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Il fronte di maltempo perdurava tenace. Come informava il servizio meteorologico, un’area di bassa pressione proveniente dalla Scandinavia si era installata nel sud-ovest della Germania, dove dava origine a violenti rovesci temporaleschi. Ciononostante, dopo essere tornato a casa, Jan aveva deciso di fare una passeggiata. Il movimento all’aria aperta lo aiutava a riordinare i pensieri.
Mentre il vento freddo gli scuoteva l’ombrello, spazzando mucchi di foglie e agitando i rami degli alberi del parco di Fahlenberg come mani di danzatori giganti, Jan pensava ad Agnes Nowak e al fantasma che aveva creduto di vedere al cimitero.
Doveva essersi trattato di una donna in carne e ossa, altrimenti Volker non l’avrebbe inseguita. Ma chi era?
Ciò che lo tormentava era soprattutto l’interrogativo se ci fosse un collegamento: possibile che la donna del cimitero, quella con cui Nowak era stato sentito litigare poco prima del suo omicidio, e la donna che aveva spedito a Jan il mazzo di rose fossero la stessa persona? Si trattava di un soggetto mentalmente disturbato e per questo Nowak aveva chiesto il parere professionale di Jan?
In questo caso, qual era stato il rapporto tra Nowak e la donna? Di sicuro lui doveva conoscerla. Ma da dove?
E perché aveva mentito all’anziana madre, fino a spingerla a credere di aver visto un fantasma? Per proteggerla da quella misteriosa sconosciuta?
Più a lungo Jan ci pensava, più tutta la situazione gli risultava confusa. Ammesso che ci fosse stato effettivamente un collegamento, lui non riusciva a individuarlo.
Nonostante l’ombrello, che gli offriva ben scarsa protezione, dato che la pioggia era quasi orizzontale, ben presto Jan si ritrovò fradicio e decise di tornare a casa. Si fermò interdetto a pochi passi dal cancello del giardino.
La luce esterna sul portone era accesa, ma non c’era nessuno. Il timer d’accensione era regolato su due minuti, quindi qualcuno doveva appena essere stato lì. Jan si guardò intorno, ma come sempre a quell’ora, e soprattutto con quel tempo da lupi, il quartiere era deserto.
In quel momento la luce si spense di nuovo. Erano trascorsi due minuti.
Jan passò davanti al giardino. Strano, pensò, il sensore di movimento si azionava solo con le persone, questo glielo aveva assicurato l’elettricista che lo aveva sistemato così in alto per impedire che potesse scattare anche al passaggio di un animale. Di notte nella zona c’erano tantissimi gatti e negli ultimi tempi anche qualche martora, che avrebbero fatto rimanere la luce sempre accesa.
Jan si guardò ancora intorno, ma non c’era nessuno. Gettò un’occhiata lungo la via. Che distanza si poteva percorrere in meno di due minuti? Di sicuro abbastanza per sparire dal campo visivo. Bastava rifugiarsi oltre la curva in fondo alla strada. Anche se con quella pioggia non si riusciva certo a correre molto.
Sì, doveva essere andata così. Qualcuno aveva suonato alla sua porta e si era accorto che lui non era in casa, così se ne era andato via.
O andata via.
Per quanto fosse una spiegazione semplice e banale, non bastò a tranquillizzarlo. Gettò un’altra occhiata intorno a sé. Non riusciva a scrollarsi di dosso l’impressione di essere osservato da qualcuno. Forse da uno dei portoni non illuminati, o da uno dei giardini vicini immersi nell’oscurità. Forse addirittura dal suo stesso giardino, invisibile nel buio.
L’unico rumore era lo scrosciare della pioggia sui tetti delle case, cui si mescolavano voci e note attutite, provenienti da un televisore tenuto a volume troppo alto.
Jan accelerò l’andatura e raggiunse sollevato la porta d’ingresso. La luce automatica si era accesa di nuovo. Jan sussultò. Sullo zerbino davanti a lui c’era una busta. Era girata con l’apertura verso l’alto, come se qualcuno ve l’avesse gettata in tutta fretta.
Forse perché mi ha visto arrivare.
Jan raccolse la busta. Era uguale a tantissime altre, ma per qualche inquietante motivo gli risultava familiare. Prima ancora di girarla, Jan ebbe la certezza che sul lato anteriore avrebbe trovato il suo nome scritto con grafia infantile.
Si raddrizzò di scatto, entrò in casa, si richiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro.
Gli tremavano le mani mentre osservava la busta. Stavolta era diverso dalla busta precedente e dal mazzo di fiori. Questa volta Jan aveva paura.
La prima busta l’aveva trovata al parcheggio della clinica, anche i fiori erano stati consegnati alla clinica. Questa volta però si trovava sulla porta di casa sua. La sconosciuta era stata a casa sua.
Si sta avvicinando, pensò in preda alla paura.
Tagliò la carta con la chiave e non fu sorpreso quando estrasse dalla busta un altro disegno. C’era di nuovo il prato verde squillante e il sole giallo acceso con i raggi stilizzati in un cielo turchese. Ma sul prato non c’era più il gigante con la bambina sulla spalla. Probabilmente se ne sono andati insieme per perseguitarmi nei miei incubi. Il pensiero gli provocò un risolino nervoso, anche se la vista del disegno gli faceva venire tutt’altro che voglia di ridere.
Il prato stavolta era occupato da una mandria di mucche bianche e nere. Gli animali erano tutti decapitati. Le loro teste erano accatastate nell’angolo destro del foglio. Sotto di esse la sconosciuta aveva disegnato una grande macchia rossa sull’erba.
Sangue.
Molto sangue.