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Jan era paralizzato. Era tutto un incubo. Sì, doveva trattarsi di un incubo!
La luce rosso-bluastra in cui era immersa la camera, l’odore disgustoso che mescolava dopobarba, adrenalina e fluidi corporei.
Sto sognando. Tra poco mi sveglierò e scaccerò queste immagini orripilanti. Mi alzerò dal letto, andrò in cucina e troverò lì Carla ad aspettarmi. Berremo un caffè e rideremo dell’assurdità di questo sogno. Poi...
No, non è un sogno, obiettò una voce interiore che non voleva farsi travolgere dalla forza dello shock. È tutto reale. Carla è reale. Il letto dove è incatenata con le braccia e le gambe aperte è reale. Tutto qui è reale!
Guardò Carla con sgomento. Aveva il viso bagnato di lacrime e impiastricciato di muco, gli occhi sgranati e quasi fuori dalle orbite. Il bavaglio di cuoio deformava la sua bocca in una smorfia grottesca, come se il panico le avesse appiccicato un ghigno sinistro sul viso. Il corpo nudo tremava e si dimenava, i seni si alzavano e si abbassavano freneticamente e Jan sentiva il suo respiro affannoso e spaventato.
Fu questo ansimare a strapparlo dalla paralisi dello shock e a fargli notare la seconda persona che era nella stanza. Accanto al letto c’era un uomo dai capelli lunghi, alto più o meno un metro e ottanta, di corporatura atletica. Mentre Jan sfondava la porta, doveva essersi infilato frettolosamente i jeans, perché erano ancora slacciati. Fissava Jan ricambiando il suo stesso sguardo atterrito.
«Dottor Forstner!» ansimò, allacciandosi precipitosamente i bottoni dei jeans.
Jan impiegò qualche istante per riconoscere chi gli stava di fronte. L’uomo che aveva davanti era Mirko Davolic, il suo ex paziente, il bel ragazzo che tutte le infermiere guardavano di nascosto. L’uomo che gli stava davanti aveva appena violentato Carla, o almeno ci aveva provato.
Qualcosa sembrò esplodere nella testa di Jan. Lanciando un grido feroce, diede un pugno in faccia a Davolic. Il colpo gli spostò la testa all’indietro e i capelli si sollevarono come se una violenta raffica di vento gli avesse soffiato in faccia. Alzò le braccia e cadde per terra di schiena.
Jan si gettò su di lui e cominciò a colpirlo con furia forsennata.
«Che cosa le hai fatto?» gli gridò. «Figlio di puttana!»
Davolic era troppo stupito per reagire e difendersi. Lanciò una serie di gridolini, alzò le mani e cercò di proteggersi il viso dai pugni di Jan. Ma Jan continuava a colpirlo.
«Lo voleva lei!» protestò Davolic, con la bocca e il naso insanguinati. «Glielo chieda! Glielo chieda!»
Jan si bloccò con il pugno sollevato e pronto a colpire. «Che cosa? Che cosa hai detto?»
Davolic lanciò un gemito gutturale, deglutì il proprio sangue e con mano tremante indicò il tavolino accanto alla finestra. Jan seguì il suo dito e rimase sbigottito. Non credeva ai propri occhi. In un portacenere di ottone rivestito da una patina opaca del tempo, c’erano diverse banconote. Banconote da cento euro.
«Lo voleva lei» ripeté Davolic. Sbuffò, allontanò Jan con preoccupante facilità e si alzò. «Dio santissimo, mi ha pagato per farlo, ok?»
Jan rimase seduto allibito sul tappeto polveroso, con lo sguardo alzato verso Davolic, che finì di allacciarsi i calzoni e si strofinò la faccia insanguinata con la maglietta. «È il nuovo lavoro di cui le ho parlato.»
Jan si riscosse. «Lei...»
«Mi scopo le donne a pagamento, ok? La sua amica mi ha offerto trecento euro per questa merda.»
«Non è stata lei» ribatté Jan. Si sollevò faticosamente reggendosi al tavolo e barcollò fino a Carla. Con mani tremanti le slacciò il bavaglio e lo gettò da una parte.
«Mi spiace tanto» bisbigliò accarezzandole il viso. «È tutta colpa mia.»
Lei voltò la testa di lato tra le lacrime e rimase a fissare il muro.
Un ringhio minaccioso alle sue spalle fece voltare di scatto Jan. Un labrador nero era comparso sulla porta. Quando i loro sguardi si incrociarono, il cane digrignò i denti con aria feroce. Dietro di lui si sentirono passi e voci che salivano la scala. Subito dopo il capo commissario Stark e l’agente di pattuglia entrarono nella stanza. Impugnavano le armi e le puntavano su Mirko Davolic.
Sulle loro facce era scritto lo sgomento che li aveva assaliti alla vista di ciò che trovarono nella camera.