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1972

Come se non volesse nemmeno guardare in faccia l’uomo che, rimanendo alla Omicidi, aveva snobbato la sua offerta di collaborazione, il colonnello Ulisse Casiraghi impartiva le sue istruzioni tenendo gli occhi bassi su un fascicolo sottile come una banconota. «Binda, ascolta, tra un’ora esatta dovrai incontrare al bar delle Cinque Vie un bel tipo. Un russo, dice di essere un consulente aziendale. È una frottola, è del KGB. Anzi, per dirtela tutta dovrebbe essere il capo delle operazioni nel quadrante Nord dell’Italia. Non è un amico. Ma nemmeno un nemico.»

«Un ibrido.»

«Risparmiami le spiritosaggini. In Italia camminiamo tutti sulle uova, anche la CIA. Siamo diventati una specie di terra di confine tra Est e Ovest. Questo non ti sfugge, vero?»

«Comandi, colonnello, ma…»

«Ma, ma… ma cosa?» alzò la voce il colonnello. La sua voce echeggiò nell’ufficio spoglio come la cella di un frate trappista. Non c’era nulla a parte la scrivania e lo schedario in cui, secondo la leggenda, l’ufficiale catalogava tutto ciò che nelle sue operazioni speciali antimafia e antiterrorismo veniva taciuto all’autorità giudiziaria. Nomi, persone, aziende: storie che, grazie alla sua capacità di collegare tra loro i fili più disparati, avrebbero fornito linfa alle indagini future.

«Io mi occupo di comuni morti ammazzati. E non di spie» ribatté Binda, senza dissimulare l’orgoglio per la sua scelta professionale. Considerata al ribasso dal colonnello, ma una scelta di relativa libertà e, soprattutto, di rispetto per se stesso per il maresciallo.

«Appunto. Non ti stai occupando anche di quel morto senza testa e di quella testa senza cadavere sui Navigli?»

Binda restò di stucco: il colonnello l’aveva davvero chiamato per aiutarlo nelle indagini, e non per farsi aiutare in una delle sue operazioni sotto copertura? Il KGB aveva trovato una relazione più precisa tra la celebre violinista scomparsa e il traffichino Fabrizio Pasteur? Ma come, se il nome di Pasteur sui giornali non era mai uscito?

Le sue domande inespresse trovarono spiegazione immediata, per quanto lacunosa. «Quel poveraccio smembrato interessa al russo. O ucraino, o estone che sia. Abbiamo provato a identificarlo, sembra essere nato nella metà delle repubbliche socialiste… Comunque, tu aiuti lui e lui aiuta te: me lo ha giurato sulla memoria di Lenin. Ma fai ballare l’occhio» aggiunse Casiraghi, continuando a leggere il fascicoletto dalla copertina color nocciola. «Diffida sempre. Non è un amico, non è un nemico, non è nemmeno un ibrido, è uno che vuole farsi gli affari suoi, esclusivamente gli affari suoi, come ogni spia.» Binda sospirò. Casiraghi lo ignorò bellamente, e proseguì la spiegazione sottolineando a matita qualche parola su una fotocopia: «Questo del KGB voleva parlare con me, ma non ho tempo né voglia, ho già le mie rogne con ’ste teste di frittella degli studenti. Ce ne sono a centinaia che vogliono rifare la guerra civile».

«L’è impussibil.»

«Dammi retta, ci aspetta almeno un decennio di casini a iosa. Come se non mi bastassero e avanzassero i morti ammazzati per la politica e la mafia, e poi c’è ’sto Andreotti, e se non è capace manco lui di fare un governo, si andrà di nuovo a elezioni anticipate, lo capisci… Perciò veniamo a noi. Se uno spione del livello di Stavrogin ha accettato subito di mostrare il suo volto a uno sconosciuto, e non a me, con cui esiste da tempo un rapporto diciamo di buon vicinato, la lettura è una sola. È in crisi. Ha bisogno come l’aria di noi carabinieri. Perciò forza Italia, Binda.»

«Stavrogin? Colonnello, comandi, ma non è un personaggio dei Demoni di Dostoevskij?»

«Già» ghignò l’ufficiale, guardando per la prima volta il suo sottoposto negli occhi e aggiungendo, con un lampo di sadismo: «È il personaggio più ambiguo dei Demoni e la cultura è così utile per le indagini… Gente di mano se ne trova quanta se ne vuole, tutti sono capaci di fare Clint Eastwood, ma a me serve gente di pensiero, quando ne trovo qualcuno, che poi vuole andare per la sua strada, mi rassegno a fatica, ma mi rassegno. Puoi salutarmi e levarti dalla mia vista, tovarich Binda».

Uscendo con il suo carico di perplessità dall’ufficio del colonnello e ritrovandosi nel piazzale della caserma, Binda sentì un rumore di passi affrettati e si girò di scatto. L’aveva raggiunto uno sconosciuto. Alto, con un giubbotto di pelle nera, radi capelli biondi, occhi azzurri, scarpe a punta e un mezzo toscanello acceso in mano. Gli dava l’idea, dall’abbigliamento e dal taglio dei capelli, di un estremista di destra. «Maresciallo, scusi, lei non mi conosce, sono Rainer Burlando del “Corriere”.»

«Con i giornalisti non parlo» rispose Binda, riprendendo a camminare verso l’uscita. Non poteva permettersi di far tardi all’appuntamento con il russo.

«Mi ascolti solo due minuti, per favore. So una cosa. Che sul Naviglio, appeso sotto il Pont de Ferr, c’era un uomo e non una donna, come avete detto voi.»

Binda rimase interdetto. Ancora una fuga di notizie. Odiava quelli che un amico poliziotto, non poco ignorante ma di sicuro talento, aveva chiamato “i fuggitori di verbali”. «Ho letto la sua lezioncina sulla verità, ma non posso confermarle o smentirle nulla.»

«Non conosco il nome del morto e non voglio intralciare le indagini, però potrei scrivere lo stesso un bell’articolo.» Quel discorso andava a parare solo in una direzione, pensò Binda, confortato dalla frase successiva: «Però posso rinunciare, se non appena si potrà scrivere avrò la possibilità di essere l’unico a dare la notizia. Se mi aiuta, maresciallo, vado dal capocronista e mi prendo la responsabilità di aspettare. Se invece non vuole ragionare, allora non garantisco. Quello che mi chiedono di scrivere scrivo, è il mio lavoro».

«Lei è al di sopra della legge?»

«No, sono un giornalista, amicus omnibus, amicus nemini, amico di tutti e di nessuno, e la legge della notizia per me vince su tutte le altre. Non vorrei danneggiarla, ma nemmeno rimetterci. Facciamo così, non scrivo. Però mi promette che si ricorderà di me?» disse Burlando, tendendo la mano al maresciallo.

Binda la strinse malvolentieri, ma la strinse. «Fate sempre così, voi giornalisti?»

«Così come?»

«Non voglio dire parole sbagliate, comunque apprezzo che abbia parlato chiaro. Deligere oportet quem velis diligere

Avvertì su di sé lo sguardo vacuo del cronista di nera. Anche se aveva buttato lì una frase in latino, non lo conosceva. Allora tradusse: «Bisogna scegliere chi si vuole amare. L’ha detto Cicerone. E non vale solo per le questioni di cuore. Da che parte sta?».

«Dalla parte del mio lavoro.»

«Bravo. Nel frattempo posso chiederle un favore? Mi porta in ufficio le copie degli articoli su Victorjia Novgorodova, la violinista scomparsa?»

Rainer Burlando strabuzzò gli occhi celesti in un’espressione d’intesa. «Il caso è collegato?» chiese lasciando trasparire la soddisfazione per un possibile scoop.

«Non lo so, in questo preciso istante ho deciso di darle fiducia, spero di non sbagliarmi.»

«Il colonnello Casiraghi può garantire per me, piuttosto la morte» esclamò il cronista, portando la destra alla fronte come in un saluto militare, bruciacchiandosi con il sigaro.

«Arrivederci» disse Binda, trattenendo le risate e portando anche lui la mano alla fronte. Abbottonò il giubbottone pesante. Quanti “amici” aveva il colonnello a Milano? Il proprietario del Diana, il giornalista del “Corsera”, chi era davvero Casiraghi?

Uscì dalla caserma. Stavano tornando la nebbia e un po’ di mal di testa. S’incamminò verso corso Garibaldi, in via Mercato avrebbe preso il tram per Cordusio. Come sempre, si distrasse ascoltando i discorsi dei viaggiatori. Quel pomeriggio, anche se i sedili erano affollati, nessuno discuteva, a parte una madre e una figlia che parlavano male ad alta voce, come se fossero sul divano di casa, di una loro cugina: «Cioè, puoi lasciare un fidanzato come il dentista, che ha anche la villa di famiglia a Rapallo, per metterti con il tuo ex professore di greco? Secondo me erano già andati a letto quando c’è stata la gita scolastica al tempio di Selinunte, dove noi delle terze liceo abbiamo recitato Le troiane e lei Le troiette…».

«Ma come parli? Per fortuna fai legge, dovresti sapere che non si calunniano i parenti.»

Doveva scendere e non poté ascoltare la fine della storia. Il dolore, concentrato dietro l’orecchio destro, stava crescendo d’intensità. Superò la sede milanese della Banca di Roma e arrivò a destinazione nella piccola, lunga e stretta sala del bar di via Moneta. Anche l’insegna era minuscola e quasi invisibile. Lampeggiava di rosa appena sopra una porticina di vetro zigrinato, con una maniglia d’ottone.

Erano le sei meno cinque di un gelido pomeriggio di metà febbraio a Milano, ma sembrava che in quel “trani” frequentato da malandrini e contrabbandieri di valuta fosse entrata una tigre affamata e non Pietro Binda: tutti smisero quasi di respirare e restarono immobili.

I cinque avventori più vicini, seduti accanto alla porta a vetri, tenevano gli occhi bassi, come se avessero appena scoperto d’avere le scarpe luride, mentre due sessantenni in cappotto di cammello, uno con i capelli lunghi sul collo, l’altro con una cravatta gialla all’uncinetto che s’allargava su una camicia nera, all’ingresso dell’investigatore si scrutarono per un lento attimo e all’unisono, chiedendo platealmente permesso, se la squagliarono ad ampie falcate verso via Santa Maria Fulcorina, tenendo le mani nelle tasche, gonfie di chissà quali materiali clandestini.

Potendo cercare, in quel bar si sarebbero trovate banconote provenienti da tutto l’orbe terracqueo, orologi svizzeri, medicinali del Vaticano. Alle orecchie di Binda era arrivato anche il classico «Piove», che voleva dire “puzza di sbirro”. Considerati l’ora e il posto, il suo incontro con la spia russa Stavrogin sarebbe stato tutto meno che segreto.

Un napoletano con un ciuffo alla Little Tony e un gilet di velluto nero con fili d’argento degno dei Rolling Stones era ufficialmente il barista. Con una cortesia non distante dalla presa in giro accorse dal nuovo cliente con un bicchiere di vino e un piatto coperto di tovagliolini di carta: «È la specialità del locale, il mio tramezzino uova e alacce, sono le acciughe di Pantelleria, e come si mangiano qui non si mangiano nemmeno in Sicilia». Il rockettaro s’era dimenticato di magnificare l’altra specialità del locale, i dollari e i franchi svizzeri, per cui era stato più volte portato in caserma – e due volte interrogato da Binda in persona. Era accaduto durante le indagini sullo strangolamento di un agente di cambio, ammazzato non dai suoi clienti con i soldi all’estero, come pretendeva la moglie, ma da una bella prostituta torinese, che ogni due giorni prendeva il treno e andava a trovarlo per seguire un copione sempre identico: lui, finito di mangiare, leggeva e sottolineava i listini sul “Sole 24 ORE” mentre lei eseguiva un lavoretto e poi prendeva le quindicimila lire che lui le aveva lasciato in un portacenere, il tutto senza mai parlarsi. Ma alla fine era stata detta una frase di troppo.

Con un cenno del capo il maresciallo ringraziò e cominciò a mangiare in un silenzio degno della sala d’attesa di un dentista, finché il barman del crimine canticchiò all’improvviso Time Is On My Side. Gli si era avvicinato per indicare sul marciapiede di fronte un trentenne elegantissimo, basso e magro, dal naso perfetto, con cappotto blu, capelli biondi che parevano scolpiti come nelle statue degli antichi romani, una morbida sciarpa bianca e scarpe talmente lucide che sembravano di metallo: «Il tramezzino e il calice di rosso sono offerti dal signore che l’aspetta fuori».

Uscendo da quel Kriminalbar, Binda sentì che alle sue spalle il vocio interrotto riprendeva, e fece ancora in tempo a cogliere una parola: «Sbirro».