Epilogo
1999
Arrivare quasi a settant’anni. Tutto sommato in buona salute. Con un privato decente, anzi più che consolante. Vedovo, “fidanzato” con Alba dall’85 all’89, pausa, poi dal ’92 al ’93, rapporto con alti e bassi, comunque quasi un decennio, finito con un tradimento epocale da parte di lei e, dopo quattro anni rigorosamente trascorsi in perfetta e atarassica solitudine, eccolo saltuario convivente con Teresa, ex procuratore capo dell’Antimafia di Milano, nientemeno, vedova anche lei, la Gigogin, dieci anni più giovane e, cosa che non guasta, con una passione per i libri, il silenzio e le camminate in montagna.
Lato pubblico? Altrettanto decente, anzi, più che soddisfacente. Ha chiuso la sua agenzia investigativa casalinga, ma non è rimasto con le mani in mano. Ha due lavori. Un bel contratto di collaborazione con una grossa multinazionale della Security, la BSL, che sarebbe la Blinded Super Locomotive, dove la S sta anche per Saul Spontini, uno dei soci fondatori. Accompagna i tecnici nei sopralluoghi nelle fabbriche, nelle ville e negli appartamenti dove saranno installati i sistemi d’allarme e videosorveglianza e cerca di capire se i richiedenti hanno delle ragioni legittime o illegittime per proteggersi: in questo modo ha scoperto alcune filiali dei clan della ’ndrangheta al Nord. Qualche volta si occupa di accertamenti per alcuni studi di avvocati penalisti, che con la riforma del codice possono svolgere direttamente le indagini, e questi incarichi sono spesso i più divertenti. Va più di un tempo al cinema, a casa ha comprato un nuovo impianto per ascoltare le sinfonie di Beethoven. Più le sente, più “si” sente: e sente l’armonia dell’universo, nonostante tutti i disgraziati che ci sono in giro.
Sta camminando lungo corso San Gottardo. Ha in tasca un cartoncino, è l’invito per un concerto. È il 6 ottobre, il maestro Riccardo Chailly sta per dirigere la seconda sinfonia di Gustav Mahler. È una bella coincidenza. C’è chi dice che non esistano, invece il mondo ne è ricco come un grappolo d’uva è ricco di acini: il compito di separare le coincidenze e gli intrecci casuali del destino dagli indizi concreti e dalla trama che accompagna qualsiasi reato fa parte del bagaglio speculativo del buon investigatore. Lui lo è stato? A volte sì, certamente. Ha svelato misteri e sollevato il sasso dove s’annidava il serpente, per colpirlo. Altre volte, però, ha lasciato che il senso di giustizia prevalesse sul senso della legge. Non sempre legge e giustizia coincidono. Spesso sì, sempre no.
Di questo argomento non può parlare con Teresa: il rischio di un litigio è troppo elevato. Per tutta la vita la bussola di lei è stata dettata dal lecito e dall’illecito, dal fatto previsto dalla legge come reato, dalla valutazione delle persone secondo le aggravanti e le attenuanti delle loro azioni. Con Cosa Nostra, ripete sempre, non si scherza, non si tratta, non si ragiona, la si colpisce e basta, e lo si fa in base al codice, proprio per rimarcare la differenza tra noi, lo Stato, e loro, la marmaglia criminale che obbedisce ai padrini. Per quanto riguarda le mafie ha senza dubbio ragione Teresa, pensa Binda, ma com’è possibile dividere esattamente la ragione dal torto quando si parla di esseri umani?
Il colonnello Casiraghi è stato trovato morto nel suo appartamento di Roma, il giorno dopo avrebbe dovuto testimoniare davanti alla Commissione parlamentare incaricata di indagare sulle stragi terroristiche. Un infarto. Per la Gigogin «un grande ufficiale, non credi?».
«Uno fuori dalla media» aveva risposto.
«Non si dice sopra la media?»
L’ex maresciallo aveva allargato le braccia: «Lui per me era extra» s’era limitato a dire, cambiando discorso. I magistrati a volte hanno le loro “granitiche certezze” su alcuni servitori dello Stato e Binda ha imparato, con l’età, che è meglio non scalfirle se non si hanno prove altrettanto “granitiche”. E lui, sul colonnello e le sue trame, che sapeva? Poteva forse dimostrare che Casiraghi fosse sceso a compromessi per scopi ignobili? No di certo. Oppure può capitare che alcuni uomini di Stato, per evitare guai peggiori alla fragile democrazia italiana, possano spegnere la luce e, nel buio, agire male per qualche cosa che in fondo è, se non un bene, il minore dei mali: era certo che il colonnello fosse di questa partita? Nemmeno. Quindi, “zitto e mosca”, pensava, quando Gigogin provava a fargli qualche domanda un po’ troppo seria sul passato comune, che del tutto comune non è mai.
È un bel biglietto, questo che ha in mano per il concerto in largo Mahler: gliel’ha portato Olga. Passano gli anni, ma Olga lo pensa sempre, gli manda gli auguri a Natale, gli telefona, lo invita una o due volte l’anno a pranzo in ristoranti lussuosi nel Quadrilatero della Moda e ogni volta che lo vede gli ripete che solo grazie a lui ha potuto stare accanto alla madre, tenerle la mano sino all’ultimo respiro, grazie a lui la famiglia s’è riunita, l’altra sorella era purtroppo morta per un incidente sportivo. Anche la figlia di Victorjia, della “dea della rivoluzione”, è diventata la madre di Vicky, una giovanissima violinista di talento. Olga, pensa Binda, è sempre bella, alta, affascinante; la sua voce roca è rimasta inalterata. Non s’è mai sposata: l’industriale che l’aveva messa incinta e mantenuta era in realtà sposato con l’erede dell’azionista di maggioranza della holding a cui faceva capo la sua azienda ed era tornato all’ovile. Ma la loro bambina ha avuto – in totale e collettivo accordo – un nuovo e sorprendente cognome: Livraghi. Sì, proprio quel Livraghi.
Il contrammiraglio l’ha riconosciuta all’anagrafe come sua figlia naturale: in questo modo è diventata l’erede della magnifica villa accanto al Palazzo dell’Ingiustizia e di un ragguardevole conto corrente, cresciuto in maniera ancor più considerevole dopo che Livraghi ha ceduto le quote di un’importante società elettronica a un danaroso compratore, Saul Spontini. Un’altra quota appartiene a un russo-francese, che nessuno vede mai e che si fa rappresentare da un avvocato e notaio di Lugano. Sia Saul sia Binda sono pienamente convinti che l’uomo senza volto sia Stavrogin, l’uomo del KGB: anche se il tempo passa, e tanto ne è passato, aspettano sempre l’occasione per prenderlo. Binda per gli omicidi del 1972, perché anche a settant’anni non si perdono le speranze di chiudere un caso ufficialmente chiuso, ma in realtà irrisolto, visto che il vero colpevole è uccel di bosco. E Saul per obbligarlo a vendere al minimo il resto delle quote e/o ammazzarlo. Dice proprio così: «E/o ammazzarlo». Questioni loro, questioni di poteri, di Stati, di agenti, di “zone grigie”, questioni dalle quali Binda cerca di mantenersi alla larga, pensa che se Saul trova Stavrogin prima gli estorce le quote e poi lo ammazza, altro che e/o.
Sui marciapiedi di corso San Gottardo, che in alcuni tratti sono stretti e in altri larghi e comodi, da giovane carabiniere aveva fatto in tempo a conoscere “la ligera”, i vecchi ladri milanesi, che frequentavano ogni pertugio utile per sparire e sbucare sul Naviglio, facendo perdere le tracce. Negli anni Settanta, un paio di volte, gli era toccato stare di ordine pubblico: e sotto la gonna di una vecchia che assicurava: «No, maresciallo, ho sentito le sirene, ma qui non s’è visto niente», aveva scoperto e fermato un giovane con il fazzoletto rosso, armato con un manico di piccone. Negli anni Ottanta, anche se nessuno lo sapeva, abitava lì uno dei più grandi importatori di eroina dalla Turchia, uno che non era mai riuscito a vendicarsi della strage al ristorante Le Streghe, detto anche “La fogna”, costata otto morti: la più grave carneficina di mala mai avvenuta in Italia, Sicilia compresa. Milano è così: anche in una semplice via può mostrarti le macchie oscure della sua grande anima.
Ma non c’è oscurità, solo luce nell’Auditorium dove Binda entra per la prima volta. Ne è stupito. Com’è possibile che in San Gottardo sia spuntata una sala da concerti così bella? Sì, una volta qui c’era un cinema: no, non l’Alcione, quello stava in piazza Vetra, non lontanissimo. L’Adriano? Forse sì, il cinema Adriano. Macché: Massimo, qui c’era il cinema Massimo, esatto, il Massimo.
«Benvenuto, deve andare di là» gli dice una ragazza rotondetta e sorridente come se avesse appena vinto la lotteria, dandogli il programma di sala. Nonostante l’avanzare dei dolorini alla schiena, tipici di chi ha sopportato qualche piccolo grande peso, sia proprio sia del mondo contemporaneo, Binda raggiunge il suo posto camminando spedito come se avesse ancora cinquant’anni.
È in prima fila.
Poco dopo ecco arrivare Olga, in un meraviglioso abito color benis, color confetto; a Binda vengono in mente i versi di una canzone da osteria, che ascoltava alla Briosca, cantata dal Quacci, il Wanda, “Mi sont tosa de benis e podi minga fa el libero amore come a usen i tosan de Paris”. Quella che lo faceva ridere di più era però L’uselin de la comare, organizzata con tutti i clienti come se fosse una rivisitazione scorrettissima dei canti di chiesa. Una volta che aveva portato Rachele s’era divertita anche lei, che pure andava a messa ogni domenica. Gli viene un sorriso tenero, mentre stringe la mano al nuovo “amico” che accompagna Olga. Bellocci, eleganti, camicie con i gemelli, orologio d’oro, scarpe inglesi, questi “amici” sono uno la fotocopia dell’altro. Come arrivano, così spariscono: forse repliche del padre assente, pensa Binda, che a Olga vuol bene e la vorrebbe vedere “sistemata”. E se amarsi fosse sistemarsi? Cerca ancora una definizione dell’amore e non riesce a far quadrare le informazioni che ha accumulato.
Le luci tra un po’ si abbasseranno, l’ex maresciallo si sforza di allontanare dalla mente le immagini dei due omicidi del ’72 all’Angelicum, quando Victorjia Novgorodova avrebbe dovuto suonare il Salut d’Amour di Massenet… no, non di Massenet, che aveva scritto di Taide: il saluto della violinista era un’opera dell’inglese Elgar… Si levano gli applausi, c’è l’orchestra, è arrivato Chailly con la chioma al vento, ma Binda guarda una ragazzina dal sorriso franco e dalla fronte alta, con una spessa treccia a formare una specie di corona. Ruotando la testolina sistema lo strumento e afferra con decisione l’archetto, come se avesse catturato una farfalla e non volesse farle del male. È Vicky, la nipote di Victorjia: e non è un gioco, la musica comincia, la musica continua.
Una parte molto difficile, quella del coro. Il maestro, che si chiama Romano Gandolfi, ha appena letto, si muove come un leone in gabbia. Chissà se Vicky è emozionata oppure se si sente già “a posto”, da vera professionista: la piccola Livraghi ha tutta la vita davanti. Molto diversamente da lui. Non sa se invidiarla, non ricomincerebbe un’altra vita: per lo meno non come quella che ha avuto. La vorrebbe un po’ più comoda e salterebbe la ferocia degli anni Settanta, quando l’Italia è stato l’unico Paese d’Europa ad avere un supplemento di Seconda guerra mondiale.
Quello che vibra al giovane tocco di Vicky dev’essere, pensa, uno dei violini della nonna Victorjia: una tradizione che si rinnova. No, non vuole chiederlo alla madre, che con i suoi occhi grigi da mare d’inverno, tornato calmo e pulito dopo il soffio del maestrale, non guarda altri che lei: nemmeno il ciuffo di Chailly la distrae.
Chissà se esiste una nuvola da cui possa guardare giù nonna Victorjia, la “dea” creduta a lungo vittima di un feroce assassino e invece viva, malata e tenuta nascosta. Forse persino – Binda s’era fatto quest’idea e non se n’era mai andata – segregata dal marito. Una protezione, una dedizione, un amore che, in qualche modo, sapeva di catenaccio. L’amore tra gli umani, ce n’è solo uno?
Sì, Binda avrebbe potuto far arrestare il contrammiraglio Livraghi. Anzi, forse avrebbe dovuto: non è un caso che di questa indagine, resa complicata dalle ombre dei servizi segreti, non abbia mai condiviso mezza parola con Gigogin, come chiama Teresa facendola immancabilmente sorridere. Hanno parecchi ricordi in comune. Hanno conosciuto e stimato, e talvolta disprezzato, gli stessi magistrati, poliziotti, carabinieri, sono d’accordo su moltissimi fatti, diffidano delle stesse inchieste svolte a Palermo e Reggio Calabria, leggono con attenzione gli stessi giornalisti, a entrambi non è piaciuto il primo ministro degli Interni comunista, Giorgio Napolitano, che per prima cosa ha dichiarato: «Non sono venuto al Viminale per aprire gli armadi»… insomma, la pensano alla stessa maniera sul bisogno di verità che hanno i Paesi e le persone.
Però c’è un però. Binda già s’immagina di finire imputato, scacciato dal letto e crocifisso dalla sua requisitoria da pubblico ministero: «Le prove sono sacre! Tu hai tradito il giuramento!». In questa prospettiva, per quanto uno si sforzi di essere onesto, non è meglio tenere la bocca chiusa?
L’unica a conoscere l’intera vicenda era Alba, che una mattina a letto, vedendolo molto pensieroso, gli aveva portato un bacio Perugina dicendogli ancora una volta: «Sei stato giusto».
Macché, era stato ingiusto, ma adesso risuona nella sala a forma di cucchiaio la seconda sinfonia di Mahler. È intitolata Resurrezione e le note del compositore volano alte sulla sua testa e sulla testa di tutti: bella musica, pensa, e pensa anche che il pezzo che ama di più di Mahler è un altro, il più celebre, è Il canto della Terra. Scritto novant’anni prima in Val Pusteria. Sulle Dolomiti ventose dove Binda è appena stato in vacanza, ad agosto. Prima a Giustino, perché per la Gigogin non esiste una vacanza in montagna se non va a mangiare il menu storico del ristorante Mildas e poi non si sdraia con mezzo litro di teroldego sui prati dell’Alpe di Siusi.
«Discende il sole dietro la montagna, cala la sera sopra ogni vallata con le sue ombre piene di frescura… Dove vado?» si domanda Mahler.
“M’incammino per i monti, a cercare pace per il mio cuore solitario.”