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«Passi lunghi e ben distesi»: la raccomandazione risaliva ai tempi della scuola sottufficiali, quando si marciava inquadrati. Ci sono abitudini che una volta acquisite sono difficili da perdere. Camminava, anzi marciava, come in una tappa forzata verso una meta troppo lontana, per una Milano attraversata da rari taxi gialli. Poche finestre illuminate nelle belle case di viale Majno. Un odore di muschio e di funghi arrivava dai giardini privati e dalle aiuole pubbliche: sembrava quasi di stare a Canzo, se si chiudevano gli occhi.

Mezzanotte. Quante ore erano passate da quando aveva letto la notizia della morte di Dino Buzzati? Duecento, trecento? Dal Naviglio a via Moscova, da via Melzo a via Conservatorio, adesso a piedi verso casa: la giornata s’era consumata in un attimo lentissimo.

L’attimo lentissimo era un concetto che Binda aveva tentato di affrontare sul serio, ragionandoci in poltrona, a luci spente, ascoltando sul giradischi le sinfonie di Beethoven, il più amato, o i concerti di Bach, il più stimolante per la fantasia, o di Brahms, il più rilassante. Ma, per quanto avesse meditato, non era riuscito ad andare al di là di qualche ben argomentata ovvietà sulla dilatazione del tempo nella percezione di chi lo vive. Gli sarebbe piaciuto interpellare qualche filosofo vero, qualche psicologo serio sul tema dello scorrere dei secondi durante le indagini… e anche, tutto sommato, durante la vita.

Ripensava al sabato appena trascorso, al cadavere decapitato e in abito color pervinca, alla testa avvolta nelle corde di violino, al branzino ricevuto dal vigile e dato al poliziotto che l’aveva aiutato, alla cartomante nella casa di ringhiera, a Gingerino con le sue parziali omertà e a Zimbalist con le sue vane polemiche, alla nebbia che s’era diradata. Aveva vissuto attimi intensi, ore intense. E quegli attimi, quelle ore, sembravano un presente continuo, un tutt’uno, ma dalle otto a mezzanotte erano passate sedici ore che l’avevano spossato, anche se poco prima, quando la visita al Conservatorio gli aveva regalato un bell’aiuto per le indagini sul fantasma del Pont de Ferr, si era risentito pieno di forze. L’attimo lentissimo andava spesso a braccetto con l’energia fuggente. Non pensava che potessero esistere i concetti di attimo fuggente e di energia lentissima, ma forse si sbagliava.

Da buon camminatore usava la strada per pensare e rilassarsi, e fece appena in tempo a chiudersi il portone alle spalle. Cominciava a cadere la sluscia, una pioggia fine che gli tenne compagnia battendo sui vetri della cucina durante una cena silenziosa a base di latte e pane secco. Qualche volta, quando stava da solo, placava così l’appetito e la necessità di riempire di sostanza lo stomaco, non c’era niente di meglio del pane che si ammorbidisce, conservando l’odore della crosta croccante e il sapore della mollica. Aveva rifatto alla bell’e meglio il letto matrimoniale, ci si sistemò con due cuscini e allungò la mano. Non c’era Rachele, il materasso vuoto gli sembrava sconfinato. Accese l’abat-jour e aprì il libro che stava leggendo, il Nerone di Michael Grant. Dopo poche righe sulla passione per il teatro del sanguinario imperatore romano, a cui piaceva interpretare come attore protagonista il ruolo di Oreste, anche lui matricida, gli venne on dormì de la quarta e nonostante la luce accesa crollò: si svegliò solo per un attimo, in un punto imprecisato della notte, al tonfo del pesante volume caduto dal letto.

La decapitata del Naviglio era il titolo dei quotidiani che lesse all’edicola, poco dopo le nove. Gli articoli parlavano del tragico destino di una sconosciuta e si lanciavano in ipotesi fantasiose. Sul “Corsera” veniva stigmatizzato «il silenzio di via Moscova». Un giornalista, Rainer Burlando, spiegava che c’era un onere e un onore, sia dei giornalisti sia dei carabinieri, di informare correttamente le persone. “Il Giorno” aveva una pagina intera dedicata alle donne uccise, rapite, scomparse negli ultimi dieci anni a Milano. Non avendo messo la sveglia, Binda aveva aperto gli occhi alle otto e mezza, un po’ tardi per le sue abitudini. Si sentiva riposato, l’aspettava una domenica di lavoro e non solo: nel pomeriggio sarebbero tornati Rachele e Umbertino, sapeva che alla moglie avrebbe fatto piacere se fosse andato a prenderli alla stazione.

Quasi senza lavarsi, s’era vestito ed era entrato nel bar sotto casa. Gli ci volevano un caffè doppio, bello forte, e una brioche fresca, con la crema pasticcera. Continuava a cadere dal cielo grigio una pioggia insistente e così sottile che sembrava passata attraverso un setaccio fine. Aveva molto da fare, ma tra l’assenza del sole e la lettura veloce dei quotidiani, tra una telefonata alla moglie e le chiacchiere del barista sui segreti di Andreotti, era rimasto per un quarto d’ora sullo sgabello, sgranocchiando un’altra brioche, che gli aveva sporcato i baffi di zucchero a velo. “E oggi” si era chiesto, “da dov’è meglio cominciare?”

Tornò a casa. Doccia, camicia bianca e ampia cravatta Pierre Cardin a fiori viola, giacca scura di velluto a coste. Una telefonata in caserma: i rapporti firmati da Bertacchi e Giudici e due paginette, con le note dell’autopsia redatte dal dottor Boncompagni, l’aspettavano sulla scrivania. I tre brontoloni avevano lavorato, ma il risultato delle loro fatiche, dopo l’incontro al Conservatorio con Miklos Zimbalist e il difficile dialogo con il ladro Gingerino, poteva passare in secondo piano. Si fece passare dal centralino, attraverso il ponte telefonico, Bertacchi. Dalla voce roca capì che l’aveva svegliato. «Scusami, sono Binda, cerca il tuo collega e mettiti dietro tale Capovilla Rosario. Non lo mollate, ha l’officina sotto la casa di Pasteur, passate dall’anagrafe per tutti i dati e dall’archivio per i precedenti. È un ladro d’auto, lavora con Spiridione.»

«Maresciallo, può ripetere, che al mattino ho la carburazione lenta?»

Con le foto di Pasteur chiuse in una busta, per non sgualcirle, e infilate in tasca, si diresse all’hotel Diana. Dal banco del concierge venne mandato al bancone del bar interno. Si presentò a un uomo dal cranio calvo come una mela, il volto avvizzito come una prugna, il naso bitorzoluto come un cavolo, una specie di Arcimboldo vivente, con tanto di cravattino nero e un marcato accento brianzolo: «Qui come sa i carabinieri sono i benvenuti, maresciallo» annunciò mettendosi una mano sul cuore, come nei giuramenti degli americani, prima di offrirgli il caffè con un cioccolatino fondente sul piattino.

A ogni domanda di Binda, il barman annuiva e non risparmiava dettagli. «Come no, il Fabrizietto, ma scherziamo? Bassino, magrino, origini francesi, cavolo, saranno dieci anni che beve il mio negroni, dice che come lo faccio io a Milano non lo fa nessuno, perché ci metto il vermouth. E scusi, ma ha combinato qualche cosa di grave? Qualche casino suo o della mamma? Proprio ieri notte è venuta un’altra persona a chiedermi di lui.»

«Ah, sì, e chi è?» domandò Binda, sorpreso.

«Un tipo notevole. Mi ha lasciato il biglietto da visita, aspetti che lo trovo… Ecco qui, Zimbalist.»

Sentendo il nome del direttore di sala del Conservatorio a Binda andò di traverso il cioccolatino.

«Mi ha chiesto se Victorjia e Fabrizietto si fossero visti qui, qualche volta. E gliel’ho confermato, sì, in effetti li ho visti. Erano seduti là, hanno bevuto una boccia di champagne.»

Il maresciallo era colpito, ma non voleva saltare frettolosamente alle conclusioni. «Aspetti, aspetti, andiamo con ordine. Dunque il signor Pasteur viene qui da sempre. Va bene. Ma viene spesso o raramente?»

«È un amico dell’hotel. Arriva il venerdì sera, di solito. Sempre per l’ora dell’aperitivo, due o tre volte al mese. L’ultima volta, però, sarà stato quindici giorni fa. Aveva portato finalmente una ragazza nuova, una rossa con la erre moscia e le lentiggini, e con un accento bolognese che faceva spaccare dalle risate.»

«Perché dice “finalmente una ragazza nuova”?»

«Eh, insomma, se si presentava con la stessa sguincia, non è che va sempre bene, porca trota, e gliel’avevano detto, di là, ma il francesino è un pigro.»

Al sentire il termine malavitoso “sguincia” il maresciallo cominciò a farsi un’idea diversa delle ragioni per cui Pasteur frequentava il bar del grande albergo internazionale di Porta Venezia. Ma per il momento decise di lasciar perdere e passò alla domanda per cui era venuto: «E con qualche cliente dell’albergo aveva intrecciato rapporti speciali? Lei l’ha mai visto con qualcuno, o con qualcuna?».

«Qui è un porto di mare, non posso badare a tutto e tutti, però aveva parecchi amici tra gli americani e i francesi. Se la faceva anche con gente degli Emirati, sono mussulmani che bevono volentieri qualche birra, e anche qualche rum, purché non li veda nessuno, si mettono in quell’angolo buio, vede? Fabrizietto beveva con loro, qualche volta.»

«E con i russi?»

«Russi? Perché, possono uscire dal loro Stato-prigione? Non ci sono russi qui, a parte qualche delegazione, o la violinista, e l’ho visto soltanto quella volta con lei, la volta dello champa…» L’espressione del barista cambiò all’improvviso. Il volto prugnesco si allungò ancora di più, in una smorfia che a Binda ricordò un quadro molto famoso, L’urlo di Munch. «Non mi dica che è stato lui a rapire la signora Novgorodova» esclamò.

Intorno a loro s’era fatto silenzio. Due clienti assomigliavano a cani da caccia con le orecchie tese, una ragazza aveva smesso di far girare lo stuzzicadenti con l’oliva in una coppetta da cocktail.

«Ma come le viene in mente?»

«… Lei è scomparsa, lui non s’è più visto, tutti oggi fanno i sequestri, anche i geometri, quindi non è che lui, dio canterino, è il basista?»

«Per carità. Non sospettiamo il suo amico Fabrizietto di complicità con qualche banda dell’Anonima, anzi con i calabresi e i siciliani non ha nulla a che fare, glielo dico e sottoscrivo. Piuttosto, torniamo alla signora russa e alla sua conoscenza con Pasteur. Mi faccia capire meglio» disse Binda.

Intorno a loro, le conversazioni erano riprese come prima. Un sottofondo di ghiaccio tintinnante, risate, sussurri, ordinazioni – «Tre moscow mule al tavolo sedici per i texani, due pomodori alle ragazze del sette, ma aspetta i club sandwich dalla cucina» – accompagnava le risposte del barista: «Quella sera si sono seduti vicini, hanno parlato fitto fitto e si sono scolati le bollicine, che lei ha fatto mettere sul suo conto. Poi l’ha salutato, lasciandosi fare un baciamano. È salita, immagino in camera sua. Era accompagnata a qualche passo di distanza dall’autista, come sempre, un brutto ceffo che non spiccica una parola d’italiano, manco “grazie” sa dire. Mentre lui, il Fabrizietto, è venuto al bancone, allegro e felice, come se avesse appena vinto al totocalcio».

«Cosa le ha detto?»

«Mi ha chiesto secondo me qual è il posto del mondo più bello dove vivere. Io gli ho detto che è l’Italia, ma non era d’accordo, diceva che ci sono delle isole che non conosce nessuno, le ha chiamate Maldive, mi sembra… insomma, ci sono queste isole dove fa sempre caldo e ci sono pesci meravigliosi, mi ha detto che bastano cinquecentomila dollari per affittarne una per novantanove anni e costruirci più o meno quello che si vuole. “Sì, ma i cinquecentomila?” gli ho chiesto. “Lasciami sognare” ha risposto, ma…»

«Non sembrava sognare, giusto?»

«Già, aveva più l’aria di un gatto col sorcio in bocca.»

Infatti, pensò Binda, Fabrizietto aveva un’idea in mente sul modo di spremere il più possibile dai misteriosi gioielli e aveva lasciato sul tavolo della cucina la cartina del Mar Arabico, dove, ci avrebbe scommesso, si trovavano quelle isole di cui non aveva mai sentito parlare. Un altro tassello andava a posto, ma il quadro d’insieme restava nebuloso. «E mi dica, in che rapporti erano la violinista e il nostro amico? Sentimentali, sessuali, di amicizia?»

Il barista scoppiò a ridere come se avesse di fronte Gino Bramieri in vena di barzellette. «Ma no, ma no, cavoli. Con il massimo dell’affetto, Fabri è un ragnet de plafon, un ragno da lampadario, piccolo e brutto, e lei… be’, solo a vederla camminare c’era l’albergo che sbavava. La guardavi e, non per essere volgare, te veniva la voja d’andà a pestà el lard, de fa andà la codega, e purtroppo nessun uomo poteva avvicinarsi alla russa se non altri russi. Infatti m’aveva proprio stupito la bottiglia di Pommery con Fabrizietto, ma lui m’ha spiegato che lavorando al Conservatorio, cosa che non sapevo, era stato invitato per parlare dei costumi di scena. Io pensavo che…»

«Cosa pensava?»

Il cranio del barista assunse un bel colore rossastro. Si grattò il naso, finì di guarnire con il lime alcuni margarita e di stappare una bottiglia di ribolla gialla… insomma, Binda impiegò dieci minuti buoni per aiutarlo a non nascondere un altro pezzettino di verità. «Qui, come le ho detto, arrivano clienti importanti, molti arabi, che a volte lontano da casa hanno bisogno di non sentirsi troppo soli, e Fabrizietto ha parecchie amiche con la voglia di guadagnare qualche soldo facile. Non si tratta di professioniste. Casalinghe, studentesse, qualche ballerina, spesso hanno mariti o fidanzati e qualcuno sa bene cosa fanno quando escono. È che con questa disoccupazione non è facile trovare un buon lavoro, c’è bisogno di arrotondare, e Fabrizio le aiuta: mette in contatto due bisogni, tutto qui. Infatti non viene tutte le sere, ma il venerdì, se c’è necessità…» Il barista si bloccò ancora, esitante. Ma aveva la lingua più veloce del cervello, e riprese: «Certo, ci sono clienti che cercano le prostitute professioniste, perché hanno bisogni un po’ particolari, o non vogliono perdere tempo. Altri, invece, desiderano andare a cena, magari a teatro, e poi, se succede, oplà… gli piace credere di avere un’avventura e sono ben contenti di pagare tutto e fare un regalo alle ragazze. Per me bisognerebbe organizzare un servizio di hostess alla luce del sole, ma tutti hanno paura della legge Merlin. È per questo che esistono persone come Fabrizietto. Noi dell’albergo abbiamo il dovere di accontentare sempre il cliente. E d’altra parte, come saprà, uno dei suoi superiori, il colonnello Casiraghi, ogni tanto viene da noi e si ferma a cena con il proprietario dell’hotel, un ex partigiano…».

«Il colonnello Casiraghi?»

«Ah, non lo sapeva? Eppure gliel’ho detto prima. Qui dentro per ordine del padrone collaboriamo attivamente con l’Arma, se no mica le parlavo, no? Altre domande?»

Ne avrebbe volute fare al colonnello, scapolo, chiedergli cosa andasse a fare al Diana. Ma non sarebbe stato intelligente infastidire quell’ufficiale, spesso impegnato in operazioni speciali. «Mi farebbe un altro caffè? Prima m’ha detto che, vedendo il Fabrizietto con la violinista, ha pensato qualcosa, ma poi s’è bloccato, e non l’ha detta.»

«È una mia idea, eh. Mi sembrava che lei, la violinista, volesse da Fabrizio i servizi di qualcuna delle sue girls. Non mi guardi così, maresciallo. Non certo per lei, ma per tenere compagnia ai russi che la seguono sempre. Infatti…»

«Infatti?»

«Qualche sera dopo, quando lei è scomparsa, i russi con chi stavano in camera? Con tre amiche di Fabrizio, mi sono spiegato? Però non le ho detto niente, maresciallo.»

«Ciumbia.»

«Signor maresciallo, la prego…»

«Non si preoccupi, l’Arma non tradisce. Anzi, sono io che le devo un favore. Ma nel frattempo mi servirebbe un altro piccolo aiuto. Lei conosce queste tre ragazze? Ho bisogno di parlarci. Nessuno passerà dei guai, non lavoro alla Buoncostume.»

«E dove?»

«Omicidi.»

«Hanno ucciso la russa? È stato il KGB

«Non posso dirle su cosa sto indagando.»

«Oh pover Crist, han massà il Fabri?» domandò l’Arcimboldo barista, ma senza altri commenti prese il taccuino e scrisse numeri e numeri, che evidentemente conosceva a memoria. «Omicidi» ripeté a bassa voce. Poi tese la destra col foglietto al visitatore e con la sinistra mimò il gesto di cucirsi la bocca.

«Posso chiederle un’altra cosa?»

«Ci mancherebbe, maresciallo!»

«Sono le 11 e quello lì ha già bevuto tre bicchieri con il gin.»

«E sa chi è? Un pilota di voli transoceanici. Uno su tre è alcolizzato o tossico, lo so perché dormono qua da anni, hanno fatto una convenzione speciale con il padrone. Cioè, se non ci fosse l’elettronica e il secondo pilota, ci sarebbe un incidente a settimana.»

«Ma le compagnie aeree lo sanno?»

«Quello che beve accanto al pilota è il manager per l’Italia.»

Con qualche nome e numero di telefono in tasca, Binda tornò dal concierge, che in francese e in inglese dava indicazioni agli ospiti. Impiegò un’altra ora per ricavare una sola informazione, forse utile forse no: «La signora Novgorodova è stata male dopo Natale, è rimasta in camera sua, impedendo a chiunque di entrare. Alla fine è passato un medico, di cui non abbiamo il nome, un uomo maturo, molto elegante, con un cappello nero e occhiali americani, i Ray-Ban. No, non saprei riconoscerlo, è stato qui due secondi, aveva fretta, è andato alla suite del quarto piano, è rimasto sino all’alba e se n’è andato senza nemmeno salutare. C’era un’auto che lo aspettava da ore».

Quell’uomo andava identificato. «Cosa ricorda dell’auto?»

Il concierge aveva una memoria di ferro. «Blu, con le tendine sui vetri, e m’è sembrato di sentire sbattere i tacchi quando il medico è arrivato.»

«Come facciamo noi militari?»

«Sì, m’è sembrato così, e al mattino alle otto è stata la signora stessa a rassicurarci sulla sua salute.»

«In che modo?»

Il concierge scartabellò un taccuino prima di rispondere: «Nulla di speciale. Ha telefonato dalla camera per dirci che stava meglio, il medico era stato bravo e nel pomeriggio ha chiesto che le fosse rifatta la stanza, più una sontuosa cena a letto, dopo le 21. Ha ordinato, leggo qui, tortellini in brodo, salmone in crosta, frutti di bosco, una bottiglia di barolo e una vodka. Ha mangiato e bevuto tutto. Nella notte, però, è successo».

«Racconti, per favore.»

«L’abbiamo vista uscire da sola, senza valigie, con un sorriso grande così e una sigaretta in mano, come se volesse prendere un po’ d’aria. Ma abbiamo già ripetuto tutto alla questura, al consolato russo, ai giornalisti… Come mai lei se ne sta occupando adesso?»

«Siete stati di grande gentilezza, riferirò al colonnello Casiraghi» mentì Binda, che chiese e ottenne di visitare la suite dove la violinista aveva alloggiato. Apprezzò il letto di legno massello intagliato, i comodini di ciliegio, un armadio con un grande specchio un po’ macchiato dalla ruggine.

Poi si fece un giro per l’hotel in stile liberty, pensando a come, in alcuni luoghi, la storia si rincorra in eterno: in quell’albergo, nel ’21, o nel ’22, in ogni caso prima della Marcia su Roma dei fascisti, c’era stato un attentato. Più di venti morti e un’ottantina di feriti. Era stata data la colpa agli anarchici, ma Stefano… no, Errico, Errico Malatesta, dal carcere, aveva parlato di “barbarie” e di come gli anarchici erano e dovessero restare umani. E comunque, domanda: potevano essere stati gli anarchici a portare nell’elegante e sorvegliato teatro Kursaal, e cioè al piano terra dell’hotel, circa duecento chili di candelotti esplosivi per piazzarli in un cestone coperto di paglia e bottiglie scolate? Passando del tutto inosservati? Difficile da credere: l’albergo era frequentato da un questore fascistissimo, un sansepolcrista che ce l’aveva con chiunque puzzasse di povero e di rosso. E poi, siamo seri: quasi cinquant’anni dopo quell’attentato, nel 1969, poteva essere stato davvero un ballerino anarchico come il Pietro Valpreda a portare la bomba in piazza Fontana? Ma chi poteva crederci? E come mai, nello stesso momento, erano state messe bombe anche a Roma e alla Banca Commerciale in piazza della Scala? Da quando in qua gli anarchici avevano una simile organizzazione sul territorio nazionale? Non risultava. Eppure chi stava in galera? Gli anarchici.

A forza di parlare, ascoltare e prendere appunti, gli era venuta una fame da spazza-baslott, ma i prezzi del ristorante dell’hotel mettevano paura, anche se forse gli avrebbero fatto un conto speciale. Solo i tortellini in brodo costavano settemila lire. Senza contare che la clientela, costituita in quel momento da due coppie sui quaranta che parlavano di Sudafrica, non ispirava simpatia. Preferì fare dieci metri ed entrare al Transatlantico, una pizzeria famosa per il servizio rapido e i prezzi onesti.

Ordinò una Napoli con doppie acciughe e una birra piccola, rossa, ghiacciata. La sorseggiò piacevolmente, pensando che lui non prendeva aerei, e che comunque gli incidenti aerei non erano tanto frequenti. Prima di dirigersi a casa di Lisette, la madre di Fabrizio Pasteur, accompagnato dal tepore di un sole finalmente capace di bucare la coltre di nuvole grigio-bianche, andò al bar Picchio a bere il caffè. Era frequentato da Pasteur e dagli inquilini di via Melzo, notò infatti la cartomante seduta accanto al biliardo, intenta a leggere la mano di un pensionato, e se la squagliò rapidamente.

Oltrepassò viale Regina Giovanna e arrivò in via Stoppani. Sul citofono non trovò il cognome Pasteur. Per fortuna una giovane coppia, dopo averlo studiato con sospetto, gli disse dove suonare: c’era scritto LEA MASSARI, il nome di un’attrice.

Salì due rampe di scale ed entrò in una delle case più buie che avesse mai visto da quando, per lavoro, aveva cominciato a bussare alle porte degli sconosciuti. O, talvolta, a buttarle giù.