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«Grazie di essere venuto.»
Julia guardò Jan e piegò la bocca in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso coraggioso. Aveva la faccia coperta di ematomi. La palpebra destra era tumefatta e quel poco di occhio che si riconosceva sotto era arrossato. Il dorso del naso era graffiato e la fronte era nascosta da una fasciatura da cui spuntavano alcune ciocche bionde.
Tuttavia non erano le ferite e gli ematomi a spaventare Jan, neppure il moncherino fasciato e l’altro braccio rosso, avvolto in una spessa ingessatura. Era l’immobilità a cui sarebbe stata condannata per il resto della vita. Era lì davanti a lui, come una salma disposta tra le apparecchiature di controllo. Il lenzuolo bianco copriva il corpo immobile come un sudario.
«Come ti senti?» le domandò avvicinando al letto una sedia.
Il suo sorriso si spense.
«Non mi sento più me stessa» bisbigliò lei leccandosi le labbra secche. «Dicono che è ancora troppo presto per una diagnosi definitiva. Gli ematomi che premono sul midollo spinale devono prima ridursi e via dicendo. Ma non c’è bisogno che fingano con me.»
«Forse però hanno ragione?»
«Jan, è molto gentile da parte tua, ma prima di scegliere psichiatria ho avuto a che fare con diversi casi di questo genere. Sappiamo entrambi che cosa significa la paraplegia.» Storse nuovamente le labbra afflitta. «Se non altro mi sono risparmiata l’orribile cibo sull’aereo. E probabilmente in Namibia avrebbe fatto troppo caldo.»
«Julia, non devi mollare adesso. Dopo tutto sei ancora viva.»
«Sì, Jan, sono viva. Sai qual è l’ironia di tutta questa faccenda?»
«Qual è?»
«Non riesco a ricordare niente. A giudicare dalle tracce di frenata devo essermi trovata davanti qualcosa. Questo almeno è ciò che dice la polizia. Forse un capriolo. Io so soltanto che ero uscita a comprare del gelato e volevo tornare a casa. Del gelato.» Scoppiò in una risata disperata e gli occhi le si riempirono di lacrime. «In futuro avrò bisogno di qualcuno che mi imbocchi per mangiarlo.»
Jan prese un fazzolettino dalla scatola sul comodino e le asciugò cauto le lacrime. Dovette fare uno sforzo per nascondere il tremore della sua mano.
«Julia, vorrei farti una domanda.»
«Dimmi.»
«Prima di uscire di casa, è successo qualcosa? Hai forse ricevuto una telefonata?»
«Una telefonata?» Lei ci pensò su un momento. «No, non mi sembra. So solo che ho fatto un lungo bagno e poi mi è venuta un’improvvisa voglia di gelato. Quel maledetto gelato. Pensi forse che qualcuno...» Lasciò la frase a metà.
«È... una possibilità» disse Jan, sebbene una parte della sua mente fosse convinta che fosse una certezza. Non c’erano ancora prove concrete, ma non poteva di sicuro trattarsi di una coincidenza.
No, Jana non si era limitata a minacciarlo. Non aveva voluto soltanto mettergli paura. Lei era stata – per usare le sue stesse parole – davvero cattiva.
«Ti ha seguito qualcuno quando sei andata all’autogrill?»
Julia girò di qua e di là l’unico occhio visibile, concentrata, poi lo rivolse su Jan, perplessa. «Non saprei. Non ci ho fatto caso. So solo che al ritorno un pirata della strada mi è quasi venuto addosso. Ma poi mi ha superato. Perché lo chiedi?»
«Ecco, vedi, forse non è stato un capriolo, bensì qualcos’altro, quello che hai cercato di schivare.»
«Ti riferisci a quella molestatrice, vero? Quella per cui hai fatto venire da me la polizia.»
«Sì.»
Julia fece un profondo sospiro. «Jan, non lo so davvero. L’incidente mi ha provocato una momentanea amnesia. È come se fosse stato cancellato dalla mia mente. C’è solo un buco nero. Ma che differenza fa? Anche se fosse stata questa donna. Tanto per me non cambia niente, capisci?»
«Non ti preoccupare» disse Jan a bassa voce asciugandole di nuovo le lacrime. «Mi spiace, non volevo...»
«Ora voglio dormire, Jan. So che non avevi cattive intenzioni.»
«Certo.» Jan si alzò.
«Jan?» Lo guardò con un’espressione che Jan faticò a sostenere. Nessuno prima d’ora gli aveva comunicato una simile disperazione.
Julia si leccò di nuovo le labbra. «Potresti dire a Franco che non deve più venire a trovarmi? Ha già avuto abbastanza problemi per causa mia. Digli che gli voglio bene, ma che non mi deve niente. Quello che mi ha detto l’ultima volta era giusto. È meglio se non ci vediamo più.»
«D’accordo, glielo riferirò. Posso fare qualcos’altro per te?»
Lei tossì e di nuovo quel sorriso disperato le affiorò alle labbra. «Sì, potresti premermi il cuscino sul viso. Non mi difenderei nemmeno, promesso. Neanche se ancora potessi.»
Jan chinò il capo e uscì. Quando si ritrovò nel corridoio, dovette fare uno sforzo per trattenere le lacrime.
Provava soltanto odio. Un odio viscerale verso una donna che si faceva chiamare Jana.