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Il furgone dei carabinieri portava sulla fiancata sinistra i segni delle sassate ricevute durante le manifestazioni. Erano cominciati in città i primi “espropri proletari”: qualche gruppetto usciva dal corteo ed entrava nelle salumerie con le spranghe per prendere da mangiare gratis e rientrare confondendosi tra operai e studenti. Poi qualche gruppo mascherato e meglio armato aveva cominciato a razziare la cassa dei negozianti, ad assaltare i supermercati, e da quando erano cominciati gli espropri alle gioiellerie solo i più ingenui avevano continuato a pensare che quelle “azioni” fossero compiute da studenti universitari di buona famiglia.

Tre anni prima era stato ammazzato a sprangate un poliziotto, l’agente Annarumma, rimasto in una jeep assaltata da un gruppo di ignoti in via Larga, davanti al Comune. Da allora, nessuno che fosse in divisa restava più da solo: almeno in tre, questi erano gli ordini. E in quel furgone erano in dodici, Binda e Boncompagni gli unici in borghese in mezzo a quei giovani stravolti e affaticati. Non tutti credevano allo Stato, né amavano la divisa, ma fare il carabiniere era un modo per racimolare qualche soldo in un periodo di crisi economica e forse per trovare una parvenza di lavoro, chiedendo di restare nell’Arma con la “rafferma”.

«Il pacco l’ha visto una vecchia lavandaia. Dice che non dorme mai, e che stava portando in giro il suo cagnetto. Insomma, l’ha aperto e il suo grido ha svegliato la strada.»

«L’ha aperto? E se fosse stata una booomba?» domandò Boncompagni al giovane tenente che aveva appena parlato.

Binda sorrise: «Una bomba in quel vicolo è come il Duomo a Cesano Boscone, una cosa impossibile. Immagino che la signora si sia spaventata».

«È svenuta, ma per fortuna stava arrivando suo figlio. Si chiama Cesarino, Cesarino il tassista, ci tiene a essere chiamato così. Prima del turno va a far visita alla mamma, è lui che l’ha soccorsa, ha visto il pacco e ha chiamato i vigili, sapeva che il mattino bevono il caffè in un’osteria là vicino, e siccome i vigili erano al corrente del corpo senza testa trovato poco più avanti… Scusate, lo potete aprire o no un finestrino? Qui dentro si soffoca» chiese il tenente, togliendosi il berretto e mostrando una fronte alta e imperlata di sudore.

«Speriamo che la testa coincida» disse Boncompagni.

«E cioè?» domandò Binda.

L’anatomopatologo sembrava essersi trasformato in un oracolo: «Ci possono essere sempre due corpi senza testa e due teste senza corpo, è scientifico. Potremo dire che quella testa appartiene a quel corpo dopo aver fatto l’esame del sangue, aver visto la ferita eccetera eccetera» puntualizzò con voce stentorea. Gli piaceva avere una platea, e ora c’era un intero furgone di carabinieri a fingere d’ignorarlo.

Fatto il giro da corso Colombo, poi viale Gorizia, l’automezzo aveva spento la sirena e aveva imboccato la discesa che portava al vicolo. I due in borghese scesero e, arrivati al Fosset, dove sino a pochi anni prima qualcuno lavava ancora i panni a mano, videro troneggiare un pacco di cartone bianco, lucido e pulito. I curiosi fecero automaticamente un passo indietro, lasciando spazio ai nuovi arrivati. Mentre si avvicinava Binda si sentì osservato.

Dall’altra parte del Naviglio una donna lo fissava in piedi su una sedia. I suoi occhi, anche da lontano, sembravano profondi come pozzi e accesi come carboni. Una bella signora, ben vestita, ma con un paio di ciabatte ai piedi: e andava in giro con la borsetta di similcoccodrillo aperta.

«Non è che quella lì sa qualche cosa?» domandò.

«Chi, l’Alda? Non la conosce?» rispose uno della folla, scuotendo la testa.

«Non mi pare» disse Binda.

«La Merini, la poetessa.»

«Ne so quanto prima.»

Il dottore si alzò in punta di piedi per osservare meglio la donna, che adesso sembrava muovere le dita verso qualcuno sperso tra le nubi.

«Ha pubblicato molti anni fa, prima di star male. La curano al Paolo Pini» spiegò il dottore. «Soffre della stessa malattia di Hemingway e di Baudelaire: disturbo bipolare. Sono convinto che la spiegazione di molte vite un po’ irregolari dipenda dalla chimica. È scienza, i romantici dicano quel che vogliono.»

«Scrive bene?»

«Molto. Ed è anche una gran bella donna, no? Si dice che per lei abbiano perso la testa Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo… il premio Nobel, mica pizza e fichi. Ma cosa sta gridando, povera?»

La poetessa indicava il cielo e ripeteva un nome: Dino. Ora lo sussurrava, ora lo strillava, e quelle due sillabe gridate nel silenzio sembravano trasportate nel cuore della città dalla lenta corrente del Naviglio: «Dinoooo, Di-no, di-nooooo, diiiii nooooo!».

«Vai a sapere con chi ce l’ha. Chi è che dovrebbe dire no? Fantasie.»

Binda non rispose, ma immaginava che quel grido non fosse un’esortazione, “di’ no”, quanto piuttosto una specie d’invocazione, a Dino Buzzati: lo scrittore che tanto spesso, e con tanta attenzione, si era occupato dell’inspiegabile, portandolo perfino nella cronaca nera. Sul Naviglio ogni notizia correva veloce, più che in altri quartieri popolari milanesi: forse la morte del grande cronista era giunta alla poetessa, magari si conoscevano, chissà. Ma il pacco bianco era lì, e bisognava seguire le procedure. Il maresciallo distolse lo sguardo dalla donna e cedette il passo al dottore: «Avanti la scienza».

Boncompagni infilò le mani guantate nella scatola, sbrigativo, ed estrasse la testa mozzata. Era avvolta in una busta di cellophane, chiusa con un nastro per capelli dello stesso colore dell’abito indossato dal cadavere. Non era una testa di donna. Nessun dubbio: anche se era impossibile distinguerne i lineamenti, quel velo nero di barba non poteva appartenere a un essere di sesso femminile.

E c’era un altro particolare interessante: tutt’intorno al cranio c’era una sorta di ragnatela formata da piccole corde, come se la testa fosse stata avvolta nel bozzolo slabbrato di un baco da seta.

«Per me è la testa giusta» disse Binda.

Il tenente, che a due passi di distanza aveva seguito le ultime fasi, si portò la mano alla bocca.

«Anche per me coincide» confermò Boncompagni, aprendo la busta con una lentezza da bradipo.

«E la sua prova scientifica, dutur?»

«La prima cosa che uno scienziato deve saper fare è osservare. Li vede questi tagli, maresciallo? Ricorda il corpo appeso al Pont de Ferr? Chi ha lavorato sapeva cosa incidere e come. Un professionista. Preciso. Di recente m’è toccato un lavoro fatto dai catanesi. Porca miseria, che razza di trogloditi. A quel povero ragazzo… oddio, povero, era uno spacciatore con la villa a Santa Margherita Ligure… la testa gliel’hanno praticamente strappata dal collo, c’erano brandelli di pelle, briciole di ossa, carne maciullata… una roba da non credere, sembrava l’opera di una muta di levrieri affamati. Questo invece è un lavoro di fino. Preeeciso. Puuulito. Chiiirurgico. Non capisco di che materiale siano fatte le corde intorno alla faccia. Sembra budello, ma è meglio non toccare. Non vede qui? È come se avessero voluto imprigionare… orrendamente, tragicamente questa testa. Come una mosca nella ragnatela, diciamo. Ma il ragno dov’è? Eh, ne ho viste tante ormai in questa città, a Milano devo tanto, sia chiaro, e non smette di sorprenderci nel bene, ma anche nel male. Anzi, sa cosa continuo a domandarmi? Se per caso non sia qualcosa nell’aria, nello smog, in questa puzza di pneumatico lesso e di sudore, di gerani morti e di scarpe consumate, a far venire in mente alle persone nefandezze del genere.»

Il tenente raggiunse a larghi passi malfermi la balaustra e vomitò l’anima nelle acque magnetiche del Naviglio.