VIII.
Popoli e miti
del Grande Nord
Da ragazzo ero stregato dall’alta montagna e quasi insensibile al fascino del Nord. Le avventure polari mi annoiavano, confondevo l’Artide con l’Antartide e leggevo Il richiamo della foresta e Zanna bianca per dovere famigliare o scolastico, senza passione, convinto che la fiamma dell’avventura sprigionasse dalla verticalità. Giovane adepto della forza di gravità, ero assolutamente sicuro che il motore della mia attrazione stesse nel vuoto e nella vertigine. Avevo ragione a metà, perché secondo la legge degli alpinisti un vuoto verticale è molto diverso da un vuoto orizzontale, ma dal punto di vista ambientale la differenza sfuma. Chiunque abbia viaggiato in verticale e in orizzontale sa che salire verso la cima di una montagna è un po’ come dirigersi a settentrione verso i gelidi orizzonti, e che un’ascensione di due o tremila metri climaticamente equivale a spostarsi in piano per migliaia di chilometri. Quindi si può andare a nord scalando dislivelli o risalendo latitudini.
Come scrive Peter Davidson, il Nord è prima di tutto un’idea che
si sottrae sempre a ogni tentativo di raggiungerlo, ritraendosi verso la notte polare o verso l’aurora di mezzanotte nel cielo estivo. Ciascuno porta in sé la sua idea del nord. Dire «questa notte partiamo per il nord» evoca immediati pensieri di un luogo più aspro, un luogo di privazioni: alture, tempo avverso, lontananza dai centri abitati. Un viaggio volontario verso il nord presuppone un desiderio di confrontarsi con gli aspetti più difficili del clima, della topografia, dell’umanità. Per la narrativa anglofona la battuta «questa notte partiamo per il nord» troverebbe spazio in un thriller, in un film d’azione, o d’avventura, o di conquista di una terra selvaggia.
Il Grande Nord, quello con la maiuscola, evoca generalmente l’idea di un luogo di frontiera dai connotati estremi e disumani. Per il creatore di fiabe Hans Christian Andersen, autore de La regina delle nevi, non è altro che un castello di ghiaccio:
le pareti del castello erano formate dalla neve che cadeva, le finestre e le porte dai venti che soffiavano; c’erano più di cento saloni, secondo la forma che prendeva la neve caduta; il più grande si allungava per molte miglia, tutti erano illuminati dall’aurora boreale ed erano grandi, vuoti, gelati, luminosi. L’allegria non arrivava, mai c’era stato un ballo di orsacchiotti in cui la tempesta intonasse una musica, e gli orsi camminassero sulle zampe posteriori, mai c’erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari, mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve.
Matthew Henson, il nero che nel 1909 accompagna Robert Peary al Polo Nord, addolcisce l’idea paragonando la mezzanotte artica a «un tardo pomeriggio newyorchese il 4 di luglio». Il nord ha la stessa luce e le stesse magie, dice Henson, intendendo che bisogna andare incontro al crepuscolo per cogliere il fraseggio delle ombre.
Nel 1950 lo scrittore svizzero Hans Ruesch, romanzando il Paese dalle Ombre Lunghe, divulga la filosofia degli uomini del nord: gli Inuit. «Quando Ernenek, svegliandosi, sollevava il capo dal sacco a pelo, il suo primo pensiero era di solito il mucchio di carne messa a marcire presso la lucerna perché diventasse tenera e gustosa». Già molti anni prima alcuni cacciatori artici avevano confidato a Fridtjof Nansen che ogni oggetto animato e inanimato ha un’anima: l’inua. Tutto è vivo lassù nel Nord: i sassi, le slitte, gli arpioni per la caccia alla foca, il ghiaccio che scricchiola sotto gli stivali, gli iceberg naviganti, le onde del mare e le nuvole in cielo. Anche la fame, la sete, il dolore e l’amore sono mossi dallo spirito della vita. Se si uccide un animale gli si chiede perdono e l’estate finisce con la festa del ringraziamento, quando i cacciatori esprimono riconoscenza agli animali sacrificati. Durante la cerimonia gettano in mare le ossa delle prede uccise affinché le anime possano rinascere.
Anche se nella maggioranza delle scuole del mondo s’insegna semplicemente agli studenti che gli eschimesi pescano il pesce di mare attraverso un buco nel ghiaccio e vivono rintanati nelle case di blocchi di neve che si chiamano igloo, l’idea che qualcuno viva vicino al Polo Nord evoca valori epici. Il mito trae forza dalla leggendaria sintonia tra la gente dell’Artico e il ghiaccio: distese bianche, ombre magre, lunghe notti per pensare e stagioni brevi per la caccia e la pesca. Buona parte del racconto ha caratteri magici e soprannaturali, certamente correlati ai luoghi in cui è nato e alle circostanze nelle quali è stato rivelato. La conoscenza scaturisce dai primi viaggi esplorativi verso le regioni artiche e cresce attraverso i diari e le memorie di favolosi incontri. Quando lo spirito pionieristico degli esploratori incrocia i popoli che vivono sul ghiaccio in condizioni estreme nascono scambi eccezionali.
Il lungo inverno di Rasmussen
Dopo il norvegese Nansen arriva il danese di origine inuit groenlandese Knud Rasmussen, «l’uomo preceduto dal suo sorriso» secondo un’immagine di Paolo Gobetti. Rasmussen è nato dalle parti di Qaasuitsup, la regione degli iceberg e dell’immenso ghiacciaio Sermeq Kujalleq, quindi conosce l’ambiente e il linguaggio degli eschimesi. Da etnologo curioso e autodidatta, più che conquistare nuove terre vuole conoscere e far conoscere quel che resta dei vecchi abitanti, che qualcuno ha battezzato con termine spregiativo «mangiatori di carne cruda», mentre loro vogliono essere chiamati «Inuit», che significa semplicemente «Uomini».
Dopo avere incontrato nel 1910 Peter Freuchen, ideale compagno d’avventura, Rasmussen parte per il Nord-Ovest della Groenlandia e nella baia di North Star fonda la stazione di Thule, l’avamposto più settentrionale della civiltà. Di lì partiranno le sue esplorazioni verso un mondo che non è già più quello degli antichi Inuit, ma non è ancora una colonia culturale.
Knud è infinitamente affascinato dal ghiaccio e dal paesaggio irreale che si cela nello scenario del Grande Nord. Ripete che
l’autunno artico non ha in sé alcun aspetto orribile. Si scivola fuori dal vivo dell’estate e si vede la natura irrigidirsi nel freddo, senza che i pensieri vengano condotti all’oscurità cui si va incontro. Perché l’inverno non è un nemico, è il grande aiutante che costruisce ponti sui mari, copre le rocce dei monti e spiana i crepacci. E non appena la neve che permette l’uso della slitta rende possibili i lunghi viaggi, ritorna la voglia di partire, nascono nuovi progetti e si aspetta con impazienza che il freddo aumenti.
Da una vecchia donna di nome Arnaruluk ascolta il racconto eschimese della creazione:
In quel tempo lontano in cui la Terra doveva nascere, essa cadde giù dall’alto; il terreno, le montagne, le pietre caddero giù dal cielo. E così la terra fu. Dopo che fu creata la Terra vennero gli uomini. Piccoli bambini uscirono fuori dal terreno e avanzarono tra i salici coperti di foglie di salice, e la terra diede loro il nutrimento. E poi si racconta di un uomo e di una donna. La donna fa i vestiti per i bambini e cammina sulla terra, dove trova due bambini piccoli, li veste e se li porta a casa. Così due diventano tanti, e quando sono tanti hanno bisogno di cani. Un uomo se ne esce con un collare in mano, chiama hok, hok, hok!, e allora i cani vengono fuori da piccoli monticelli sabbiosi e cominciano a scuotersi perché sono pieni di sabbia. E così l’uomo ha i suoi cani...
La narrazione inuit procede attraverso una metrica fantasiosa, molto flessibile, che affronta i grandi temi dell’esistenza ricorrendo ai piccoli sguardi dell’infanzia. Come se solo un occhio da bambino possa affrontare il mistero. Per esempio, parlando di morte, il racconto inuit dice che «vennero giù la luce, la gioia e la morte, e quando il primo uomo morì il suo corpo venne ricoperto di pietre. Ma il corpo tornò in vita perché non sapeva ancora come si fa a morire...». Che si fa? C’è qualcuno che sappia insegnare a un uomo a morire? Alla fine del racconto il morto torna sotto il suo mucchio di pietre perché è arrivato il tempo della caccia e i cacciatori sono pronti a partire, ma non c’è più posto sulla slitta.
Anche per chi parla la stessa lingua e ha pestato la stessa neve non è facile entrare in confidenza con chi vive oltre certe latitudini, ma se nasce un’amicizia è per sempre. Così quando Rasmussen nel 1922 incontra Aua riesce a familiarizzare con il saggio taumaturgo, pur sapendo che uno sciamano non può rivelare i misteri della vita senza fiaccare le relazioni soprannaturali. Aua gli rivela che «bisogna saper afferrare la luce nel profondo del corpo e della mente; occorre cogliere quel fuoco che consente di scorgere le cose nascoste e permette di vedere nell’oscurità, o nel futuro, o nei segreti degli altri». Aua spiega a Rasmussen che nelle regioni gelate vivono il dio della terra e il dio del mare, che hanno fattezze quasi umane, e che l’invisibile è uno sciame di spiriti tempestosi che vanno placati per guadagnarsi la tranquillità. Nel rapporto con la divinità gli Inuit non mirano alla trascendenza, perché più che cercare l’aldilà sono interessati ad addolcire il di qua. Infatti quando si chiede loro in che cosa credano, rispondono «noi non crediamo, noi abbiamo paura». A questo servono gli sciamani: a scacciare la paura e a convivere serenamente con il mistero. Lo sciamano comunica con le presenze divine e fa da ponte tra i bisogni degli uomini e le esigenze degli spiriti. S’ingrazia la caccia trattando con il dio della terra, oppure incontra il dio del mare per fargli benedire la pesca o proteggere una gravidanza. La divinità è femmina e porta «lunghi capelli che le scendono sul viso, spettinati e arruffati. Allora lo sciamano l’afferra per una spalla e le ruota il volto verso la luce del lume acceso, accarezzando i capelli e lisciandoli affettuosamente con le dita».
Le due religioni
Lo sguardo poetico e animista degli Inuit non poteva essere tollerato dalla foga evangelizzatrice della Chiesa. Come osserva Davide Sapienza, «il crocevia tragico è la forzata cristianizzazione che è andata cancellando lo sciamanesimo e altre forme di legame con la terra, riducendo quelle forme di spiritualità rispettose del senso di comunità e di condivisione a folklore». Dunque c’è un prima e c’è un dopo, e anche l’incontro tra Rasmussen e Aua registra due situazioni: nel gennaio del 1922 Aua è ancora fedele alla cultura dello sciamanesimo, un anno dopo ha «congedato gli spiriti ausiliari» e sugli igloo dell’accampamento di caccia sventola un grappolo di bandiere bianche, simbolo della rinuncia all’antica religione pagana a favore della «fede del cielo». Ma l’etnografo nota che i racconti biblici sono accolti in modo letterale dai nativi, come le leggende pagane: se in passato si usava proteggere le persone e gli animali ricorrendo al potere degli amuleti, adesso è naturale mettere il crocifisso al collo. Anche ai cani.
Rasmussen è sempre affascinato dal rapporto armonico e simbiotico che s’instaura tra un Inuit e l’ambiente in cui vive. «È una scoperta che non smette di sorprendere – osserva dopo i primi viaggi – il fatto che davvero, nella nostra epoca così rapida, ci si possa trovare di fronte a persone che sembrano appena uscite dalla mano della natura». Già nel 1910, quando Knud annota questo pensiero, l’uomo «civilizzato» sa che la modernità rischia di cancellare quel mondo e che la tecnica sta rapidamente staccando l’uomo dalla natura che l’ha generato. Già si affaccia lo spettro di una devastazione antropologica e della scomparsa di un popolo, come ammonisce nel 1950 Hans Ruesch:
L’uomo bianco stava invadendo inesorabilmente la terra bianca, preceduto dalla sua fama, accompagnato dalle sue armi, i suoi cibi, le sue bevande, i suoi costumi, i suoi idiomi, i suoi tesori, i suoi dei; portando doni non richiesti e prendendo roba senza chiedere; imponendo le sue leggi e infrangendo quelle altrui; e lasciando nella sua scia un vortice folle: talvolta di gioia e ricchezza, talaltra di desolazione, morte o prigionia.
Cinquant’anni dopo
Nel 2004 la signora Sheila Watt-Cloutier, presidente della Conferenza Circumpolare Inuit, sostiene che il riscaldamento del clima nella regione artica darà il colpo finale al modo di vita degli Inuit. La Conferenza chiama in causa il governo di Washington, che «di fronte a una minaccia ormai chiara (il cambiamento del clima) dalle cause riconosciute (le emissioni di gas serra), si rifiuta di prendere contromisure». Gli Inuit denunciano espressamente gli Stati Uniti, il paese che produce un quarto delle emissioni mondiali di gas serra eppure s’è tirato fuori dagli impegni del Protocollo di Kyoto. Secondo Donald Goldberg, avvocato del Centre for International Environmental Law, «il cambiamento del clima è una questione di diritti umani senza precedenti. Pone un pericolo immediato agli Inuit e altri abitanti dell’Artico, innanzitutto, ma milioni di persone che abitano in zone montane, piccole isole basse e regioni costiere o altre parti vulnerabili del pianeta saranno presto altrettanto minacciate».
Nel terzo millennio gli Inuit vivono ormai all’occidentale. L’inviato basco Ander Izagirre, che nel 2011 viaggia in Groenlandia per firmare un reportage, nota che «quando cacciano la foca i giovani di Kulusuk segnano le coordinate sul Gps per la cattura successiva. Le foche non sanno dei satelliti che le controllano, i cacciatori sì». All’imbarcadero di Kulusuk, Izagirre incontra quattro Inuit: tre uomini e una donna. Fumano e bevono seduti su cartoni. Tracannano birra senza parlare. «Hanno impilato una dozzina di lattine vuote. Nell’unico supermercato del villaggio una lattina costa due euro; un pacchetto di sigarette, dieci. Qui tutto è molto costoso, perché tutto arriva da molto lontano e solo una volta l’anno, in luglio, quando il mare si scongela quanto basta perché tra le lastre di ghiaccio riesca a infilarsi una nave danese carica di merci. Però il governo di Copenhagen paga il sussidio ai disoccupati, e così agli alcolisti di solito non mancano i soldi e nemmeno il tempo...» Mentre Izagirre intervista gli Inuit con il cellulare in mano, la primavera artica avanza e il ghiaccio comincia a fondere lasciando emergere il paesaggio che era scomparso sotto la crosta gelata: l’imbarcadero, le strade fangose, gli spazi urbani, i depositi. «Ai piedi delle case spuntano slitte, biciclette e camioncini di plastica abbandonati dai bambini; cataste di casse, bidoni e borse; pezzi di foca con cui i cacciatori alimentano i propri cani...» La vecchia e la nuova civiltà si sovrappongono senza che nessuno possa più distinguere le sfumature e separare i tempi. Il turismo e il consumismo hanno livellato i piani, non molto diversamente da ciò che hanno fatto sulle Alpi nei confronti della cultura montanara.
L’alpinista esploratore sudtirolese Robert Peroni ha scelto di vivere con gli Inuit allo scopo di «comprenderne i bisogni e alleviarne la fine». Peroni sostiene che gli «Uomini» hanno sempre resistito al vento finché i danesi li hanno messi in case di legno, imponendo la nostra civiltà. Alle prime raffiche il villaggio è stato spazzato. «Non si sono più fidati di noi bianchi e ancora si chiedono perché non si sono opposti a una colonizzazione spietata. Mi pare che ognuno di noi oggi sia preda di qualcuno che gli ordina come deve sconvolgere la propria vita per non risultare espulso dal sistema unico e globale. Siamo diventati tutti Inuit, primitivi logorati dal senso di colpa della povertà, dell’ignoranza, o dell’inadeguatezza».
Nel 2016 Giampaolo Visetti, inviato di «Repubblica», gli domanda perché un esploratore bianco scriva la storia del popolo groenlandese. Robert risponde «perché loro non hanno ancora il coraggio di farlo. Una civiltà secolare, fondata sulla libertà, è stata annientata in pochi decenni. Vedono gli iceberg che si sciolgono, i fiordi senza narvali, il pack senza orsi bianchi. Non hanno più pesce per i cani da slitta. Sono schiavi, mantenuti da chi li distrugge per morire senza fare nulla».
Preferirei essere cenere
In Alaska è diverso: il mito cresce attorno agli avventurieri. Il Grande Nord americano è dei cercatori d’oro e la narrazione è affidata a Jack London, al secolo John Griffith Chaney, lo scrittore vagabondo di San Francisco che scopre lo Yukon e il Klondike a ventun anni, nel 1897. Quando parte con un amico per unirsi alla corsa all’oro incontra un’umanità violenta e disperata, passa l’inverno in una capanna di tronchi e rientra con una misera spolverata di metallo prezioso e una ricca dote di spunti per imbastire racconti di neve e avventura. Nel 1900 la serie Il figlio del lupo inaugura il filone narrativo che culmina nei celebri romanzi Il richiamo della foresta e Zanna Bianca, tra paesaggi nordici estremi e uomini assetati di riscatto. Jack è un gran raccoglitore di storie e un cacciatore di emozioni; per talento innato sa tradurle sulla carta con la penna; la vita non gli basta mai:
Preferirei essere cenere che polvere! Preferirei che la mia fiamma bruciasse in una vampa brillante piuttosto che venire ricoperto dalla muffa. Preferirei essere un magnifico meteorite, con atomi che bruciano e s’infiammano, piuttosto che un pianeta immobile e assopito. La natura dell’uomo è vivere, non esistere. Non ho intenzione di sprecare i miei giorni nel tentativo di prolungarli, voglio viverli.
Mezzo mondo conosce il Grande Nord attraverso le pagine di Jack London, che da oscuro reporter di frontiera presto diventa un affermato scrittore. Le vicende ambientate sul gelido confine tra il Canada e gli Stati Uniti acquistano il carattere dell’epopea. Anche se molta gente pensa che i libri di London siano storie per ragazzi, sono gli adulti a turbarsi e appassionarsi di più. Le persone che non sanno immaginare un inverno senza stufa accesa e un bivacco sotto le stelle, leggendo London scoprono la parte più inospitale e magnetica del pianeta, la wilderness, e attraverso il mondo estremo scorgono il lato estremo di se stesse. Dick North, che ha inseguito a lungo il mito di Jack London nelle terre del Nord, sostiene che «se il Creatore doveva scegliere qualcuno per dare un’aura di romanticismo alla corsa all’oro nel Klondike, uno più adatto non poteva trovarlo».
Per comprendere l’enormità di questa avventura – spiega lo stesso London – bisogna capire quanto fosse remota e di recentissima acquisizione l’Alaska. L’interno della regione e il confinante territorio canadese erano un’area selvaggia sconfinata: centinaia di migliaia di chilometri quadrati ignoti e inesplorati come l’Africa più nera... Per un quarto di secolo gli eroi sconosciuti e mai celebrati brancolarono in cerca di oro e in lotta con il gelo: loro lo sapevano, quel metallo li aspettava da qualche parte all’ombra del Polo. Lottando con le spietate e terrificanti forze della natura tornarono alla vita primitiva, vestendosi con pelli di animali selvatici e coprendosi i piedi con il mucluc di tricheco e i mocassini di pelle d’alce. Dimenticarono il mondo e le sue maniere, e il mondo si dimenticò di loro.
Gli avventurieri bevevano alcol in quantità per resistere alla malinconia, alla fatica e ai cinquanta gradi sotto lo zero. Mangiavano quando c’era cibo e digiunavano il resto del tempo. Dicevano di nutrirsi di «tracce di coniglio e pancia di salmone». Camminavano per settimane e per migliaia di chilometri nella neve fonda e impalpabile, la neve dei climi polari, galleggiando con le racchette canadesi sotto i piedi; talvolta erano vittime delle valanghe. In primavera scendevano i fiumi scongelati con canoe fatte di scorza di betulla; talvolta annegavano. Sopravvivevano alle aurore boreali e bivaccavano nelle coperte di lana rinsecchita al sole di mezzanotte, sognando una manciata di polvere d’oro. Avevano in testa un solo pensiero: riempirsi i pugni di polvere gialla e tornare a casa dalle donne, cercare un posto caldo per invecchiare e vivere come la gente ricca.
Partivano senza sapere che la caccia all’oro è una droga, e che la droga dà dipendenza: «La fede! Magari non muove le montagne ma di sicuro ha creato il Grande Nord», scrive London. Secondo Jack nessun martire cristiano ha mostrato la fede dei pionieri dell’Alaska, che non ebbero mai dubbi né ripensamenti. E non era solo una questione di oro. L’avventura li aveva stregati: il perdersi senza più ritrovarsi in mezzo a uomini folli come loro, su quella terra splendidamente desolata. L’incantesimo di quella solitudine e di quella chimera gialla e luccicante «gli entrò nel sangue e li catturò per non lasciarli più». Dopo ogni campagna i cercatori giuravano che non sarebbero più tornati, ma come arrivava la primavera «li ritrovavi a inseguire i blocchi di ghiaccio liberati dal disgelo».
La caccia all’oro divenne un vizio come il gioco d’azzardo e anche di più, perché oltre la natura del gioco c’era il richiamo dell’ambiente naturale. Se non si fosse svolta in luoghi così assurdi e meravigliosi sarebbe stato difficile ricominciare la partita, e perfino raccontarla, ma la magia delle lande innevate seduceva e imprigionava gli uomini costringendoli a ritornare. Era un incantesimo: le stesse cose che maledicevano quando erano dentro a lottare li struggevano appena si allontanavano, richiamandoli in quei maledetti posti.
L’assenza di suoni è uno degli ingredienti dell’incantesimo artico. In un racconto dedicato all’argomento, London descrive il silenzio spettrale impastato con il gelo dell’aria e il bianco della neve:
la Natura conosce molti espedienti per convincere l’uomo dei suoi limiti – l’incessante scorrere delle correnti, la furia dei temporali, il sussulto del terremoto, il lungo rullio dell’artiglieria del cielo –, ma il più tremendo, il più sconvolgente è la passività del Silenzio Bianco. Ogni movimento cessa: il cielo è limpido, l’aria tersa, il più lieve bisbiglio sembra sacrilegio, e l’uomo diventa timido, terrorizzato al suono della propria voce. Unica particella di vita in movimento nelle spettrali distese di un mondo morto, egli trema di fronte alla sua audacia, capisce di essere un verme e nulla più. Inusitati pensieri si affacciano alla mente non chiamati, e il mistero del creato lotta per esprimersi. Lo assalgono la paura della morte, di Dio, dell’universo. Se mai può succedere, è in quei momenti che l’uomo cammina solo con Dio.
Così il cerchio si chiude. Dalle paure ancestrali dei pescatori inuit alle preoccupazioni più prosaiche dei cercatori d’oro, ritorna il mistero del Grande Nord. La latitudine non è scritta sulla roccia o sul sentiero di ghiaccio, ma c’è sempre un punto in cui finisce il mondo degli uomini e comincia un ambiente più estremo e inospitale. Inesprimibile come la neve. Inspiegabile come Dio.