe riesce a costruire una casupola a cinquanta passi dalla precedente, e una minuscola stalla per le due capre sopravvissute. Erano già schiacciati prima e sono più allo stretto adesso, ma sono ancora insieme, e si fa peccato mortale a maledire il Signore dopo che ti ha salvato la vita. Così i Roccia superano un altro inverno e un’altra estate, finché i soldi finiscono e non resta che partire a cercar fortuna ed elemosina.

Giuseppe, Anna e Anna Maria principiarono così a vagabondar per il Piemonte, visitando questa e quell’altra valle, città, provincia e luogo, e in ogni dove, nelle piazze, fiere, strade, locande e ovunque vi fosse qualcuno da fermare, interrogare, supplicare, narravano la maravigliosa istoria loro occorsa, sì da muovere a compassione chi l’ascoltava e da potervi guadagnare un’offerta, denaro o cibo era l’istesso.

Tre anni dopo la «resurrezione» delle sepolte di Bergemoletto, Ignazio Somis non si è ancora dato una ragione scientifica dell’accaduto. Ha visitato una seconda volta le donne a casa sua, sulla collina di Torino, e per la seconda volta ha trovato tre corpi nella norma, niente che faccia pensare a organismi straordinari, salvo il fatto che i tre cuori battano e i sei polmoni respirino ancora. «Questa volta Dio non ha voluto», ha concluso il medico.

Gli anni scorrono e la sensazione svanisce. Anche i fatti più strani diventano normali con il passare del tempo. In valle si pensa che il miracolo sia unico e per sempre, invece, come rivela Nanni Villani, una cronaca della Sentinella delle Alpi del 26 gennaio 1895 dimostra che talvolta il bene ritorna. L’articolo della Sentinella racconta di due giovani e sfortunati sposi, i Degioanni, che sono stati colti nel sonno da una valanga. I due montanari abitavano in una frazione presso le terme di Vinadio, sempre in Valle Stura, e si trovavano in casa con il figlio di diciotto mesi. Non si sa come ma il bimbo è scomparso. La cronaca indugia sul mistero del piccolo del quale s’è persa ogni traccia, cancellato dalla nuvola bianca. I soccorritori hanno cercato il cadavere per giorni, scavando la neve e rimuovendo i detriti, quando

sotto due tavole collocate in modo da formare una specie di tetto, ecco la culla intatta con dentro il povero piccolo tuttora vivo, mercè il calore mantenuto al suo corpicciuolo dal fido cane di casa, rinvenuto accovacciato sulla culla.