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Capelli più lunghi del solito, barba nera di una settimana, jeans amaranto di velluto a costine lucidi sul sedere, un giubbotto a scacchi che sembrava la coperta di un cavallo da trotto, il vicebrigadiere Bertacchi poteva essere confuso con uno dei “cinesi” che passavano le giornate e le notti nel quartiere di Brera, arrangiandosi con piccoli commerci di orecchini, compravendita di dischi d’importazione e abiti usati. Smozzicando un panino, s’era seduto al centro della stanza della sezione Omicidi per mettersi verbalmente a rapporto. «Maresciallo, non ce la faccio più.»

«Tocca resistere.»

«Anche oggi, come ieri, nessuna novità per il Capovilla Rosario. È in officina a lavorare, come ieri e come l’altro ieri. E se n’è stato, come ieri e come l’altro ieri, per conto suo, diavolo d’un ladro. Per me s’è accorto che lo teniamo sotto controllo, s’è messo a pulire una dozzina di batterie, anche se nella casa di via Melzo non si parlava d’altro che del povero Fabrizio morto in quel modo. Oggi il “Corriere” se lo strappavano di mano in mano, finché è arrivata la mamma del morto.»

«La francese?»

«Ha lanciato un urlo da brividi, è ammutolito tutto il condominio.»

«E Capovilla?»

«L’ha baciata e abbracciata, le ha dato dei soldi ed è tornato in officina, con la sua faccia da gufetto, in mezzo alle batterie usate.»

«Quindi non abbiamo alcuna indiscrezione?»

«Zero, maresciallo. Secondo me soltanto lei, se va a far visita di notte alla cartomante strappamutande, può scoprire qualche cosa.»

«Non mi fai ridere, Bertacchi.»

«Tocca resistere. Da quando le ha dato il numero di telefono l’avrà cercata una decina di volte, su, non è poi così brutta, non può farla felice?»

«Muccala, Bertacchi. E gli Spontini?»

«Uguale. Hanno letto il giornale e hanno continuato il loro tran tran. Allo stato dell’arte, non ci resta che una bella perquisa generale, no?» chiese il vicebrigadiere, che non poteva certo definirsi un uomo di pensiero.

«Non si cambia tattica. Noi vogliamo sapere chi è l’assassino del magazziniere e capire cosa è successo alla violinista. Cerchiamo degli sconosciuti, a loro volta a caccia di gioielli, e se si accorgono che abbiamo una pista e che ci giriamo intorno non li vedremo mai più. Sempre ammesso che siano ancora da queste parti, questi ci possono scappare come topi dalla nave che affonda.»

«“Questi” chi?»

«Non lo sappiamo, perciò stiamo acquattati ad aspettare una mossa che c’insospettisca.»

«Lei ha un informatore che noi non conosciamo.»

«Non posso negarlo, ma non è questione di sfiducia, l’informatore non è mio e mi è stato vietato di parlarne con chiunque, anche con voi. Ed è sparito.»

«Farina del sacco di Casiraghi, ci scommetto. Allora, ritiro ogni domanda, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare, per cui poscia che s’ha da fare?»

Be’, in fondo Bertacchi sapeva anche pensare, si disse il maresciallo. «Tu e il tuo amico avete il vostro compito, non mollate il nostro Rosario-Gingerino: è l’unico filo e bisogna stargli dietro ventiquattr’ore su ventiquattro.»

«Però sono scoppiato, maresciallo. Sul serio, quel pazzo di Giudici m’impesta con le sue sigarette e straparla di Juliano e Altafini e non ha mai sentito nominare i Led Zeppelin. Non c’è dialogo… E lei, invece? Come mai è così elegante e profumato a quest’ora del pomeriggio? Va a divertirsi? Beato lei che può.»

Era simpatico o antipatico, Bertacchi? Binda se lo chiedeva da tempo, ma di una cosa era certo: non sempre valeva la pena di rispondergli. Bisognava tuttavia mantenere rapporti civili con i sottoposti. «Non devo fare molta strada, ho ricevuto un invito che spero sia utile alle indagini, vado all’ultimo concerto che la violinista sparita avrebbe dovuto tenere all’Angelicum.»

Bertacchi si soffiò il naso nello stesso tovagliolino di carta che aveva usato per avvolgere il panino gorgonzola e salame Milano, ne controllò il contenuto, lo appallottolò e si decise ad aggiungere: «Faccia attenzione, è il contrario dell’Angelicum, è il Diabolicum. Dopo la guerra era il covo dei francescani rimasti fascisti. Lo sa, vero, che quei figli di mignotta nascosero là la salma del Duce?».

Sì, Binda lo sapeva, gliel’aveva raccontato uno dei trafugatori in persona, Giorgio Muggiani, che a diciassette anni era andato a combattere a Salò e che adesso, con un eskimo bianco, partecipava alle manifestazioni della destra, alla testa del suo Comitato Tricolore. Era stato lui, finita la guerra, a disseppellire con altri il corpo di Mussolini, perché a centinaia andavano a pisciarci e a sputarci sopra. Li avevano arrestati per vilipendio di cadavere. «Ma se era il contrario, noi abbiamo difeso il Duce dal vilipendio» gli aveva detto Muggiani un giorno che si erano incontrati nella chiesa sconsacrata di San Sisto, all’inaugurazione di una mostra dello scultore Messina. «E infatti al processo siamo stati assolti, ma siccome io avevo in tasca delle lire false sono stato tenuto a San Vittore per tre mesi, così la democrazia è salva.» Gli venne da sorridere, pensando al Muggiani tutto d’un pezzo e alle sue storie, mentre percorreva via Moscova.

Il direttore di sala del Conservatorio l’aspettava nel piazzale della chiesa, accanto alla statua di san Francesco che volta le spalle ai passanti e parla agli uccelli. Nelle ultime due settimane sembrava ulteriormente ingrassato. I piedi scomparivano sotto la circonferenza della pancia. Lo smoking, lo stesso che indossava quando s’erano incontrati la prima volta, non si chiudeva più, le bretelle e la fascia formavano una sorta di giubbotto sbilenco, i lunghi capelli erano spettinati e folte chiazze di una barba rossiccia, perfettamente rasata sul volto da luna piena, comparivano sotto la linea della mandibola.

Binda si sorbì un’onda d’urto di angosce e lacrime. Zimbalist citava interi stralci degli articoli più truculenti; aver letto sul “Corriere” la triste fine di Pasteur gli aveva fatto recuperare un po’ di memoria: «La nostra Victorjia Novgorodova in quest’ultimo viaggio aveva voluto solo Pasteur per curare i suoi abiti di scena, i suoi abiti russi… Non voleva nessun altro. Sarà stato che il povero Fabrizio parlava francese».

«Magari c’erano altre ragioni» disse Binda. Poggiò delicatamente la mano sulla massa adiposa delle spalle del direttore di scena: «Perché mi ha taciuto dell’interesse della signora per il magazziniere?».

I piedi di Zimbalist s’incollarono al suolo, come se una calamita volesse attirarlo al centro della Terra, e le mani si aprirono in un gesto papale: «Maresciallo, assolutamente, è che la signora Novgorodova è una cosa, e Pasteur un’altra».

«Lei dice? Eppure quel misero magazziniere è andato all’hotel Diana a bere champagne con lei, non lo sapeva?»

«Champagne…» balbettò Zimbalist.

«Non dica le bugie ai carabinieri, che poi si arrabbiano. Voglio aiutarla a rinfrescarsi la memoria. Non è che anche lei è andato al Diana a far domande, appena dopo la mia visita? Ha per caso cambiato mestiere? Niente concerti e pentagramma, basta note e spartiti, adesso si mette a farmi concorrenza come detective?»

A Zimbalist mancò il fiato. Dovette respirare a bocca aperta per qualche istante prima di ritrovare un filo di voce: «Ho cercato di vederci chiaro… Ho sbagliato?».

«Chi le fa le indagini, i carabinieri o i musicisti?» domandò Binda, quasi schiodandolo dalla piazza per portarlo all’ingresso dell’Angelicum.

«Si metta nei miei panni, maresciallo.»

«Mi starebbero un po’ larghi.»

«È arrabbiato, lo capisco, ma da quando è venuto al Conservatorio mi sono piombati addosso tutti i dubbi del mondo. Pasteur, pace all’anima sua, stava al piano interrato, e lei, la ’Torjia era una donna in vista, illuminata dai riflettori di tutto il mondo, e quindi…»

«Non mi racconti daccapo la favola della Cenerentola di talento.»

«No, lei non ha mai conosciuto Victorjia, non immagina che persona dolcissima sia, quanto ci ami, quanto ami Milano e le nostre sale. È venuta al Conservatorio cinque volte in tre anni.»

«Sono tante?»

«Tantissime, per un’artista del suo livello. Per dovere d’ospitalità in ogni tournée l’ho invitata a uscire con me, a venire nei migliori salotti, ma ha accettato solo una volta. Mi aveva confidato che poteva suonare fuori dall’Unione Sovietica solo rispettando un rigido protocollo, e poi cosa vado a scoprire? Che beve champagne con il magazziniere!»

«Se è per questo» replicò Binda, deciso a giocare a carte scoperte, «era riuscita a procurarsi tramite Pasteur alcune accompagnatrici per i suoi guardiani, in modo da fingere un malore e potersela squagliare indisturbata. La sua ingenua amica ha studiato una mossa da vera professionista del crimine. Ho parlato con le ragazze e me l’hanno confermato: sono state ingaggiate da Fabrizio, pagate in dollari da Victorjia e hanno finto di essere turiste in cerca di emozioni forti. E si sono divertite: “Sarà stata la vodka, ma abbiamo passato la notte a ridere, più che a fare altro” m’hanno detto. Intanto però i guardaspalle del KGB li hanno messi fuori gioco.»

«Se lo dice lei ci credo, ma è stata Vicky ad architettare questo? È impossibile, mi dia retta.»

«Ma lei si è mai spiegato le ragioni di questo grande amore della violinista per la nostra Milano?»

La risposta non fu adeguata all’importanza della domanda. «Naturalmente sì: per scaramanzia.»

«Ma via, una star del genere che crede nella fortuna?»

«Se è per questo, Toscanini…»

«Lasci perdere, torniamo alla violinista. Mi parli di Victorjia e dei concerti di Milano, senza cincischiare.»

«Va bene, non se la prenda con me… Posso dirle che ha sempre scelto noi del Conservatorio come prima tappa delle sue acclamate tournée europee. Diceva… No, dice, Victorjia dice, Victorjia è viva e dice che noi di Milano le portiamo fortuna, che deve tutto il suo futuro al Conservatorio di Milano e ai milanesi che amano la Russia. Una volta mi ha confidato che a Mosca aveva amato un milanese, che non lo vedeva più, ma che lo avrebbe rimpianto per tutta la vita.»

«Quindi è stato un amore romantico a conficcarle la città nel cuore?»

«Perché no? Amare non significa forse correre con il cuore verso l’oggetto amato? È proprio per questo che non mi capacito di quel che è successo. Puff, dissolta! E noi, maresciallo, siamo rimasti qui a capire, a cercare, a soffrire.»

«A soffrire…» sottolineò Binda. Rimase in silenzio per qualche istante, poi si avvicinò al direttore di sala e domandò: «Che lei sappia, la signora voleva lasciare clandestinamente la Russia e scappare a gambe levate dalle grinfie del Cremlino? Gliene ha mai parlato?». Zimbalist diventò rosso come un peperone: una risposta più che sufficiente. «Forse lei pensa che noi carabinieri siamo tardi di comprendonio, come quelli delle barzellette: è tipico di chi si mette nei guai. La prossima volta che m’inganna la porto in caserma. Non mi dica più la minima bugia o fa i conti con la legge.»

Dovette interrompere bruscamente il profluvio di scuse del direttore di sala. Aveva bisogno di un po’ di silenzio per ricapitolare: dunque, la celebre violinista, la “dea”, voleva probabilmente mettere ai piedi le ali di Mercurio e squagliarsela. Per farlo aveva accettato di contrabbandare i gioielli. Cosa se ne poteva dedurre? Aveva cercato lei di rubarli? Aveva ordito lei quella trama internazionale? Per quanto potesse essere scaltra e intelligente, come aveva dimostrato facendo arrivare le sguincie ai suoi custodi per neutralizzarli, il maresciallo faticava ad accettare che un’artista, dedita anima e corpo al violino, potesse avere le stesse capacità di quel coacervo di ladri, mercanti di pietre preziose, agenti segreti, poliziotti corrotti… e “uno di Milano”.

«Caro Zimbalist, la smetta di giustificarsi, le do una possibilità. Chi sarebbe questo amante di Milano?»

«Glielo giuro su quanto ho di più caro al mondo, non me l’ha mai detto.»

«E come faccio, su quasi due milioni di persone, a trovare il Romeo della nostra Giulietta?»

«Si tratta di uno che è stato in Russia. Quanti saranno? Secondo me, non più di diecimila» considerò Zimbalist, continuando a guardare il carabiniere con un misto di pena e apprensione.