II.
Il Paradiso perduto
C’è un posto in alta Valle del Lys, ai piedi del Monte Rosa, in cui i montanari walser collocarono la leggenda della città di Félik, un balcone di delizie e piaceri preservato dall’invidia degli uomini e dalle insidie dei ghiacciai. A Félik crescevano le piante da frutto a duemila metri e i bambini giocavano con i dischi di formaggio. D’estate faceva caldo e d’inverno non si pativa il freddo, il cibo non mancava e la gente viveva bene.
Circa vent’anni fa ho immaginato la posizione della mitica città e ci sono andato in una giornata estiva rigata da veli di calore, in condizioni climatiche assai simili a quelle che l’antica leggenda e certe credenze contemporanee attribuiscono al tardo Medioevo. Da Staffal mi sono inoltrato sul sentiero di fondovalle, verso il ghiacciaio. Quando ho raggiunto il punto dell’ipotetico altipiano ho lasciato il fondo e ho risalito il fianco arido della morena, sulla destra orografica del Lys, finché ho trovato il balcone. Era il posto logico in cui costruire la città, direi quello giusto, l’unico posto, ma non c’era nessuna traccia di insediamenti umani, né primordiali né semplicemente vecchi. C’era soltanto una desolata distesa di massi ed erba rinsecchita, che oggi forse potrebbe ospitare un magro pascolo per le capre, e neanche tanto fortunate, ma di sicuro alle vacche scarseggerebbe il nutrimento. La mia città di Félik era solo un cimitero ciottoloso; mancavano i consueti mucchi di sassi lasciati dallo spietramento ed erano crollati anche gli ometti di pietra che di solito indicano il sentiero. Non si vedevano ruderi di muri, case diroccate, stalle, crotin o altro, e da nessuna roccia si alzava lo scheletro di una croce o di un altro segno di pietà cristiana. Ho capito che sarei tornato a mani vuote e non ho scattato neanche una fotografia: se mai c’era stato un avamposto abitato sulla terrazza del Félik, il tempo della montagna ne aveva cancellato completamente le tracce.
La mia esplorazione è stata deludente, eppure mi ha insegnato che se effettivamente i coloni walser abitarono terrazzamenti, poggi e conche a duemila metri e oltre, prima che l’avanzata glaciale li scacciasse verso valle, di quei luoghi non abbiamo testimonianze storiche. Le tante città felici e le tante valli perdute che colmarono la nostalgia del popolo migrante andrebbero cercate in luoghi irreali e simbolici, sempre un passo oltre le montagne note, dietro lo spartiacque tra la realtà documentata e la malinconia del bel tempo andato.
Profumo d’infanzia
Per qualcuno è un profumo d’infanzia, la memoria del passato; per altri è il ricordo delle favole; per altri ancora è il tempo dell’innocenza, il primo bacio. Per gli indiani d’America era la terra dei padri prima dell’uomo bianco, per i bambini walser fu la valle incantata dietro il Monte Rosa, per i viaggiatori romantici assomigliava ai tramonti dorati sulle rovine del Bel Paese o all’alba di ghiaccio sulla Mer de Glace. Per tutti è stato un luogo magico e irraggiungibile in cui la gente viveva in pace, il vino non faceva male e la primavera non finiva mai. Gli adulti di ogni epoca hanno desiderato e rimpianto il loro tempo innocente, e molti scrittori l’hanno descritto. A partire dal racconto sumerico della Terra di Dilmun dove «il leone non uccideva, il lupo non sbranava l’agnello, il cane non soggiogava le capre e il porco non mangiava l’orzo» e dalla pagina biblica dell’Eden in cui «il Signore Dio piantò un giardino e vi collocò l’uomo che aveva plasmato», le credenze e le speranze umane grondano riferimenti ai regni perduti.
Il mito tibetano di Shambala, meglio conosciuta in Occidente come Shangri-La, narra di un luogo circondato da un anello di montagne innevate che proteggono il regno da chi non è abbastanza preparato all’esperienza ascetica. Il regno gode di immense ricchezze in oro, argento e altri preziosi, e meraviglie della natura come animali esotici e piante tropicali. I suoi abitanti possono raggiungere centinaia di anni d’età grazie allo stato di meditazione e pace. Nel famoso romanzo di James Hilton Orizzonte Perduto Shangri-La è una valle di delizie e privilegi, anche se le severe montagne che la circondano costringono chi ci vive all’isolamento. Nella trasposizione letteraria di Hilton si tratta di
un paradiso meravigliosamente fertile in cui crescono a profusione le messi più disparate, le une accanto alle altre, senza lasciare infruttuoso un solo palmo di terra. L’area coltivata si stende per una ventina di chilometri, con una larghezza che varia dai due agli otto chilometri. Questa striscia di terra, benché stretta, ha la fortuna di ricevere il sole nelle ore più calde. Anche all’ombra infatti l’aria è tiepida benché i ruscelli che irrigano il terreno siano gelidi e d’origine nevosa.
Se la neve rappresenta la solitudine e l’inverno dell’anima, il paradiso è quasi sempre un posto protetto dal gelo. Dove arriva il sole la vita sorride alle creature. Nel mito orientale di Shangri-La e anche in molte leggende di ambientazione alpina troviamo l’utopia e la nostalgia dell’isola felice protetta dalle montagne, che in un’epoca di grazia fu giardino e terra generosa, città fiorente e luogo di pace, quando i ghiacci erano confinati sulle cime. Nell’immaginario popolare la valle delle delizie è cancellata proprio da quei ghiacci, a causa della cupidigia e dell’egoismo umano.
Non si può datare un mito
Per almeno mezzo secolo gli studiosi delle Alpi hanno collocato storicamente il mito della valle perduta nell’optimum climatico di fine Medioevo, soprattutto dopo la famosa ricerca dello storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie Histoire du climat depuis l’an mil, pubblicata a Parigi nel 1967. Basandosi su frammenti di documenti, registri dei raccolti, cronache delle vendemmie, analisi dei pollini e dei tronchi fossili degli alberi, Le Roy Ladurie conclude, con la prudenza che lo contraddistingue, che le stagioni dopo l’anno Mille avrebbero beneficiato di un clima mite e benigno fin verso la metà del tredicesimo secolo:
I dati di Aletsch e di Grindelwald forniscono alcune indicazioni in proposito; il ritiro glaciale dell’alto Medioevo sembra essere stato nel complesso un po’ più accentuato di quello del ventesimo secolo, almeno a giudicare da come quest’ultimo si è manifestato finora [anni Sessanta del Novecento]. Gli alberi ‘preglaciali’, infine distrutti dall’offensiva del 1200, crescevano in luoghi in cui oggi la foresta non ha ancora avuto il tempo o le condizioni necessarie per attecchire di nuovo.
La teoria del caldo Medioevo è stata correlata spesso alla vicenda del popolo walser, che dal Vallese passò nelle valli meridionali del Monte Rosa. Quando i coloni walser scavalcarono gli alti colli per scendere in Val Formazza, Valle Anzasca, Valsesia e Valle del Lys, la magrezza dei ghiacciai avrebbe favorito gli spostamenti a piedi. Sicuramente si transitava, con o senza gli animali, su alti valichi come il Col Collon, il Col du Mont Cervin (Teodulo) e il Passo del Monte Moro, e verosimilmente si abitavano terre alte come Varda e Verra sotto i ghiacciai di Rollin e Verra, e l’alpe Félik nel bacino glaciale del Lys. Sempre alla ricerca di nuove terre, i Walser si adattarono alle altezze elaborando un modello sociale e abitativo che portò in quota la tecnica costruttiva dell’incastro dei tronchi di larice e la consuetudine giuridica dell’affitto ereditario, antidoto alla precarietà degli insediamenti e delle colture. Fu come un fiorire d’ingegni, l’affermazione di una civiltà baciata dalla luce, che molti studi collegano al clima mite del tardo Medioevo. Secondo Le Roy Ladurie l’epoca d’oro delle Alpi si sarebbe incrinata tra il 1250 e il 1350 con un breve avanzamento dei ghiacciai, per finire bruscamente nella seconda metà del 1500 con la Piccola Età Glaciale, che in breve cambiò totalmente il quadro.
La recente ricerca «Archlim», promossa dalla Società Meteorologica Italiana in collaborazione con esperti archivisti e paleografi e con la supervisione scientifica del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, ha ridimensionato le evidenze scientifiche e forse anche il mito del caldo Medioevo. Analizzando 921 segnalazioni di episodi meteo-climatici tra l’800 e il 1400, soprattutto nell’Italia nord-occidentale, i ricercatori hanno stabilito che le segnalazioni di clima freddo prevalgono nettamente sulle altre, con ripetuti eccessi di pioggia e neve.
Tra i luoghi comuni che hanno alimentato l’ipotesi di un Medioevo caldo – notano Luca Mercalli e Daniele Cat Berro, tra gli autori dello studio – vi è quello relativo alla transitabilità dei valichi alpini, secondo cui specialmente intorno all’anno Mille l’assenza di ghiacciai dovuta ad un clima particolarmente mite avrebbe favorito i traffici... Ma dalle cronache di viaggio reperite emergono diverse testimonianze di transiti attraverso i valichi anche in inverno e in situazioni ambientali difficili e pericolose... Si passava perché si doveva, e non perché le condizioni della viabilità fossero particolarmente favorevoli. Evidentemente la necessità di mantenere i contatti tra la Valpadana e l’Europa centrale faceva sì che si accettasse di viaggiare anche in condizioni ambientali che oggi considereremmo quasi impossibili, perciò riteniamo che il fatto che mercanti e pellegrini riuscissero a valicare le Alpi non possa costituire la prova di un Medioevo caldo.
In sostanza, non abbiamo prove certe che i miti delle età dorate e dei paradisi perduti si riferiscano al tardo Medioevo, o piuttosto all’Optimum Termico Olocenico, circa 4000 anni prima della Medieval climate anomaly, o più probabilmente a un’epoca indefinita e leggendaria, una specie di tempo senza tempo, l’Eden originario, nel quale s’immagina che gli uomini, la natura e il clima fossero in pace con Dio.
Anche la leggenda della verdeggiante Groenlandia – Grønland: terra verde – manca di conferme scientifiche. Le saghe vichinghe narrano che Erik il Rosso vi sbarcò nel 982 d.C. in fuga dalla sua terra, la Norvegia, in seguito ad alcuni fatti di sangue. Dopo una turbolenta sosta in Islanda, di nuovo costretto a fuggire, il Rosso si avventurò in acque sconosciute e raggiunse la costa sud-occidentale della Groenlandia, la regione delle estati brevi e degli infiniti inverni. Tuttavia Erik e i suoi uomini apprezzarono la ricchezza di pesce, pascoli e animali commestibili della Kalaallit Nunaat, che in lingua inuit significa «Terra degli uomini». Decisero di fermarsi lassù, ma per migliorare le condizioni di vita avevano bisogno di ingrandire l’insediamento. Dunque dopo tre anni il Rosso tornò a casa con una strategia di marketing: se voleva invogliare altri uomini e donne a lasciare la loro terra doveva decantare le bellezze del nuovo mondo, e prima di tutto gli serviva un nome suadente. Sì, «terra verde» poteva andare. L’operazione funzionò e quattordici navi raggiunsero la Groenlandia per popolare la colonia. Forse i vichinghi trovarono i prati, se era estate, mentre a nord videro biancheggiare i ghiacciai come ai giorni nostri. Sicuramente la copertura glaciale esisteva anche all’epoca, perché è fisicamente impossibile che la Groenlandia abbia accumulato in mille anni migliaia di metri di ghiaccio di spessore, trasformandosi da prateria a distesa artica.
I miti e le leggende non vanno presi alla lettera, ma non per questo sono da buttar via. Al contrario. A parte il fascino letterario delle narrazioni, a parte la curiosità e, non di rado, il piacere di fantasticare insieme a chi vegliò nelle stalle e seppe trasformare la paura in racconto, oggi i miti del passato ci restituiscono il rapporto dell’umanità con gli eventi inspiegabili, che spesso sconfina nella sfera del magico e del soprannaturale. Di fronte all’enigma dei ghiacciai il mito sorregge la cultura popolare nel non facile tentativo di esorcizzare il mistero dei seracchi e delle valanghe e scacciare il terrore del «drago» attraverso l’invenzione di un capro espiatorio e di un castigo divino.
L’immaginario alpino
Le leggende delle Alpi sono ricche di «racconti del ghiaccio» che seguono lo stesso canone narrativo su quasi tutto l’arco alpino occidentale, in particolare tra l’Oberland Bernese, l’alta Savoia, la Valle d’Aosta e il Vallese, soprattutto sul Monte Rosa, sconfinando talvolta sulle Alpi centrali e orientali. Il giardino è inevitabilmente devastato dal gelo, anche se le versioni più lontane dal centro di elaborazione inseriscono delle mitigazioni sullo schema classico, come se la pietà crescesse con la distanza. Per esempio, nella versione del Bernina un uomo è condannato e l’altro si salva, perché la cattiveria non alberga in egual misura in tutti i montanari.
La leggenda del castigo di ghiaccio appartiene alle valli di tradizione cattolica e controriformista, dove la dottrina religiosa si sovrappone alla credenza pagana. Il ghiacciaio che punisce la trasgressione del montanaro o di un altro essere malefico sarebbe correlabile al castigo biblico del diluvio se non mostrasse un esito più irreparabile. Infatti l’arca di Noè consente alla vita umana e animale di salvarsi, mentre gli effetti della distruzione alpestre sono permanenti e i luoghi colpiti dalla vendetta divina scompaiono per sempre. All’origine del racconto c’è sempre il mito dell’Eden, o del Paradiso perduto, l’eterna primavera che ogni generazione immagina e rimpiange nel ricordo (sublimato) di fantastiche epoche passate.
Le montagne di volta in volta invalicabili o aperte per miracolo davanti agli eletti – nota Serge Bertino –, sembrano uno dei luoghi ideali, con le immensità oceaniche, per nascondere queste oasi di felicità in cui l’uomo sogna di adagiarsi per vivere finalmente i suoi sogni. Ed ecco che allora, qua e là, appaiono le «valli felici» dove il clima dolcissimo contrasta con quello rude delle cime circonvicine, dove gli abitanti hanno tutto senza fatica, e dove si può vivere nella più completa libertà. Ma sembrano miraggi: gli uomini che partono alla loro ricerca non riescono a ritornare per raccontare...
Il racconto prende forza man mano che ci si avvicina al centro di elaborazione e diffusione del mito: il massiccio del Monte Rosa. Lo dice il nome stesso, Rosa, che vuol dire «ghiaccio, ghiacciaio» e viene dal gallo-romano Roése (der Gletscher per i vallesani), anche se alcuni narratori romantici lo vorrebbero ispirato a quei tramonti che, specularmente alle guglie dolomitiche, tingono la neve di rosa. Ma nella leggenda del Rosa non c’è la pietas dei Monti Pallidi. La storia della città di Félik non lascia speranze.
Una sera d’autunno, al cader della notte, un povero vecchio con un bastone in mano arrivò alla città e chiese da mangiare e un po’ di fieno o di paglia per passarvi la notte. Lo misero spietatamente alla porta, dopo averlo preso in giro e maltrattato. Il mendicante attraversò la città e si diresse verso il colle (il Félikjoch), ripetendo queste parole: «Stasera nevicherà, domani nevicherà, dopodomani nevicherà e la città maledetta non si salverà più!».
«Vattene!», gli gridava la gente. «Ritirati uccello del malaugurio! Profeta sinistro! Che la tua magra carcassa porti via la sua l’ombra dalla nostra città!».
Il poveretto passò il colle e la sera stessa cominciò a cadere neve rossa come il sangue. Eppure gli abitanti passarono la notte nei piaceri. Intanto continuava a nevicare e l’indomani nessuno poté uscire di casa. Nei giorni seguenti la neve scese ostinatamente seppellendo per sempre la città maledetta sotto il suo lenzuolo e formando quello che oggi si chiama il ghiacciaio del Félik...
Il mito ritorna nella leggenda del Cervino rielaborata con qualche licenza narrativa da Mary Tibaldi Chiesa, che ha attinto alle ricerche di Giuseppe Corona e Guido Rey:
Nei tempi dei tempi l’immensa piramide di rocce di nevi e di ghiacci non esisteva. Allora i monti non erano irti di punte e solcati da crepacci, ma formavano una grande giogaia uniforme, che abbracciava a semicerchio il fondo della valle, la conca prativa che ora si chiama Breuil. Un’epoca beata per le valli d’Aosta! Esse erano sotto la protezione di un gigante, chiamato Gargantua, genio benefico di quei luoghi. Le valli godevano di un clima mitissimo, così che si potevano tenere gli armenti agli alti pascoli, a circa duemila metri d’altezza, fin quasi a Natale. Immense praterie fiorite si stendevano sulle pendici dei monti, i pastori vivevano nella più felice abbondanza. Il latte era in sì gran copia da formare ruscelletti, nei quali gli agnelli si dissetavano. I ragazzi giocavano ai birilli con pallottole di burro, ai dischi con forme di formaggio. Tutti andavano d’amore e d’accordo; il male e l’invidia erano sconosciuti...
La leggenda presenta numerose varianti. Questa è la più diffusa nel Vallese:
Nell’antichità Zermatt e i suoi dintorni avevano un aspetto completamente diverso. Nella valle non spirava l’aria gelida dei ghiacciai e i frutti del Sud maturavano in quantità. Il villaggio di Zmutt sonnecchiava all’ombra degli alberi da frutto, soprattutto noci e castagni. In fondo alla valle si trovava il villaggio di Tiefenmatten, dove oggi si estende il ghiacciaio. Attraverso la valle di Zmutt un viottolo lastricato conduceva a Evolène e a Sitten scavalcando il Col d’Hérens. Gli abitanti di Zermatt vi si recavano spesso per la messa... Anche la valle del Gorner e la regione che circonda il Monte Rosa erano ricoperte da fitte foreste. Camosci e stambecchi le abitavano. C’era una strada che dal Teodulo portava a Findeln, e a Findeln maturava l’uva. Non è molto tempo che le viti sono state sradicate.
Ovunque l’idillio finisce quando i montanari infrangono la legge:
Sul colle (del Teodulo) sorgeva una popolosa e felice città. Infatti talvolta ancora il ghiacciaio, sia dal versante italiano che da quello svizzero, vomita avanzi di baite antichissime, pezzi di mangiatoie, catene per le mucche, travi di legno bucate cui si attaccano le bestie nelle stalle, arnesi pastorizi, frammenti di culle, coltelli, ferri di cavallo. Come mai scomparve la florida città? Ecco come fu.
Voi sapete certamente la storia dell’Ebreo errante: egli percosse Gesù, che era caduto sfinito sotto il peso della croce; Gesù allora lo maledisse e lo condannò a andare errando senza posa per tutta l’eternità. Coloro che lo incontrano si affrettano a schivarlo con orrore.
Ora avvenne che l’Ebreo errante capitò alla città sul colle eccelso (il Teodulo): i buoni montanari lo accolsero senza diffidenza e gli diedero ospitalità, non sapendo che, con l’opporsi così alla volontà di Dio, si esponevano alla sua terribile vendetta. Infatti, dopo mille anni, l’Ebreo ritornò per la seconda volta sul colle. Avvicinandosi a quei luoghi, un tempo ameni e deliziosi, egli sentì il cuore battere forte nel petto. Una fitta nebbia si levò dinanzi a lui, togliendogli la vista del paesaggio, un brivido freddo lo raggelò. A un tratto un vento furibondo spazzò l’orizzonte e l’Ebreo contemplò inorridito uno spettacolo di desolazione.