18

Dopo aver placato i morsi della fame, Jan si recò a casa dei Nowak, posteggiando l’auto proprio di fronte. Nel parcheggio dietro la casa c’erano alcuni posti liberi, ma Jan non aveva avuto il coraggio di fermarsi lì. Il ricordo del cadavere di Nowak che veniva prelevato dall’auto e deposto nella cassa di plastica era ancora troppo vivo nella sua mente.

Jan spense il motore e guardò la casa dal finestrino rigato di pioggia. Era la prima di una fila di edifici a tre piani con le facciate nel tipico stile di fine Ottocento addossati gli uni agli altri. Con il passare del tempo l’intonaco in origine bianco aveva assunto una colorazione marroncina e anche la casa dei Nowak avrebbe avuto bisogno di una bella ritinteggiata. Nella fosca luce di quella piovosa giornata di ottobre appariva tetra e poco invitante. Non sembravano esserci luci accese nelle stanze, ma guardando meglio a Jan parve di scorgere pesanti tendaggi scuri davanti alle finestre.

Jan si augurava che la madre di Nowak non lo giudicasse un maleducato privo di tatto, a presentarsi da lei così a ridosso della tragedia, ma l’interrogativo sul motivo che aveva spinto Volker a cercarlo lo tormentava. Forse lei avrebbe potuto fornirgli qualche indizio.

Da chi pensava di essere seguito Nowak? Proprio dai trafficanti di droga? E, in questo caso, perché avrebbe richiesto un parere professionale da parte di Jan?

Jan scese dall’auto, si scansò da un camion di passaggio che spruzzò un getto d’acqua sul marciapiede, e attraversò la strada. Alzò lo sguardo verso l’edificio, con la strana impressione che anche la casa lo stesse guardando. Forse non era la casa, bensì...

Chi? Chi dovrebbe osservarmi?

Scacciò quell’assurda sensazione e raggiunse l’ingresso. Tre gradini salivano al portone. Sul lato c’era un montascale e Jan ripensò a quanto gli aveva riferito Bettina. Agnes Nowak era malata. Ed era un po’ bizzarra.

Sul campanello non c’era nome, come pure nell’elenco telefonico non compariva alcun numero sotto Nowak. Il giornalista con le predilezione per temi scottanti aveva cercato di mantenere segreto il proprio domicilio. A casa della sua vecchia madre doveva essersi sentito al sicuro. Un fatale errore di valutazione.

Jan schiacciò il pulsante di un antiquato citofono e aspettò. Nessuna risposta.

Forse Agnes Nowak non era in casa? Bettina però gli aveva detto che la donna usciva solo di notte. Così provò un’altra volta, aspettò e guardò l’apparecchio grigio. Niente.

Stava per tornare sui propri passi, quando dietro di lui risuonò uno schiocco elettronico. Una lucina rossa si accese nel citofono.

«Chi è?»

La voce roca di una donna, titubante e diffidente.

«Signora Nowak? Sono Jan Forstner. Ero un conoscente di suo figlio. Mi spiace disturbarla. Potrebbe dedicarmi qualche minuto?»

Un breve silenzio.

«Che cosa vuole?»

«Mi piacerebbe parlare con lei di suo figlio.»

«Lei è quello psichiatra, vero? Quello del libro.»

«Senta, se non è il momento adatto, posso passare un’altra volta...»

«L’hanno mandata loro?»

«A chi si riferisce?»

«La polizia.»

«La polizia? No.»

«Davvero?»

«No, sono venuto perché io e suo figlio avevamo un appuntamento sabato sera e...»

Lo scatto della serratura lo interruppe e la lucetta rossa sul citofono si spense.

Jan entrò in un corridoio quasi completamente buio. Un fioco alone di luce proveniva dal piano superiore. C’era odore di legno vecchio, tappeti e qualcosa di dolciastro che somigliava a una pomata antidolorifica. Si capiva che da anni l’ambiente non veniva più arieggiato, e nonostante l’altezza del soffitto – difficile da valutare al buio – c’era un senso di soffocamento.

Mentre la porta d’ingresso si richiudeva lentamente dietro di lui, Jan tastò la parete in cerca di un interruttore. Alla fine lo trovò, ma quando lo schiacciò si accese solo una linea luminosa sul pavimento. Percorreva il corridoio e quindi il binario di un montascale che saliva al primo piano.

Mentre Jan cercava un secondo interruttore della luce, la porta alle sue spalle si chiuse definitivamente, spegnendo anche l’ultimo raggio di luce esterna.

I suoi occhi impiegarono qualche secondo ad abituarsi alla fioca illuminazione. A poco a poco riconobbe un tavolo da toeletta antico con sopra una ciotola di porcellana e un oggetto allungato simile a un modellino di un vecchio razzo spaziale. Accanto al guardaroba c’era una sedia a rotelle a batteria con sopra un impermeabile.

«Sul tavolino c’è una torcia elettrica.»

Jan guardò verso le scale. In cima c’era una sagoma alta e smunta che si reggeva con entrambe le mani alla balaustra. Nell’alone delle luci sul pavimento, Jan riconobbe i contorni di una figura femminile. Con la testa indicò il tavolino nell’ingresso.

«Prenda la torcia e venga di sopra. Ma punti la luce solo verso il pavimento.»

Prima che Jan avesse tempo di rispondere, la figura si girò e scomparve. Ecco che cosa aveva voluto dire Bettina definendo la signora Nowak come «malata ma non solo fisicamente».

Afferrò quello che al buio gli era sembrato un razzo in miniatura e l’accese. Alla vista del fascio di luce che rischiarava la stanza, si sentì subito un po’ meglio.

Salì le scale e seguì un lieve tintinnio di porcellana, sino a trovare Agnes Nowak in un ampio salotto anch’esso rischiarato solo da fioche luci infilate nelle prese. Erano sufficienti per distinguere l’essenziale: un divano con due poltrone risalente alla fine degli anni Cinquanta, un tavolo da pranzo con sei sedie della stessa epoca, due ampie librerie e un orologio a pendolo che riempiva la stanza con il suo ticchettio ovattato.

L’odore dolciastro di medicinali era ancora più forte.

«Vuole un tè?»

Agnes Nowak posò una seconda tazza sul tavolo da pranzo, si appoggiò alla spalliera della seggiola e si girò verso di lui. La donna alta si muoveva incerta e curva. Le gambe rinsecchite formavano una X. E sembrava in procinto di cadere da un momento all’altro se non si fosse seduta.

Jan declinò con un cenno del capo. «No, grazie. Non vorrei crearle troppo disturbo.»

«Naturale che vuole del tè» replicò lei decisa. «Venga. Si accomodi. E spenga la torcia. La luce della stanza deve bastare.»

Jan posò la torcia sul tavolino da caffè e si incamminò verso Agnes Nowak. Secondo la descrizione di Bettina doveva avere all’incirca sessantacinque anni, ma sembrava molto più vecchia. Guardò Jan con occhi scuri e vigili che lampeggiavano in un volto rugoso. Era un viso interessante, dai lineamenti fragili, che un tempo doveva essere stato grazioso. A Jan vennero in mente le ultime fotografie di una Audrey Hepburn molto malata. Se fosse esistita una maschera funeraria dell’attrice – una maschera con gli occhi spalancati – sarebbe stata molto simile al viso di Agnes Nowak. L’incarnato era di un pallore innaturale, sottolineato dall’abito a lutto. Sembrava che si fosse truccata con il cerone e anche i capelli stopposi, che rilucevano giallastri nella penombra, sembravano finti.

«Sediamoci» disse, lasciandosi cadere su una poltrona con movimenti rigidi. «Ricevo visite molto di rado, sa. Ogni tanto viene il parroco. E naturalmente le assistenti sociali, ma non sono vere visite.» Tolse il coperchio da una biscottiera di vetro. «Però tengo sempre dei dolci in casa. Le piacciono? Certo che le piacciono.»

«Sì, grazie.» Jan si sedette di fronte a lei.

Lei lo osservò socchiudendo gli occhi. «Se sono stati loro a mandarla, può dirmelo tranquillamente.»

«No, non mi ha mandato nessuno.»

Lei gli sorrise ammiccante. «Scommetto che è rimasto sorpreso dal buio di questa casa, vero?»

«A essere sinceri, sì.»

«Spero proprio che saremo sinceri tra noi» ribatté lei osservandolo con espressione assorta. «Ebbene, per quanto riguarda l’oscurità... sono sicura che come medico conosce la EPP.»

«La protoporfiria eritropoietica?»

Lei annuì e la pelle del collo le oscillò, come quella di una tartaruga. «Esatto. Sa che cosa significa quando la luce del giorno è solo un lontano ricordo dell’infanzia? Quando anche la luce di una banale lampadina provoca dolori tali da farti desiderare che tutto finisca presto? No, certo che lei non può saperlo. Ma forse lo può immaginare.»

Jan annuì turbato. La EPP era una rarissima malattia metabolica che in genere compariva fin dall’infanzia e nel corso degli anni provocava nel soggetto un’acuta fotosensibilità. Nella fase avanzata i malati non sopportavano neppure la luce artificiale. A quanto ne sapeva Jan, per il momento non esistevano cure efficaci. Le sofferenze potevano essere alleviate solo evitando un’esposizione diretta alla luce.

Agnes Nowak prese la teiera con mani tremanti e riempì la tazza di Jan. Lui notò le articolazioni deformate, e intuì quale fosse la causa dell’odore dolciastro che aveva sentito.

«I dolori però non sono la cosa peggiore» proseguì lei. «Il dramma vero è la solitudine che accompagna la malattia. Nessuno resiste a lungo al buio, soprattutto quando non ci sta per necessità. Da bambina non avevo amici e la situazione non è cambiata con gli anni. Una persona che evita la luce, infatti, suscita diffidenza. Ma non posso lamentarmi. Ho avuto un marito devoto che è stato al mio fianco, e un figlio che si è preso cura di me. Non tutti nella mia situazione possono avere tanta fortuna. Solo che ora...» Chiuse gli occhi e scrollò il capo. Quando tornò a guardare Jan, una lacrima le solcava la guancia rugosa. «Lei dunque era amico del mio Volker?»

«Ecco, forse non proprio amico, ma per un po’ di tempo ci eravamo frequentati.»

«Sì, lo so, aveva scritto di lei.» Si passò una mano sul viso e annuì. «All’epoca dei fatti nel bosco. Volker l’ammirava davvero molto per questo. Diceva che era stato molto coraggioso. Un vero eroe. Il mio Volker ammirava tantissimo le persone che dimostrano coraggio. Anche lui era così. Sempre alla ricerca della verità. Bisogna sempre portare alla luce la verità, diceva, anche a costo di fare delle vittime. Perché è nostro dovere combattere la menzogna a questo mondo.» Riunì le mani in grembo e sospirò. «E adesso la ricerca della verità gli è costata la vita.»

«Lei ha dei sospetti su chi possa essere stato?»

«Me lo ha già chiesto la polizia.» Con le mani artritiche prese un biscotto e lo osservò come se fosse qualcosa di sconosciuto. «Quello Stark e il suo collega, quello che è morto.»

Jan pensò a Kröger. Come faceva in fretta a diffondersi la notizia di una morte. Raggiungeva persino chi non aveva contatti con il mondo esterno.

Agnes Nowak posò il biscotto davanti a sé e fece un gesto di impotenza. «Però non ho potuto aiutarli. Volker non mi parlava mai del suo lavoro. Parlavamo di tante cose, ma mai di ciò a cui stava lavorando. Mamma, è meglio che tu non sappia niente, mi ripeteva sempre. Era un bravo ragazzo. Altri alla sua età sono sposati, hanno dei figli e non hanno tempo di occuparsi della vecchia madre, ma lui era diverso.»

A Jan tornò in mente quello che Carla gli aveva raccontato una volta su Volker Nowak. Avevano parlato di lui, dopo che il giornalista aveva scritto l’articolo su Jan. Carla aveva osservato che Volker era un tipo singolare, da una parte esaltato e infantile, dall’altra anche introverso e inavvicinabile.

«Sono convinta che debba avere un segreto» aveva detto. Ora Jan era seduto di fronte a questo segreto. Una donna che chiamava il suo figlio adulto «il mio Volker» e «un bravo ragazzo».

«Signora Nowak, sono venuto perché suo figlio mi ha telefonato il giorno della sua morte. Voleva vedermi, ma non mi ha spiegato il motivo. Forse lei può dirmi perché volesse parlarmi?»

«No, non mi ha detto niente in proposito. Ma so che aveva un’ottima opinione di lei.»

«Sapeva che Volker si sentiva seguito?»

«Ecco, in realtà non mi ha detto niente» disse rivolgendo a Jan un’occhiata impaurita. «Ma io gli occhi ce li ho, mi capisce? Mi sono accorta che aveva paura di qualcosa. E quando poi abbiamo avuto quell’incontro...» Lasciò la frase a metà, piegò la testa di lato e ammiccò verso Jan. «Sono stati loro a mandarla, vero? Lo ammetta. Certo che l’hanno mandata loro. È per questo che si trova qui. Perché devo raccontarle ciò che abbiamo visto.»

Rivolse a Jan un’occhiata che gli era familiare. Le vedeva ogni giorno, quando aveva a che fare con pazienti deliranti, persone convinte di sapere qualcosa a cui nessuno credeva.

«Le ripeto che non mi ha mandato nessuno» disse, ma si accorse dalla sua espressione che lei non gli credeva. «Perché crede che la polizia mi abbia dato questo incarico?»

«Perché vogliono che le racconti del nostro incontro.»

«Chi avete incontrato?»

Per un istante rimase pensierosa, poi rispose, secca e decisa.

«Un fantasma.»

Jan sentì il cuore accelerargli. «Un fantasma

«Ora non mi guardi così, come se non avessi tutte le rotelle a posto.» Fece un gesto stizzito che manifestava nel contempo indignazione e delusione. «I poliziotti hanno reagito proprio come lei. Mi ritengono una vecchia pazza che non ci sta più con la testa. E ora mi mandano pure uno psichiatra.»

«Signora Nowak, le assicuro che...»

«Ma forse ha ragione lei, almeno un po’» lo interruppe lei. «Forse non sono più del tutto normale. Quando si deve trascorrere gran parte della vita al buio, si cambia. Al buio si sentono e si vedono spesso cose bizzarre, molto bizzarre, e non tutte hanno una spiegazione. Ma la donna che io e Volker abbiamo visto esisteva davvero.»

«Una donna?» Jan si sporse in avanti sulla sedia. «Com’era questa donna?»

Agnes Nowak si strinse nelle spalle, con una smorfia di dolore. «Non lo so. Non l’ho riconosciuta. Un momento prima c’era, poi non c’era più.» Gli rivolse un’occhiata penetrante. «Lei crede ai fantasmi?»

Jan si schiarì la gola. «Se me lo chiede in maniera così diretta, no.»

«Lo immaginavo» replicò lei senza apparire delusa. «Lei non è un uomo particolarmente credente, dottor Forstner?»

«Credo nel sano buon senso» rispose Jan sincero. «Altrimenti non potrei svolgere la mia professione.»

«Non mi sorprende.» Lei distolse lo sguardo e lo fece vagare per la stanza buia. Jan ebbe l’impressione che lo facesse per allontanarsi da lui. Quasi volesse fondersi con l’oscurità che si rifletteva nei suoi occhi. «Lei non ha mai guardato nella tenebra, veramente. Sembra che lì sia tutto nero su nero, ma più a lungo si fissa più si vede meglio.»

Sul suo viso era comparsa un’espressione assorta, che la faceva somigliare a una maschera. Sebbene continuasse a parlare con Jan, sembrava rivolgersi più a se stessa che a lui.

«Deve sapere che in passato ero molto religiosa. Del resto, la religione è l’ultimo rifugio dei deboli e dei disperati, e a causa della mia malattia ero molto disperata, come può ben immaginare. Da principio avevo pregato Dio perché mi liberasse dalla mia maledizione e mi guarisse. Ma non è accaduto. Così per lungo tempo ho creduto che mi avesse messo alla prova. Cercavo di trovare un significato alle mie sofferenze. E poi è comparsa anche questa maledetta artrite.» Sollevò una mano e si guardò le dita simili a rami contorti e nodosi. Poi la lasciò cadere di nuovo in grembo, e strinse il pugno, gesto che le causò forti dolori. «Quando poi si è portato via anche mio marito, ho cominciato a odiarlo. Che razza di entità malata doveva essere questo caro Dio? Forse si divertiva a tormentare le sue creature con dolori, malattie e lutti e a guardarle soffrire?»

Sospirò e parve riflettere per un momento su questo interrogativo. Poi riprese a parlare. «A un certo punto mi sono chiesta se fosse possibile che lui non esistesse, e che quindi non fosse responsabile e non potesse aiutarmi. Detto tra noi, è quello che penso ancora oggi. Ma non lo dica al parroco. Sarebbe un peccato, perché allora quel simpatico giovane non verrebbe più a trovarmi.»

«Non fiaterò, glielo prometto.»

Lei sembrava non averlo sentito, o almeno finse che fosse così. «In ogni caso, anche se non esiste alcun Dio, c’è comunque qualcosa. Se si guarda abbastanza a lungo nel buio, lo si percepisce. C’è tutto un mondo al di là della nostra ragione. Dev’essere così. Altrimenti che cosa ne sarebbe dei nostri pensieri, di ciò che chiamiamo anima, o, come dice lei, ‘buon senso’? Sono convinta che resta sempre qualcosa di noi, anche quando fisicamente ce ne siamo andati da tempo. Per questo credo anche in apparizioni come questa donna. Forse a lei la parola ‘fantasma’ sembrerà sciocca, ma a me piace usarla, in mancanza di una definizione migliore. Le giuro che il mio Volker e io abbiamo visto un fantasma. Un messaggero della sua imminente morte.»

Con un cenno solenne del capo, si appoggiò alla spalliera della sedia lasciando che le sue parole si depositassero. Il silenzio era rotto solo dal ticchettio della pendola.

Jan la osservò con un misto di preoccupazione e compassione. Era chiaro che la lunga malattia le aveva annebbiato la mente, provocandole allucinazioni. Certo il fantasma di cui parlava esisteva solo nella sua immaginazione, anche se Jan credeva che fosse scaturito da un dato reale. Dopotutto il figlio era stato sentito discutere con una donna poco prima di essere ucciso.

«Potrebbe dirmi qualcosa di più a proposito di questo fantasma?» le chiese.

«Certo.» Era seduta immobile. Nella penombra il volto rugoso somigliava a quello di una morta. «Però non so se voglio farlo. Tanto comunque mi ritiene già una pazza, giusto? Nemmeno la polizia mi ha creduto.»

Jan scrollò la testa deciso. «Signora Nowak, io le credo, sono convinto che lei abbia visto qualcuno. Una donna che ha scambiato per un fantasma. Mi piacerebbe saperne di più.»

Un sorriso scoprì il bianco innaturale della protesi dentaria. «Si è espresso in maniera molto diplomatica. Quel poliziotto potrebbe imparare da lei. D’accordo, glielo racconto. Forse allora mi crederà.»

Follia profonda
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