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Paradisi capovolti
Luca Mercalli è spesso definito «un catastrofista», anche se non fa altro che fornire e commentare dati ampiamente verificati. Alla fine dell’estate del 2019 la rivista «Dislivelli» gli ha chiesto un bilancio climatico alpino degli ultimi dieci anni (2009-19) e lui come sempre ha risposto con i dati, tutti negativi. Per esempio – nota Mercalli – la concentrazione di CO2 nell’aria, rilevata ai 3488 metri di Plateau Rosa e analizzata da RSE (Ricerca sul Sistema Energetico) e Università di Torino, è aumentata di circa 23 parti per milione sfiorando ora le 415 parti, valore massimo da tre milioni di anni. Le temperature medie sono salite di mezzo grado Celsius rispetto al già caldo decennio precedente (1999-2008) e si sono registrati sette dei dieci anni più caldi degli ultimi due secoli (in ordine decrescente di temperatura Mercalli elenca il 2015, 2018, 2017, 2011, 2014, 2009 e 2016). Anche il 2019 si è inserito nella bad parade, con un giugno rovente che ha infranto per la prima volta la soglia dei 40 °C a 800 metri di quota in Valle d’Aosta e ha fatto segnare i nuovi record assoluti di 34,3 °C a Bardonecchia, 39,8 °C a Merano e 35,9 °C a Tarvisio.
Sul fronte delle piogge spiccano le alluvioni dell’1-2 novembre 2010 sulla pedemontana veneta, del 24-25 novembre 2016 sulle Alpi Liguri e le piene causate dalla tempesta Vaia del 28-29 ottobre 2018, quando i venti a duecento chilometri l’ora hanno abbattuto milioni di alberi dall’Adamello alla Carnia. I temporali violentissimi alternati alle lunghe siccità sono una chiara conseguenza del riscaldamento climatico, e nel quadro scomposto rientrano anche le precipitazioni nevose: per esempio l’inverno 2016-17 è stato uno dei più poveri in mezzo secolo sulle Alpi orientali, ma non sono mancati inverni molto innevati come il 2013-14, con 6,5 metri di spessore nevoso a 1800 metri sulle Alpi Giulie. Sotto i 1200 metri di quota ha prevalso la pioggia.
Quanto ai ghiacciai, nell’ultimo decennio lo spessore totale in equivalente d’acqua è sotto di otto metri al ghiacciaio del Basodino nel Canton Ticino, -10,6 m alla Sforzellina presso il Passo Gavia, -12,6 m all’Hintereisferner nelle Ötztaler Alpen, -12,8 m al Ciardoney del Gran Paradiso e -25,4 m al Glacier de Sarenne presso l’Alpe d’Huez. Mercalli nota che le lingue frontali di grandi ghiacciai come il Pré-de-Bar nel Monte Bianco, il Lys sul Monte Rosa e i Forni nel gruppo Ortles-Cevedale «si sono disgregate impedendo la prosecuzione di serie di misura secolari, e la moltiplicazione di laghi effimeri per l’aumento della fusione in quota ha richiesto interventi di mitigazione del rischio di alluvioni a ciel sereno».
Il Catasto dei Ghiacciai Italiani redatto nel 2015 dall’équipe di Claudio Smiraglia e Guglielmina Diolaiuti dell’Università di Milano censisce una perdita del trenta per cento della copertura glaciale rispetto al Catasto del 1962. Se non ridurremo in fretta le emissioni di gas serra, le simulazioni del Politecnico di Zurigo coordinate da Harry Zekollary prevedono la scomparsa di oltre il novanta per cento del ghiaccio alpino entro la fine del secolo.
Microplastiche a tremila metri
Da quando il turismo di massa è salito sulle Alpi la narrazione del marketing usa come un mantra un’immagine di facile presa commerciale: montagna pura, montagna incontaminata. L’aggettivazione è ampiamente smentita dai geografi e dagli antropologi perché ogni paesaggio alpino è storicamente contaminato, lavorato, plasmato e addomesticato dalla mano dell’uomo almeno fino a duemilacinquecento metri di quota, l’altezza massima degli alpeggi, e anche molto più in alto nei posti in cui è atterrata l’industria dello sci. La montagna selvaggia e incontaminata è scomparsa da molto tempo; il termine wilderness è solo una parola suadente che pochi sanno pronunciare.
Oggi l’incontaminato non esiste neanche a quattromila metri, e neanche nei parchi nazionali. La conferma è arrivata a Vienna il 9 aprile 2019, alla conferenza internazionale dell’European Geosciences Union, quando i ricercatori dell’Università Statale di Milano e di Milano-Bicocca hanno comunicato il ritrovamento di settantacinque particelle di microplastica in ogni chilo di sedimento sul ghiacciaio dei Forni nel Parco Nazionale dello Stelvio. La contaminazione di microplastiche è diffusa e documentata in molte regioni della Terra, perfino nella Fossa delle Marianne, ma non erano ancora stati condotti studi specifici nelle aree di alta montagna. Indossando zoccoli di legno e abiti di cotone per escludere l’inquinamento dell’area con le particelle di plastica presenti nell’abbigliamento tecnico, il team ha condotto i campionamenti sul ghiacciaio nell’estate del 2018 e ha trovato poliestere, poliammide, polietilene e polipropilene in quantità «comparabili al grado di contaminazione osservato in sedimenti marini e costieri europei». I ghiacciai non sono puri, non lo sono più.
Estrapolando i dati con le dovute cautele – precisano gli autori della ricerca –, abbiamo stimato che la lingua del ghiacciaio dei Forni potrebbe contenere da 131 a 162 milioni di particelle di plastica. L’origine di queste particelle potrebbe essere sia locale, data ad esempio dal rilascio e/o dall’usura di abbigliamento e attrezzatura degli alpinisti ed escursionisti che frequentano il ghiacciaio, sia diffusa, con particelle trasportate da masse d’aria, in questo caso di difficile localizzazione... È ormai noto che i ghiacciai non sono ambienti incontaminati, ma immagazzinano diversi inquinanti di origine antropica rilasciati nell’atmosfera, e le microplastiche potrebbero fornire un substrato in cui queste sostanze possono accumularsi.
In precedenza i ricercatori del Muse di Trento avevano trovato tracce di pesticidi, erbicidi e farmaci a 2700 metri d’altezza presso il ghiacciaio Presena, sempre nelle Alpi centrali. Evidentemente i ghiacciai non sono immuni dalle conseguenze dell’attività umana. La verginità del ghiaccio d’alta quota è un mito brutalmente sfatato dai fatti. Claudio Smiraglia commenta amaramente che «i nostri ghiacciai sono passati da scrigni a pattumiere».
Glacier Paradise
Forse anche questa mutazione simbolica avrà i suoi effetti sul grande pubblico, tuttavia la promozione turistica delle Alpi insiste con i luoghi comuni di sempre: il ghiaccio perenne, l’ambiente fiabesco e l’aperitivo ghiacciato. Proprio come ai vecchi tempi.
Se si sale da Zermatt al Piccolo Cervino, per esempio, si è accolti con un «benvenuti nel Palazzo di ghiaccio più alto del mondo a 3883 metri sul livello del mare. Un luogo di grande effetto dove sarete trasportati nell’affascinante mondo dei ghiacci perenni come in una fiaba». Il Matterhorn Glacier Paradise è una delle ultime invenzioni del marketing turistico. Si trova quindici metri sotto la superficie del ghiacciaio, tra il Piccolo Cervino e il Breithorn. Si raggiunge con la funivia e l’ascensore senza fare un passo.
L’atmosfera all’interno del Palazzo è tutt’altro che glaciale – assicura la promozione del sito –. L’illuminazione e la musica vi faranno rilassare. Potrete ammirare le opere d’arte in ghiaccio generatesi naturalmente e quelle create ogni anno dagli artisti. Avventuratevi nel crepaccio, esplorate il tunnel di ghiaccio, accomodatevi su uno sui sedili ricoperti di morbida pelliccia e godetevi l’ambiente: tutto risplende e tutto è illuminato. Raccomandati vestiti caldi e scarpe chiuse.
PS: per le foto ricordo avrete a disposizione tanti Photopoint veramente cool.
Altro PS: il raffinato ambiente della Star-Lounge può ospitare aperitivi su richiesta.
Una parola salta all’occhio: paradiso. Il purgatorio degli avi è diventato il paradiso dei nipoti, più precisamente il «Glacier Paradise». Senza mezzi termini la promozione turistica del terzo millennio propone un buco gelido come il «paradiso di ghiaccio più alto del mondo», anche se non è un posto così diverso dalla fredda geenna dei penitenti della Piccola Età Glaciale. Togliendo i sedili di pelliccia, le luci soffuse e l’aperitivo ghiacciato stiamo parlando di un posto fin troppo simile al purgatorio della leggenda in cui le anime dei morti espiavano i peccati. Ma non contano i luoghi, contano i significati. Ribaltando l’immaginario, la prigione di ghiaccio è diventata il suo opposto: una Star-Lounge, il salone delle stelle.
Il peccato contemporaneo
Questa inversione di valori presuppone un rovesciamento estetico e culturale, dall’antico timore del ghiacciaio alla modernissima paura di perdere un bene prezioso. Siamo passati dall’ombra dei ghiacci allo spettro di un mondo senza ghiaccio.
Il Paradiso perduto non è più la città felice che prosperava sulla montagna del mito, preservata dai rigori della neve e dell’inverno; il nostro mondo perduto, la nostra nostalgia, è esattamente quella montagna fatta di neve e inverno. Specularmente la nostra «punizione» non si manifesta con una coperta di gelo, ma nella febbre che fondendo le nevi scaccia l’idea moderna di purezza e ordine estetico: il ghiacciaio.
Per i montanari del sedicesimo e diciassettesimo secolo l’avanzata del ghiaccio fu vista come una maledizione perché il monte incorporava l’immagine del maligno, e la Piccola Età Glaciale fu associata a sentimenti di colpa e rimpianto per un mondo precocemente perduto. Rovesciando i valori morali e lo sguardo estetico, in tre secoli l’inferno è diventato il paradiso attraverso la scoperta dell’alta montagna e la percezione positiva dei ghiacciai, rivalutati dalla rappresentazione artistica, dall’avventura alpinistica e dalla conquista turistica, fino alle forme più arroganti di appropriazione consumistica urbana. E così, al termine di un lungo processo di riconversione simbolica, i cittadini del ventunesimo secolo vivono in modo perturbante la scomparsa dei ghiacciai a ogni latitudine.
La generazione che ha visto fondere il ghiaccio a tremila metri con la rapidità di un sorbetto sotto i raggi del sole e quella che quasi certamente non lo vedrà più, i nativi digitali, percepiscono nella salita dello zero termico e nell’arretramento delle nevi due espressioni del caos post-moderno e post-industriale. Il drago delle paure e delle leggende di molti anni fa, che era stato ingigantito dal gelo nei secoli della Piccola Età Glaciale, si risveglia a guisa di mostro rivoltato nel tempo di internet e Greta Thunberg. L’angoscia contemporanea si annida nel dubbio sempre più diffuso che l’antico patto sia stato tradito dall’uomo industriale, incrinando irreparabilmente l’equilibrio millenario. Il disordine etico e il nichilismo del mercato sono visibilmente rappresentati dallo smagrimento dei ghiacciai, dalla scomparsa dei nevai e dalla fusione del permafrost nelle profondità del suolo.
Quando un paesaggio cambia sotto gli occhi riemerge inevitabilmente la memoria del passato, e così anche il disagio della modernità di fronte alla scomparsa dei ghiacciai deriva in buona parte dal confronto con un paesaggio romantico mai del tutto rimosso, nel ricordo edulcorato di un mondo di abitazioni rustiche e orti terrazzati in media montagna, cascate di ghiaccio e campi innevati in alta quota, oggi sostituiti da cemento, parcheggi e seconde case negli abitati, pietraie e residui glaciali sopra i duemilacinquecento metri. Il senso di colpa e smarrimento si fonda inoltre su percezioni più sfumate ma egualmente fondate di mondi ancora più antichi, che la scienza ha decriptato in due secoli di studi glaciologici. Di fronte ai segni possenti lasciati dai ghiacciai, ben visibili nel modellamento delle valli e negli anfiteatri morenici, cresce il dubbio che la civiltà antropocentrica stia insidiando e vanificando remotissime leggi di natura, distruggendo l’eredità più visibile delle ere geologiche.
Nella storia dell’uomo è la prima volta che sappiamo con certezza di essere corresponsabili di una mutazione climatica e ambientale a livello planetario. Lo dicono i numeri della scienza, non le omelie degli uomini di chiesa. Eppure è stata la religione, più seriamente della politica, a caricarsi le domande scomode quando il riscaldamento globale ha assunto dimensioni bibliche. Il concetto di «peccato ecologico» è emerso sempre più frequentemente nel dibattito teologico e religioso. Nel dicembre 2009, al Vertice sul Clima organizzato a Copenhagen dalle Nazioni Unite, molte voci si sono levate dalle varie «chiese» e comunità del mondo minacciato. Nel Duomo di Arzignano i fedeli cattolici, ortodossi, induisti, sikh e musulmani hanno recitato insieme la Preghiera per il clima invocando il sostegno divino.
A maggio 2015 è arrivata la rivoluzionaria enciclica Laudato si’ di papa Francesco, una lunga preghiera scientificamente documentata che sprona i cittadini alla «cura della casa comune». La lettera ispirata alla lode di Francesco d’Assisi è il più limpido grido di accusa verso il danno ambientale commesso dall’uomo contemporaneo, il più accorato appello alla difesa del creato e la denuncia inequivocabile delle responsabilità collettive.
Bergoglio ribadisce senza mezzi termini l’assoluta urgenza di «rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta» e precisa che
abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri.
La lettera del papa cita due volte i ghiacci polari e i ghiacciai:
lo scioglimento dei ghiacci polari e di quelli d’alta quota minaccia la fuoriuscita ad alto rischio di gas metano, e la decomposizione della materia organica congelata potrebbe accentuare ancora di più l’emissione di biossido di carbonio.
Ricordiamo quei polmoni del pianeta colmi di biodiversità che sono l’Amazzonia e il bacino fluviale del Congo, o le grandi falde acquifere e i ghiacciai. È ben nota l’importanza di questi luoghi per l’insieme del pianeta e per il futuro dell’umanità.
La lettera enciclica Laudato si’ fa continuamente riferimento alla scienza. L’appello di Francesco è un atto di fede generato dalla conoscenza, una speranza fondata sul sapere, come se le acquisizioni della scienza muovessero le ragioni della giustizia ambientale e argomentassero le scelte dell’etica. Si tratta dell’ennesimo rovesciamento di paradigma, perché anche chi non crede in Dio è chiamato a salvare la casa comune. Tutti sono fraternamente invitati alla conversione ecologica, al contrario di quanto accadde con le apocalittiche narrazioni della Controriforma che usarono le paure e le superstizioni dei montanari per inchiodarli alla colpa.
Il film del nostro futuro
Per la prima volta nella storia dell’umanità abbiamo il film di quanto sta per succederci. Basta sedersi in poltrona, accendere il computer e leggere il futuro sullo schermo.
Ci sono varie versioni del film dell’avvenire, di solito piuttosto convincenti. Qualcuna è spietata e altre sono più edulcorate, a ogni modo sono sempre abbastanza inquietanti da far male perché conoscere il destino della Terra è un po’ come sapere la data della propria morte. La più dolce proiezione del futuro umano e terrestre è basata sull’archivio del ghiaccio, la proiezione G, ed è dolce perché le forme del ghiaccio e il candore dei ghiacciai hanno il potere di convertire in magia perfino le statistiche. Se il film del futuro inizia con le ciminiere delle fabbriche o i tubi di scappamento delle automobili è fin troppo facile capire dove va a parare, ma se la prima immagine è una distesa di ghiaccio trasparente c’è da confondersi.
Nel maggio 2019 ho assistito alla proiezione G in un’aula dell’Università Roma Tre, dipartimento di Scienze, al termine di un incontro tra glaciologi, biologi, storici e scrittori. Il tema che ci univa erano i ghiacciai. Il professor Paolo Ascenzi ci aveva invitato a discutere «la stretta relazione fra lo stato delle masse glaciali e la vita in tutti i suoi aspetti», che era esattamente il mio punto di vista, anche se la primavera romana e la calorosa atmosfera del convegno contrastavano con il gelo dei contenuti scientifici e narrativi. Comunque era bello incontrare persone così attente alle dinamiche glaciali e così partecipi del destino dei ghiacciai. Gente innamorata. E addolorata. Se ne parlava con una specie di timidezza, come si parla di una vecchia fidanzata che ti ha preso molto più di un amore di gioventù.
All’inizio del pomeriggio prende il microfono Massimo Frezzotti, presidente del Comitato Glaciologico Italiano ed esperto scienziato polare. Massimo è un veterano: ha partecipato a quattordici spedizioni in Antartide e ha diretto importanti progetti internazionali di ricerca. Eppure preferisce parlare di arrampicate in luoghi caldi e assolati. La scalata è la sua passione, e anche la mia, così che quando lo chiamano al tavolo degli oratori stiamo spettegolando di placche e strapiombi a picco sul mare come due studenti indisciplinati. Mi siedo in platea e continuo a pensare ai favolosi tafoni del sud della Corsica, sintonizzandomi distrattamente sul power point del professor Frezzotti che comincia a estrarre dalle carote del ghiaccio antartico la storia del clima terrestre, dunque la nostra storia.
La proiezione G, il film del futuro, alterna inizialmente le immagini del Polo Sud con i gelidi fotogrammi delle vite dei ricercatori polari, che nell’estate australe diventano un popolo di quattromila persone. Poi la proiezione sale di tono e acquista un’inconsapevole carica drammaturgica quando le immagini degli scienziati introducono subliminalmente i risultati delle ricerche. La poesia s’incanala nel solco duro dei dati, il ghiaccio si fa sempre più bollente. Sullo schermo dell’aula universitaria e nel racconto di Frezzotti scorrono diagrammi e diagnosi incontrovertibili, alzando la curva della mia attenzione, finché dimentico la roccia della Corsica e ascolto con ansia il professore scalatore:
Dalla fine del XIX secolo l’uomo ha iniziato a immettere nell’atmosfera un enorme quantitativo di anidride carbonica, prodotta dall’utilizzo dei combustibili fossili, generando un progressivo innalzamento dei valori di concentrazione: dalle 285 parti per milione dell’era pre-industriale fino alle attuali 410. Gli studi sulle perforazioni dei ghiacci antartici, realizzati nell’ambito del progetto europeo Epica (European Project for Ice Coring in Antarctica), hanno mostrato che negli ultimi 800 mila anni il contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera era oscillato tra 180 e 300 ppm, ma per avere variazioni pari a 100 ppm occorreva un lasso di tempo lungo migliaia di anni. L’attuale variazione antropica, pari a 125 ppm, si è verificata invece in soli 130 anni e a ritmi almeno venti volte più veloci di qualsiasi altra avvenuta in condizioni naturali.
Le evidenze del passato ci proiettano nell’avvenire. Più ci si spinge indietro nel tempo più acquistano peso le anomalie del presente e si rafforzano gli interrogativi per il futuro. Gli oltre ottocentomila anni di storia del clima finora «estratti» dalle carote antartiche (già si punta a raddoppiare a un milione e mezzo di anni) corrispondono a una vita umana sommata ad almeno dodicimila vite precedenti, anche se l’homo sapiens compare solo nell’ultimo quarto del periodo e l’homo industrialis si palesa nell’ultimo istante dell’«orologio climatico», facendo impazzire il meccanismo. Il ghiaccio polare ha incorporato e restituito un’ampiezza temporale straordinaria, registrando fedelmente le alterazioni chimiche connesse ai cicli climatici e fissandone le variazioni. Il sorprendente «campionamento» dovrebbe porre una pietra tombale sul dibattito che accompagna il tema del riscaldamento terrestre perché la rapidità del fenomeno attuale è così eccezionale, così inedita, così imprevista e così strettamente connessa alle conseguenze dell’industrializzazione – due secoli al massimo: l’ultimo istante dell’orologio – da fugare purtroppo ogni dubbio.
Il carattere globale del ritiro dei ghiacciai avvenuto a partire dal 1980 è totalmente anomalo nella storia geologica degli ultimi seimila anni – spiega Frezzotti avvicinandosi al tempo presente –. I ghiacciai, oltre a essere dei formidabili indicatori climatici, rappresentano una fondamentale risorsa idrica, energetica, paesaggistica e turistica. Ma il patrimonio sta scomparendo... Se l’attuale tendenza climatica continuerà con questi ritmi, o addirittura peggiorerà, i nostri nipoti non potranno godere di questo patrimonio ambientale.
La responsabilità verso le future generazioni dovrebbe indurci ad agire senza tentennamenti, ma se proprio non c’importa di chi erediterà la Terra potremmo almeno appellarci alla logica: sono circa due secoli che abbiamo convertito la repulsione per il ghiaccio in attrazione fisica ed estetica; da due secoli contempliamo la bellezza dei ghiacciai e ne celebriamo la purezza, li dipingiamo, li narriamo, li sogniamo, li scaliamo, li sciamo, li decantiamo e li mortifichiamo con i gas serra. L’ammirazione e la distruzione vanno di pari passo in un evidente cortocircuito sociale, economico e culturale, perché l’uomo romantico che ama e rimpiange i ghiacciai è lo stesso uomo industriale che li umilia.