XIII.
La conserva del freddo

Nel 1982 il regista viennese Fred Zinnemann, naturalizzato americano e reso celebre dal film di culto Mezzogiorno di fuoco, torna in Europa per girare sulle Alpi svizzere Five Days One Summer: «Cinque giorni un’estate». Il film sceneggiato da Michael Austin e interpretato da Sean Connery, Betsy Brantley e Lambert Wilson è forse l’incontro più fortunato tra la montagna e il grande cinema, anche se fa fiasco nelle sale americane e in Europa non registra il successo che avrebbe meritato. Zinnemann ricostruisce dall’alto dei suoi settantacinque anni il mondo alpino della gioventù, con una speciale cura dei dettagli e delle atmosfere. Il soggetto ambientato nel 1932 contiene i principali archetipi dell’alpe come mito e luogo etico, oltre che geografico. Miscela con equilibrio i temi della letteratura alpina a cavallo tra Ottocento e Novecento, aggiungendovi lo sguardo distante ma partecipe di chi ha avuto cinquant’anni di tempo per decantare le emozioni e mettere a fuoco i ricordi.

La trama è ispirata a un racconto dell’americano Kay Boyle: Maiden Maiden. È la storia di un rapporto incestuoso tra lo zio cinquantenne e la giovane nipote Kate, agiati proprietari di un’azienda in Scozia, che si trovano a fare i conti con una terza figura: la guida alpina Johann. Fin dal primo incontro tra il valligiano e i due cittadini si intuisce che l’innocenza della guida, come un grimaldello, è destinata a scardinare il fragile equilibrio della coppia e a scivolare in tragedia. I segni premonitori del dramma si manifestano sempre in pieno giorno, come se Zinnemann rinnovi la fedeltà, anche nel silenzio delle vette, al suo mezzogiorno catartico. I presagi della montagna si palesano in forma di fuoco e ghiaccio: il temporale e il ghiacciaio. Il primo giorno i fulmini sorprendono i protagonisti durante una scalata di allenamento; il giorno seguente lo zio di Kate cade in un crepaccio e resta appeso alla corda di canapa. L’incidente non ha conseguenze, ma la guida, nel tentativo di recuperare la piccozza dello scozzese, s’imbatte in un corpo imprigionato dal ghiaccio.

Quarant’anni prima, alla vigilia delle nozze, un montanaro del villaggio si è avventurato a caccia tra i crepacci ed è scomparso con il suo segreto. È una storia vera? Una leggenda? Non ha molta importanza, il mito esiste. In un racconto diffuso nell’alta Engadina si narra di un corpo conservato dal ghiaccio e di un uomo eternamente giovane nella morte. Il film di Zinnemann, con un colpo di teatro degno del grande maestro, inscena l’incontro ai piedi del ghiacciaio tra la fidanzata del cacciatore, ormai vecchia e curva, e il suo promesso sposo graziato dal tempo. L’atmosfera è sottolineata dallo sgocciolare del ghiaccio in rivoli sporchi e dal mesto corteo dei soccorritori con la barella di fortuna, sotto la nebbia di fine stagione. Anche in questo frangente la guida Johann, pronipote del morto, compassionevole bastone della vecchia montanara, è il mediatore del destino.

L’uomo venuto dal ghiaccio

Spesso gli sventurati alpinisti che spariscono in un buco di ghiaccio tornano in superficie dopo molti anni e non di rado i corpi sono preservati dal gelo. Si dice che i ghiacciai, prima o poi, restituiscano le loro vittime. È successo ai combattenti italiani e austriaci della Guerra Bianca ed è successo anche a Ötzi, l’ormai famoso montanaro morto e congelato sul Similaun 3200 anni prima di Cristo. La mummia è tornata alla luce con i suoi attrezzi e i suoi vestiti il 19 settembre 1991 sulle Alpi Venoste, confermando che i cacciatori del tempo erano capaci di salire a tremila metri e anche di attraversare tratti di ghiacciaio. La mummia del Similaun racconta lo stato evolutivo della società alpina di cinquemila anni fa, con comunità già radicate in fondo alle valli, uomini tecnicamente in grado di sopravvivere all’inverno e donne abituate a crescere i figli tra i rigori del gelo. Le prime comunità consideravano l’animale domestico una semplice riserva di carne, ma grazie ai mutamenti biologici favoriti dal processo di domesticazione, e con l’apprendimento delle tecniche casearie e di filatura, i pastori avevano già acquisito i principi fondamentali dell’allevamento per produrre il latte e la lana. Intanto i cacciatori come Ötzi esploravano i terreni d’alta montagna e si spostavano agevolmente attraverso valichi e crinali, ampliando i territori.

L’uomo del Similaun ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca storico-antropologica. Le informazioni di Ötzi hanno fugato molti pregiudizi sui cosiddetti «uomini primitivi», perché l’uomo dei ghiacci appare inaspettatamente «moderno». Quel piccolo montanaro scomparso sopra i tremila metri è simile a noi, con il suo berretto di pelliccia, i reumatismi, il fumo nero nei polmoni e i denti consumati dallo stress. Inoltre, secondo gli storici del clima, la riapparizione della mummia dimostra senza ombra di dubbio che i ghiacciai delle Alpi orientali non sono mai arretrati come oggi, da almeno cinque millenni a questa parte. Se il ghiaccio si fosse ritirato sotto il livello attuale la mummia sarebbe emersa e l’avremmo persa. Studi ancora più recenti hanno svelato la morte violenta del cacciatore, probabilmente ucciso da un compagno o da un nemico incontrato sul cammino.

In ogni caso la longevità di Ötzi impallidisce di fronte al successivo ritrovamento del 2016, quando i minatori del Klondike, di solito abituati a cercare pepite d’oro, hanno dissotterrato dal permafrost due animali dell’era glaciale perfettamente conservati: un cucciolo di caribù e un cucciolo di lupo mummificati con tanto di pelliccia, strati di pelle e tessuto muscolare. L’esame al radiocarbonio ha indicato un’età di quasi cinquantamila anni, rendendo plausibile che i due animali vivessero nella tundra dello Yukon insieme ad alcune specie estinte tra cui i mammut. È incredibile che nel terzo millennio dopo Cristo, grazie all’eccezionale potere conservativo del ghiaccio, ci si possa confrontare con dei mammiferi del Paleolitico medio, quando sul pianeta viveva ancora l’Uomo di Neanderthal.

Rapimento e restituzione

Nel mito e in letteratura il ghiacciaio dimostra molte proprietà: è capace di seppellire (i campi, le case, gli alpeggi), è capace di inghiottire (gli alpinisti, i cacciatori), è capace di preservare. Ciò che non riesce alle altre forze della montagna, che si manifestano solo in forma distruttiva e devastatrice, può rivelarsi nella natura conservativa e protettiva del ghiaccio, buono per nascondere la carne del selvatico cacciato di frodo in attesa che i guardiacaccia abbassino i binocoli, utile per rifornire le ghiacciaie delle città, provvidenziale nel restituire ai vecchi montanari i corpi intatti dei compagni di gioventù.

L’argomento è trattato dallo scrittore francese Paul Hervieu, che nella raccolta L’Alpe homicide colleziona alcuni tra i più fortunati refrain della montagna ottocentesca: la disgrazia che coglie lo sposo all’indomani del matrimonio, il misterioso cacciatore di camosci, l’idiota del villaggio e l’innocente riabilitato. Nel 1806 la guida alpina Ulric Tagmer scende affranto e solo dalla montagna. Il cliente è precipitato in un crepaccio. In paese si sospetta di Tagmer, che avrebbe ucciso il compagno per rapinarlo. Il sindaco stesso si occupa del processo, privandolo infine del libretto di guida. Ma dopo quarantatré anni il morto rispunta dalla lingua inferiore del ghiacciaio, intatto nella giovinezza, proprio nei pressi dell’umile capanna in cui il Tagmer afflitto ed esiliato sta esaurendo gli ultimi anni di vita.

Tagmer brandì una zappa. Attaccò con vigore i massi facendo sprizzare scintille dintorno. Presto liberò il corpo intero, che era allungato nel ghiaccio come lo si è nella bara. Poi rivolto al sindaco:

– Signor sindaco – gridò, – rovistate voi stesso nelle tasche.

Dominato dall’ascendente di Tagmer, l’altro obbedì. Tutti videro allora le sue dita nodose introdursi con sforzo tra le aperture rigide delle vesti gelate, ed estrarre successivamente un mazzo di chiavi, un pugno di monete, una borsa piena d’oro e un orologio con le iniziali R. S., che stabilivano incontestabilmente l’identità della salma.

Allora Tagmer si raddrizzò in tutta la sua statura momentaneamente riconquistata, e apostrofando il sindaco, che s’incurvò sotto il peso delle sue calme parole, disse:

– Credete ancora, voi, ch’io possa essere un ladro? Avreste coraggio, voi, di sostenerlo ancora davanti a tutta questa gente?

Le forze abbandonarono il suo interlocutore, che fu rapidamente sorretto dai vicini. Poi quest’ultimo, vacillando, si voltò verso quella folla, che interpretava vagamente le peripezie di così gran scena:

– Povero Ulric Tagmer! – disse. – Ahimè! amici miei, pensavo di essere giunto alla fine della mia carriera senza meritar rimprovero. Ieri ero pronto a morire con la coscienza pura, libera da rimorsi. Oggi ho perduto il riposo dei miei ultimi anni...

Sotto ghiaccio

La costruzione del ghiaccio è un processo lungo e complicato. I fiocchi di neve scendono dal cielo, si ammucchiano sulla terra gelata e cominciano a cambiare struttura. Ci vuole tempo, il tempo necessario. Se la temperatura è abbastanza alta i fiocchi fondono, oppure evaporano senza fondere, comunque si trasformano in qualcos’altro. Lentamente gli impalpabili fiocchi di neve diventano i resistenti cristalli di ghiaccio compatto che costituiscono il cemento dei ghiacciai.

Dall’antichità l’uomo conosce l’impareggiabile efficacia del ghiaccio nel conservare gli alimenti senza ricorrere a complicati rimedi come l’essiccazione, l’affumicatura, la messa in salamoia, sotto sale o sotto aceto, oppure l’acqua di calce per le uova. Le descrizioni delle imprese di Alessandro Magno rivelano i metodi di conservazione in profonde buche coperte d’arbusti e terriccio, che si riempivano di neve e ghiaccio dopo una corsa contro il sole. Gli schiavi raccoglievano enormi blocchi di ghiaccio sui nevai di montagna e li trasportavano avvolti in paglia e fieno dalle alture della Macedonia alle pianure dell’Asia Minore, eclissandoli nelle buche ombrose. Per i macedoni, come per tutti i popoli successivi, il problema era la distanza dei depositi di ghiaccio naturale dai luoghi abitati, dunque bisognava accorciare al massimo i tempi del prelievo e accelerare il trasporto per rallentare la fusione.

Con l’industrializzazione il ghiaccio diventa un prodotto necessario. Migliorano le tecniche di prelievo e si raffinano i metodi di stoccaggio. Spesso il prodotto è indirizzato verso lontane destinazioni. Secondo il divulgatore dell’epoca Alessio Clerc, autore di Fisica popolare, nella Francia di fine Ottocento «il consumo del ghiaccio non è ancora considerevole, ma negli Stati Uniti raggiunge proporzioni enormi. Raccolto d’inverno sugli immensi laghi del Canadà, il ghiaccio è tagliato come la pietra mediante seghe e trasportato alle Antille, alle Indie e persino in Australia». Il businessman americano Frederic Tudor, detto il Re del ghiaccio, aveva fatto fortuna fin dal 1833 trasportando i blocchi gelati dal Massachusetts a Calcutta via mare, con un viaggio di circa quattro mesi. Nel 1855 pare avesse superato i duecentomila dollari di utile con quello strano commercio, che da brigantello del business l’aveva fatto diventare Re.

Anche nelle isole del Mediterraneo esisteva il mestiere stagionale del venditore di neve. Per esempio nell’isola di Ischia, dove il nevaiolo era specializzato nella raccolta e nella vendita della neve che cadeva nei boschi della Falanga ai piedi del Monte Epomeo. Dopo la nevicata, quando l’inverno era prodigo di gelo, il banditore suonava una conchiglia di mare per convocare gli uomini. I nevaioli arrivavano con il costume tradizionale – brache di velluto verde bottiglia, calze lunghe di bambagia, scarpe pesanti, giustacuore di panno marrone e berretto di lana –, imbracciavano pale, cofani e bastoni, accendevano un falò nel bosco, raccoglievano la neve e la pigiavano con i bastoni nelle fosse ricoprendola con foglie di castagno, rami secchi e terra. Le fosse erano le neviere, il cui contenuto resisteva fino all’estate quando la neve era caricata sui muli nei cofani di giunco per essere distribuita. «A neve, ‘neve, ‘u nevaiuolo!», gridavano i banditori che si affacciavano nei villaggi.

Quando si tenta la fabbricazione del ghiaccio nascono le ghiacciaie. Se la neviera era il contenitore parzialmente interrato in cui si stipava e si compattava la neve per la conservazione nei mesi caldi, la ghiacciaia è una costruzione in cui si stocca direttamente il ghiaccio trasportato dai ghiacciai, oppure cavato in inverno da piccole vasche gelate, alimentate da acqua di torrente. Una pubblicità del 1914 reclamizza il prodotto del Rio Ollasio in Val Sangone: «Ghiaccio naturale di Giaveno presso Sestero Fortunato. Grande quantità sempre disponibile. Spedizioni sia dalla Stazione di Avigliana che dal tram di Giaveno. Spedizioni anche a vagoni. Prezzi convenienti. Comprate».

La Nuova Enciclopedia Italiana del 1880 specifica che

la prima cura da aversi nella costruzione di una ghiacciaia è di evitare che il calore esterno vi penetri: siccome però non si conoscono sostanze che isolino dal calore perfettamente o non abbiano per esso conducibilità alcuna, così riesce impossibile conservar tutto il ghiaccio che si raccoglie, se ne perde sempre una parte, la cui liquefazione coopera alla conservazione del rimanente. L’ingresso è sempre al norte (nord), della forma di un piccolo corridoio con una porta al principio e al fine. Comunemente la ghiacciaia si costruisce in un boschetto, dovunque circondata da alberi che la difendano dai raggi del sole. Nel collocare il ghiaccio bisogna rivestire il fondo e le pareti di un denso strato di paglia, coll’avvertenza che il ghiaccio sia ben stivato e compresso in modo da formare una massa il più possibile compatta, avvertendo di scegliere per tale operazione una bella giornata fredda ed asciutta.

Presto si arriva a progettare la ghiacciaia ideale: una sezione tronco-conica con volta a cupola. Torino è una delle città più dotate di ghiacciaie monumentali a cupola, specie nella zona dei mercati di Porta Palazzo. Generalmente il ghiaccio arriva dalla media Valle di Susa, in particolare dal ghiacciaio Galambra. Dal villaggio di Salbertrand i cavatori salgono a tremila metri armati di seghe, mazze e cunei per tagliare la massa e confezionarla per la spedizione. L’attuale passo del Vallonetto è il Pas dla giasa: il Passo del ghiaccio. Un’altra cava si trova al ghiacciaio di Bard, non lontano dalla strada del Moncenisio.

Alcune fonti sostengono che il pregiato ghiaccio di Bard, adeguatamente impacchettato e protetto, fosse destinato alla città di Massaua sulla riva del Mar Rosso. Lo afferma Paolo Gastaldi sulla rivista del Club Alpino Italiano del 1893:

Verso le 4 antimeridiane, presa una buona tazza di cioccolatte, lasciammo la strada del Moncenisio ed in breve fummo alle grangie dette Fondo di Bard. Di qui seguimmo per breve tratto un sentiero che ben presto smarrimmo, essendoci noi tenuti troppo alla nostra sinistra, per modo che ci innalzammo proprio nel centro della parete che sostiene il ghiacciaio, cercando invano colla lanterna il famoso sentiero detto del ghiaccio, così chiamato perché nel 1884 serviva per trasportare giù del ghiaccio che si mandava a Massaua.

Storia di un blocco

Gli uomini sono partiti dalla valle a mezzanotte e sono saliti cinque ore a piedi nel buio, con la slitta sulle spalle. Duemila metri di dislivello. Sono arrivati sul ghiacciaio alle prime luci, quando l’alba taglia l’orizzonte e il gelo tocca le ossa. Gli operai hanno mangiato un boccone, hanno bevuto un sorso di vino e si sono messi subito al lavoro. Individuato l’obiettivo, bisogna indebolire a colpi di scure la base del ghiaccio, poi con i cunei di ferro si può cominciare a spaccare. Si apre una fessura azzurrognola, una seconda fenditura, una terza, finché il ghiaccio scricchiola e il parallelepipedo chiaro si stacca con un gemito. Allora due uomini imbracciano la sega da due metri per aggiustare le dimensioni del blocco, i rifinitori si mangiano gli scarti e infine si prepara il «pacco» per il trasporto verso valle.

Scendere è più duro che salire, i trasportatori del Galambra l’hanno imparato sulla loro pelle. In salita c’è la gravità contraria, si suda e si bestemmia, però in discesa va molto peggio. La discesa è bestiale perché bisogna frenare come dei disperati e la slitta è stracarica di ghiaccio. Almeno tre quintali. Le funi gemono e qualche volta si spezzano come i tendini dei frenatori. La slitta e le corde di canapa sono la soluzione per calare un pezzo di ghiacciaio in piena estate, ma per precipitare in tre ore dai 3060 metri del Galambra ai mille metri di Salbertrand serve un santo in Paradiso:

La discesa era un’impresa impossibile – conferma lo storico locale Oreste Rey – se si pensa al forte pendio, alle tonnellate di pietrame che si mettevano in movimento e alla forza necessaria per tenere a freno una slitta con un carico di 300 kg di ghiaccio. L’unico mezzo di aiuto era una fune di ritenuta che permetteva di frenare e assicurare la slitta a un anello con la lama infissa nella roccia.

Solo quando si arriva alla pietraia di ciottoli il pendio si addolcisce, le corde si allentano e la slitta perde velocità; più in basso, dove comincia l’erba dei pascoli, si entra in una specie di toboga su cui corrono anche i tronchi degli alberi; poi l’erba si perde nel bosco, e infine ricominciano i sassi e la mulattiera è troppo lenta per la pesante slitta di legno, e allora bisogna fermarsi, sollevare il carico e passare sotto i pattini la cotenna di lardo, una specie di sciolina; nell’ultimo tratto di strada si appoggia il blocco sul carro e si attacca il carro al mulo, rifiatando.

A metà mattina la Valle di Susa è inondata di sole. Sullo Chaberton la luce accende la roccia e alla stazione ferroviaria di Salbertrand fa caldo, un caldo estivo, e il blocco di ghiaccio ha già perso il quindici per cento della massa gelata. Bisogna fare molto in fretta se non si vuole sprecare il lavoro. Si alza il blocco a braccia, si svuota il carro, si pesa il ghiaccio e si carica il prodotto sul treno, all’ombra e al fresco, dentro il contenitore termico. La corsa finisce quando la porta del vagone si chiude in faccia alle montagne. Adesso il ghiacciaio è di colpo lontano. Sono molto più vicine Modane e Torino, di là e di qua della galleria del Fréjus.

Prima di mezzogiorno il gelido carico parte per la pianura. Il viaggio è più breve di quello precedente, o più lungo, dipende dalla destinazione finale, comunque quando esce dal treno in una nuvola di vapore il blocco di ghiaccio deve affrontare il calore delle terre basse. Bisogna subito trovargli un posto freddo e riparato prima di pensare alla vendita. Gli serve una ghiacciaia, al più presto. Solo quando il blocco è al sicuro l’operazione rallenta, perché adesso il ghiaccio può aspettare. Si apre il commercio, arrivano le prime offerte. Si fanno avanti i macellai, i sorbettieri e i gelatieri, le rivendite blasonate, qualche ricco di città, i magazzinieri dei mercati, anche una struttura ospedaliera. Presto il prezzo è pattuito e ognuno ha la sua parte di freddo. Il pezzo di ghiacciaio precipitato a valle da tremila metri, diviso in frammenti, confezionato come un tesoro, può finire nel gelato di un bambino fortunato o nel retrobottega di una pescheria, accanto a molluschi e pesci morti. Dipende dal caso. Che sia mangiato o che dia da mangiare il ghiaccio è comunque destinato a fondere in fretta, perché la materia vive della propria massa, e un pezzo solo non ha futuro. Chi è staccato è perso.

I gelatieri delle Dolomiti

In una ricerca sociolinguistica per la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, Laura Campanale si chiede perché i montanari del Cadore e della Valle di Zoldo siano diventati gelatieri e perché siano emigrati verso i paesi di lingua tedesca.

Non è ancora ben chiaro che cosa produsse il «boom» del gelato a partire dalla fine dell’Ottocento. I primi a vendere gelato con i famosi carrettini nelle principali città della Germania (Colonia, Darmstadt, Hannover) e dell’Impero austro-ungarico (Vienna, Brno, Belgrado) furono dei cadorini. Ai cadorini seguirono gli zoldani, i quali distribuivano i loro prodotti soprattutto nelle metropoli del Lombardo-Veneto e dell’Austria. Dalle informazioni bibliografiche sembra che il fenomeno si sia diffuso a macchia d’olio proprio alla fine dell’Ottocento, in concomitanza con il periodo di grande emigrazione dal Veneto verso le Americhe.

Le fonti bibliografiche confermano che i viaggi dei gelatieri s’inseriscono nella tradizione d’emigrazione ambulante delle Alpi meridionali: dal commercio di caldarroste, mandorle, dolci, frutti canditi e zalet, i biscotti gialli, si passa alla produzione e vendita del gelato spostando la stagione dall’inverno all’estate. Se lo stagionale di un tempo partiva da casa con i primi freddi e tornava in primavera, il gelatiere fa il contrario. Anche secondo lo studioso delle Dolomiti Luciano Marisaldi

la storia del gelato incrocia la storia dell’emigrazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento e si lega alla valle di Zoldo, una laterale della valle del Piave. In Zoldo, come in gran parte della montagna veneta, l’agricoltura era povera, le miniere di ferro producevano metallo buono ma in quantità troppo modesta per uno sfruttamento industriale, i boschi si degradavano per l’uso eccessivo di legname e di carbone di legna. Molti degli emigranti scelsero di andare a svolgere il mestiere stagionale di gelatai nelle città della pianura veneta, poi nell’Italia settentrionale, infine in Germania e Austria.

Fino alla prima guerra mondiale la fama dei gelati italiani in terra straniera non fa che aumentare. Probabilmente i tedeschi pensano che i carrettini colorati che fanno felici i loro bambini vengano dal caldo, e invece gli ambulanti sono gente di montagna. Il ghiaccio viene sempre dal freddo. La stagione dei pasticceri gelatieri delle Dolomiti comincia ad aprile e finisce a settembre, come quella di certi uccelli migratori. Quando le giornate si accorciano anche i gelatieri tornano a sud. Negli anni Trenta le gelaterie venete si contano a decine non solo a Vienna e in Germania, ma anche in Francia, Cecoslovacchia e Polonia. E non sono più soltanto carretti di ambulanti: gli specialisti della crema e dei frutti di bosco si sono attrezzati e hanno aperto delle rivendite nelle città del nord.

Per fare il gelato si usano strani aggeggi meccanici che girano a forza di braccia. La refrigerazione del prodotto è fondata su una reazione chimica: aggiungendo sale al ghiaccio si produce un abbassamento della temperatura che raffredda il preparato fino al grado desiderato. La miscela è spalmata nella parte interna del contenitore attraverso la rotazione veloce della macchina, la pasta del gelato si rapprende e il composto incamera aria fino a raggiungere la giusta consistenza. In questo modo, rotazione su rotazione, anno dopo anno, viaggio dopo viaggio, ogni primavera i villaggi del Cadore e della Valle di Zoldo salutano gli uomini del freddo per ritrovarli in autunno, quando anche il goloso popolo delle città non vuole più saperne di gelati.