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Alla Bocciofila si avvertiva quella che una volta suo padre aveva definito, per ridere, “l’audace sinfonia delle mandibole”. Chi mangiava panini con il lardo, i sottaceti e l’incioda, chi si gustava un piatto fumante di legumi, chi affondava la forchetta in un’insalata di aringhe, pomodori e scigula: i battellieri erano ormai spariti dal Naviglio, ma non il loro cibo. A Binda, però, era passato l’appetito.
Boncompagni, quel genio delle autopsie, aveva aperto il bigliettino con le mani: un medico! Uno che si occupa di morti ammazzati! Come se non conoscesse l’importanza delle impronte digitali.
Non che ci sperasse, ma non si poteva escludere un errore, anche minimo, dell’assassino – o dell’assassina. Il guaio delle indagini è che se chi le dirige non sta più che attento, ognuno fa bene il pezzettino di sua competenza e non pensa mai al pezzettino altrui. Binda aveva salutato bruscamente Boncompagni e il nodo allo stomaco gli si era fatto più stretto: “Un nodo d’anguilla” pensò irritato. E quel dottore malmostoso, poi, di notizie gliene aveva date solo due, il biglietto e la scritta in cirillico. E la terza? L’avrebbe letta nel referto dell’autopsia, Boncompagni era un professionista, anche se molto, molto dispettoso, si disse, tirando un leggero cazzotto sul bancone, quello che avrebbe voluto sferrare sulla zucca dell’anatomopatologo.
«Maresciallo, qualcosa non va?»
Parecchi vigili lo avevano riconosciuto – perché a Milano tra “operativi” ci si conosceva tutti, dopo un po’ di strada e di sangue che scorre, di pallottole che uccidono, di case che s’incendiano, di fughe dalle banche rapinate che lasciano una scia di lamiere ammaccate – e gli avevano offerto bianchini e caffè, come per dovere d’ospitalità in quel posto che consideravano una casa, ma Binda li aveva rifiutati. E ora intorno al maresciallo immusonito decine di vigili bevevano, mangiavano, ridevano rumorosamente: altro che casa, sembrava fossero a una festa. I nuovi arrivati prendevano il posto di chi era già sazio e alcuni, entrando con capienti borse della spesa, condividevano pesci, carni, frutta e verdura, come se si fosse tra fratelli e non tra colleghi. A Binda sembrava strano tutto quel passarsi pacchetti e pacchettini, mentre lui era là, fermo accanto al bancone, a curare il grande telefono nero come un innamorato geloso cura la sua fidanzata. Si rimirò allo specchio e l’immagine riflessa gli ricordò un racconto di Buzzati, molto breve, intitolato forse Gli scrivani. C’è una sala piena di gente che scrive, ma a uno a uno spariscono tutti: vanno verso la loro sorte, quale non si sa, si può solo immaginare. L’ultimo resta nell’immensa sala e continua a scrivere, a scrivere, a scrivere. Così come lui, Binda, continuava a cercare di sapere, a indagare, a sfoglià la margaritta, a…
Quando il telefono squillò rispose subito. Non era l’Istituto di medicina legale, ma l’appuntato Giudici che tossiva parole da un bar di Corsico: «Non ci credevo, ma devo ammettere che avevi ragione. L’abbiamo trovata, la canoa olimpica».
«Bravi! La canoa rubata alla Canottieri, ottimo! E dov’era?»
«La segnalazione di quella banda di ciucchi traditi era attendibile.»
«C’è anche il mantello nero, e l’ho trovato io» risuonò la voce del vicebrigadiere Bertacchi, ma Giudici continuò: «Proprio sotto il ponte di Corsico, in bella vista, attaccata a un vecchio moletto con un nodo strano».
«Ancamò» disse Binda.
«La stiamo facendo recuperare. Faremo attenzione alla minima traccia, maresciallo, ma la nebbia ha creato una patina di goccioline. È difficile che ci siano impronte, quindi…»
Il capo della Omicidi finì la frase per lui: «… quindi da lì non verrà fuori niente, a meno che…».
Giudici sbuffò platealmente all’altro capo della linea, ma non disse una parola: doveva aver capito che non era la giornata giusta per comportarsi da slandrone.
«A meno che» continuò Binda «appena finite le operazioni di recupero non andiate a bussare casa per casa, perché qualcuno avrà visto qualcosa, no? È impossibile che una scena simile sia passata inosservata. Un essere nerovestito su una canoa da gara! In ogni caso un Belfagor esiste ed è davvero passato sotto il Pont de Ferr. Un assassino o un testimone, chissà.»
«Maresciallo, questa storia comincia a mettermi i brividi. E pure al rugbista» disse Giudici. Il “rugbista” era Bertacchi, massiccio come un plantigrado, che qualche volta si presentava in ufficio con la maglietta bianca e rossa dell’A.S. Rugby Milano.
«Fatevi un bel cappuccino, ve lo offro io: vi riscaldate e i brividi passano. Ora che ci penso il capitano di Corsico è stato da noi in Moscova, alla Catturandi. È uno in gamba, andate a chiedergli se può darci qualcuno dei suoi di rinforzo, intorno a dove avete trovato la canoa ci sono una grande casa di ringhiera e una decina di condomini, magari qualcuno ha visto qualcosa che ci può servire.»
«Conosci anche Corsico?»
«Ho indagato su una ragazza segregata in casa dai parenti calabresi. Lasciamo stare, poveraccia.»
«Me la ricordo, la grassona. Se la facevano anche i cugini per duecento lire a botta.»
«Muccala, Giudici. Dunque sapete cosa fare. Appena avete finito di bussare alle porte mi chiamate. O sono qui, all’osteria dei ghisa, o sono andato in sezione.»
Appena mise giù, il telefono squillò ancora. Era il dottor Boncompagni, ora gelidamente formale: «Signor maresciallo, la pronuncia sarebbe dragosteen, più o meno. E significa “gioiello”, mi ha detto di riferirle il traduttore bulgaro».
«E il traduttore dov’è?»
«Al ristorante.»
«Come? Dove? Non ci posso credere!»
«Ma no, cos’ha capito. Fa l’aiuto cuoco, voleva riferire di persona, ma lei aveva sempre il telefono occupato.»
«Non sto mica giocando. Abbiamo trovato qualche nuovo indizio. A proposito, prima stava parlando di tre…»
«Nemmeno io gioco, ai due ciucchi s’è aggiunto un operaio precipitato dal quarto piano. Il suo bulgaro dice che torna a casa dopo le sedici. Poveraccio, il padrone è eritreo, minaccia continuamente di sbatterlo fuori. Quante ne ha passaaate, prima con i comuniiisti, adesso con gli immiiigrati africani… eppure è sempre gentile e sorridente, lui.»
«Gioiello, giusto?» ribadì Binda.
«E anche “cosa preziosa”, più generico. Quindi il rompicapo continua. E davanti al rompicapo umano, gentile maresciallo, la scienza si fa da parte: largo ai brillanti investigatori da marciapiede. Le farò arrivare in caserma tutti i dati al più presto e senza impronte digitali che inquinino la preziosa scena del crimine, indi per cui poscia, la saluto» disse Boncompagni, e troncò la comunicazione.
“Un po’ una testa di cavolo” pensò Binda, mettendo in fila le ultime informazioni.
Dragosteen. “Gioiello”, “cosa preziosa”. Un bigliettino scritto in cirillico e infilato nella bocca di un uomo ammazzato. Plateale. Alla colossale, macabra, allusiva messa in scena si aggiungeva una mossa che l’assassino non poteva aver improvvisato. Al contrario, tutto sembrava studiato con cura, con precisione maniacale. A beneficio oppure a danno di chi o di che cosa? Il vociare dell’osteria gl’impediva di pensare: il juke-box in sottofondo, che stava mandando una canzone di Yves Montand, forse Ainsi va la vie, e un omaccione che passava di tavolo in tavolo proponendo, quasi imponendo l’acquisto di piccoli quadri a olio in cambio di qualche biglietto di banca o dell’offerta di un piatto sostanzioso, caffè e ammazzacaffè. «I me quader alimentar» diceva.
Il telefono squillava ancora. Binda rispose e trasecolò sentendo la voce del Wanda. «Maresciallo, noi in caserma con questi bei ragazzoni meridionali stiamo benissimo, ma abbiamo deposto. Tutti quanti, nuotatori compresi. Però ci dicono che se non viene lei a chiudere i verbali non possiamo menar via le tolle, e oggi la nostra compagnia ha serata piena alla Briosca… Amapola, dolcissima Amapola…»
«’rivo, muccala lì.» Appena posò la cornetta l’oste si sistemò gli occhiali sulla fronte e gli servì senza indugio e senza aver ricevuto alcuna ordinazione un bicchiere di bianco dell’Oltrepò: «Offre la casa. Lei è peggio della SIP, però adesso, e lo dico per lei, damm’atrà, pausa, stop! L’è smort, si vede che ha preso freddo. Non gradisce la nostra specialità, una bella fetta di reale di puledrino al sangue?».
“Il sangue oggi no” pensò Binda. Una minestra di riso, patate e verdure lo riscaldò mentre uno dei due vigili che l’avevano accompagnato all’osteria gli appoggiava sul tavolo un bel branzino di un paio di chili avvolto nella carta bianca. «Maresciallo, purtroppo stasera non sono a casa, ho scoperto che c’è una festa a sorpresa all’Elefante Bianco e adesso devo correre al lavoro, sono di turno davanti all’MSI, c’è manifestazione, timbrano il cartellino ogni sabato, porca vacca, e i miei compagni sono già a posto per il pranzo domenicale, perciò lo prenda lei, mi farebbe piacere…»
«Ma è enorme… e quanto le devo?»
«Nulla, via, scherza? A me l’hanno regalato.»
«Un pesce? E chi gliel’ha dato?»
«L’amico pescivendolo di piazza XXIV Maggio, tanto non lo vendeva più. In questo quartiere, caro il nostro maresciallo, siamo tutti amici, ci piace andare d’accordo e speriamo che anche a lei piaccia andare d’accordo con i vigili… o no? E non si permetta di pagare, eh?» Si voltò verso l’oste. «Nando, abbiamo qui un pezzo grosso, è un onore averlo con noi, quindi trattamento di serie A.»