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Mirko Davolic era un giovane di bell’aspetto. Anzi, molto bello, come Jan dovette riconoscere con una punta di invidia. Fisico atletico, pelle abbronzata, capelli neri fino alle spalle, occhi azzurri e una faccia da copertina di rivista patinata. Persino la piccola cicatrice sulla guancia, che spiccava sulla barba di tre giorni ben curata, armonizzava con l’insieme.
Al momento del suo ricovero alla Waldklinik, tuttavia, Davolic era stato un rottame. Come aveva raccontato a Jan, era stato a un passo dal togliersi la vita, dopo aver perso il lavoro in una fonderia. Vi aveva lavorato quasi dieci anni, finché l’impresa aveva dovuto dichiarare il fallimento. Da allora il giovane senza istruzione non aveva più trovato un lavoro, era caduto in una depressione sempre più grave e aveva cominciato a non alzarsi più dal letto, finché il padrone di casa lo aveva cacciato.
Pieno di debiti e senza fissa dimora, Davolic aveva vagato per la zona, fino a ritrovarsi sul ponte sul Danubio alla periferia della città. Per puro caso, circostanza che il paziente durante la terapia avrebbe definito come «volontà divina», era stato notato da una pattuglia della polizia. Gli agenti gli avevano impedito il salto mortale e lo avevano portato alla clinica psichiatrica.
Da allora erano passati quattro mesi e il rudere umano di un tempo era tornato a essere un ragazzo sicuro di sé che faceva palpitare il cuore a tutte le infermiere del reparto con un solo sguardo.
«Tutto merito suo, dottor Forstner» annunciò con un accento che tradiva le sue origini albanesi, mentre si appoggiava disinvolto alla spalliera della sedia. «Grazie a lei mi sento di nuovo bene.»
Jan fece un gesto di diniego. «Ringrazi se stesso. Io le ho solo mostrato la via d’uscita dal tunnel. Ma è stato lei a percorrerla da solo.»
Davolic lo guardò raggiante. «Proprio così, è vero. Sì, ce l’ho fatta. Ed era ora. Adesso ho trovato di nuovo un alloggio e un lavoro. Tutto andrà a posto.»
Jan guardò sorpreso il foglio di dimissioni. «Ha trovato lavoro? Non ne sapevo niente.»
Davolic si agitò sulla sedia con l’aria un po’ impacciata. «Non ho voluto parlarne con l’assistente sociale» spiegò a bassa voce. «Ma comincerò domani.»
«Di che lavoro si tratta?»
Davolic evitò lo sguardo di Jan. «Spero che non fraintenda, dottore, ma preferirei non parlarne.»
«Spero che non sia niente di illegale.»
Il giovane fece un gesto di diniego che risultò un po’ esagerato. «No, no, non abbia paura. È solo che... ecco, guadagnerò bene e potrò pagarmi la stanza.»
«Se è così, benissimo» disse Jan comprendendo. Davolic non era il suo primo paziente che doveva accettare un lavoro dal quale tutti gli altri si tenevano alla larga. E chi avrebbe ammesso volentieri di pulire i gabinetti pubblici, oppure di spazzare le strade del centro la mattina presto?
Jan annotò le proprie osservazioni nella cartella clinica, augurò buona fortuna al suo paziente e si congedò.
Davolic si fermò brevemente sulla soglia e sorrise a Jan. «Non se la prenda a male, dottore, lei è un tipo davvero simpatico, ma spero sinceramente di non doverla mai più vedere.»
Jan annuì. «Lo spero anch’io. Quantomeno non qui.»
Davolic uscì dall’edificio con una piccola borsa sportiva che conteneva tutti i suoi averi.
L’infermiera Bettina, che stava percorrendo il corridoio con la posta della giornata, si girò a guardarlo, poi raggiunse Jan.
«Davvero un bel tipo, non trova?» la provocò Jan, ma Bettina si limitò a una scrollata di capo.
«A che cosa serve un bell’involucro, se contiene solo aria?» Consegnò a Jan la posta. «Uno come quello potrà essere piacevole per la vista, ma non può reggere il confronto con i tipi come lei.»
«Oh, molte grazie.» Jan scoppiò a ridere. «Ma, nel caso oggi voglia di nuovo uscire prima, temo di doverla deludere.»
L’infermiera non reagì a questa battuta e di colpo si fece molto seria. «No, dicevo sul serio. Lei è una persona davvero speciale. Il reparto pediatrico, per esempio, senza di lei non sarebbe stato pronto nemmeno tra dieci anni. Oppure i suoi pazienti... dovrebbe sentire che cosa dicono di lei. Non conosco molti medici qua dentro tanto apprezzati quanto lei.»
«È molto gentile da parte sua» disse Jan, accorgendosi che lei non riusciva a sostenere il suo sguardo. «Ma io faccio solo il mio lavoro. Il nuovo reparto era necessario da tempo e il progetto per la sua realizzazione è antecedente al mio arrivo qui. Inoltre non sono l’unico che si batte per la sua realizzazione.»
«Lei fa molto di più che il suo lavoro, dottor Forstner.» Bettina aveva un tono deciso, anche se non riusciva a guardare in faccia Jan. «Lei sa leggere dentro le persone e per questo loro l’amano.»
Come gli era capitato il giorno prima, Jan ebbe di nuovo l’impressione di avere davanti una ragazzina timida, che si nascondeva dietro una facciata spavalda. Un istante dopo, tuttavia, Bettina tornò al suo solito modo di fare schietto. «Inoltre nemmeno lei deve nascondersi» disse a voce un po’ più alta, ammiccando. «Per uno della sua età, non è niente male.»
«Certi complimenti fanno sempre piacere.»
Lei ridacchiò. «Non vorrei che si montasse la testa.»
Detto questo lo lasciò e scomparve per consegnare il resto della posta.
Tornato in ufficio, Jan si guardò nello specchio sopra il lavandino. Aveva trentasei anni, le prime ciocche grigie striavano la sua chioma scura e intorno agli occhi castani si erano formate minuscole rughe che fino a un paio di anni prima non c’erano. Ma tutto sommato si era mantenuto bene, soprattutto dopo i complimenti che gli aveva rivolto la ragazza che, a essere precisi, avrebbe quasi potuto essere sua figlia.
«Attenzione, galletto presuntuoso» mormorò alla propria immagine. «Sono i primi segnali di una crisi di mezza età.»
Oppure della solitudine, aggiunse una voce interiore.
Carla gli mancava. Aveva cercato di mettersi in contatto con lei più volte la sera prima, ma tutte le volte era stato indirizzato alla segreteria telefonica e aveva riattaccato prima di sentire il segnale. Non aveva alcuna voglia di parlare con una casella vocale. Quello che aveva da dirle era troppo personale.
Guardò con emozioni contrastanti il mazzo di rose sistemato sopra il mobile dell’archivio accanto alla macchinetta del caffè, e poi si dedicò alla posta. Aveva appena aperto la prima busta, quando squillò il telefono. Jan rispose, ma all’altro capo del filo non si sentiva nessuno.
«Pronto?»
Silenzio.
All’inizio Jan pensò che la comunicazione si fosse interrotta – niente di strano, visto quanto era vecchio l’impianto telefonico della clinica – ma poi percepì un lieve respiro.
«Pronto, chi parla?»
Non ottenne risposta.
Guardò il display e lesse CHIAMATA ESTERNA, a indicare che si trattava di una connessione analogica oppure un numero nascosto. Forse era uno dei suoi pazienti di ambulatorio. Ma perché non si faceva riconoscere?
«Se non mi risponde, riattacco.»
Nessuna reazione. Solo un lieve fruscio, come se qualcuno strofinasse del tessuto sul microfono, accompagnato da un impercettibile respiro.
«Senta, ha chiamato il numero del dottor Jan Forstner alla Waldklinik. Se vuole parlare con me, allora dica qualcosa.»
Jan aspettò ancora qualche istante, poi, non ricevendo risposta, riagganciò scuotendo la testa. Riprese in mano la busta, ma il telefono squillò di nuovo.
Jan si presentò anche questa volta e come prima non ottenne risposta.
«Chi parla?»
Niente.
Jan sospirò. «Che cosa sarebbe questa storia, eh?»
Di nuovo un lieve respiro e nient’altro.
«Senta, se è uno scherzo, allora...»
«Jan.» La voce era così bassa che Jan faticò a sentirla.
«Chi parla?»
«Jan» ripeté quella che sembrava una giovane voce femminile.
«Sì, sono Jan Forstner. Con chi parlo?»
«Senza di te non ce la faccio.»
Siccome sussurrava, era difficile giudicare l’età dell’interlocutrice. Jan calcolò che dovesse avere tra i dodici e i quattordici anni, ed era disperata.
«Non ce la fai per che cosa?»
«Tutto.»
«Potresti essere più precisa?»
«Presto» fu la risposta bisbigliata, seguita da un clic. Poi Jan sentì il segnale di linea libera.
Jan riagganciò aggrottando la fronte. Chi diavolo poteva essere? Non aveva riconosciuto la voce, ma la ragazza lo aveva chiamato per nome, come se lo conoscesse. Gli aveva rivolto una richiesta d’aiuto. Ma da parte di chi?
Rimase a osservare pensieroso il telefono, nell’attesa che suonasse di nuovo. Per un po’ non accadde niente, poi, mentre si accingeva a leggere la posta, l’apparecchio squillò ancora.
«D’accordo» disse Jan, «parliamo, ma non riagganciare subito.»
«Non avevo alcuna intenzione di farlo» rispose una voce conosciuta, accompagnata da un assordante frastuono da stazione ferroviaria.
«Carla! Che bella sorpresa.»
«Ho visto che ieri hai cercato di telefonarmi. Diverse volte.»
La sua voce era asciutta e pragmatica, e Jan ne rimase perplesso. Dopo il mazzo di rose si aspettava un po’ più di tenerezza.
«Sì, ecco... volevo solo ringraziarti.»
«Ringraziarmi?»
Jan aggrottò la fronte. Carla sembrava stupita, come se non sapesse a che cosa si riferiva.
«Senti, Jan, non ho molto tempo. Stanno per venire a prendermi alla stazione e devo rilasciare un’intervista. È successo qualcosa, oppure perché mi hai telefonato così tante volte?»
«No, qui è tutto a posto» rispose lui, rendendosi conto che non era il momento giusto per parlare delle rose. Soprattutto visto che non era stata lei a inviarle. «Volevo solo sentire la tua voce.»
«Ho sentito di Volker al notiziario. È terribile. Si sa già chi è stato?»
Lei lo evitava e Jan avvertì una spiacevole stretta al petto. «No. Gli inquirenti sospettano che possano esserci di mezzo i narcotrafficanti.»
«Non mi sorprenderebbe. Volker aveva messo le mani su qualcosa di grosso.» In sottofondo Jan sentì una voce maschile che si rivolgeva a Carla. Carla rispose qualcosa allontanando il telefono da sé. Poi tornò a parlargli. «È arrivato il taxi. Ora devo...»
«Aspetta un attimo» si affrettò a dire Jan. «Voglio ancora dirti che mi manchi.»
«Anche tu.» Questa risposta gli provocò un fremito. «Però lasciami ancora un po’ di tempo, d’accordo?»
«Certo.»
«Sai, non è che non ti amo. È solo che non ho ben chiaro come debbano proseguire le cose tra noi.»
«Stai tranquilla, lo capisco» rispose Jan cercando di trattenere il groppo in gola.
«Ora devo proprio andare.» La sua voce era bassa e fu quasi cancellata da un annuncio all’altoparlante. «Parleremo un’altra volta, ok? Stammi bene.»
Prima che lui potesse rispondere, lei aveva già riattaccato.
Jan si ritrovò nel silenzio del suo studio con un mazzo di rose che non sapeva da chi gli fosse stato inviato.