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Il medico smise di poetare sulla testa mozzata. Bisognava prestare soccorso al giovane ufficiale, e qualche istante dopo anche al carabiniere forforoso che si era sentito mancare. Non pochi, nella piccola folla che s’era radunata intorno agli investigatori, erano ulteriormente arretrati di qualche passo: una sbirciata a quel macabro reperto era stata sufficiente a scoraggiare i più curiosi. Solo un giovane pelato, con gli occhi talmente scuri da sembrare bistrati, riportava su un taccuino le sue osservazioni, avvicinandosi voluttuosamente alla testa e alla scatola: forse un altro giornalista, o forse un maniaco che aveva trovato nel giornalismo, o nella narrativa, uno schermo per muoversi indisturbato in mezzo alla morte altrui.

Il maresciallo Binda non aveva tempo né voglia di identificarlo. Osservò l’orologio come se fosse un insetto fastidioso: aveva un sacco da fare. Decise d’impartire le altre disposizioni: «Dottore, mi scusi, può provvedere lei al trasporto della testa all’obitorio?».

«Veramente…»

«Su, le faccio portare la macchina da uno dei miei. Se mi dà le chiavi…»

«Lo trova l’autista? So bene cosa si dice della Prinz, l’ho comprata apposta per non farmela ciulare» scherzò l’anatomopatologo lanciandogli le chiavi. I giovani pensavano portasse sfiga, nessuno ci sarebbe salito a bordo: il massimo della sfiga era una Prinz marrone con tre suore a bordo. A Milano equivaleva a disgrazia epocale assicurata, e la sua sola vista generava un ampio corredo di plateali scongiuri.

«Mai stato superstizioso. Ci basta e avanza la realtà, dottore» rispose Binda.

«Allora siamo in due.»

«Quindi se lei porta via la testa, nel frattempo i vigili del fuoco possono caricare i resti di questo poveraccio sull’ambulanza e glielo consegnano a domicilio, vale a dire in obitorio, così lei può ricomporlo e studiarlo.»

«Li aspetterò come se fossi Teseo.»

«Veramente…»

«Veramente cosa?»

«È stato Perseo a staccare la testa a Medusa. Non è suo il trucco dello scudo usato come specchio?»

«Certo, ma Teseo ha inventato un altro trucco, quello del filo di Arianna. Il filo, maresciallo, quello che avvolge la testa… dice che è stata una battuta troppo sofisticata?»

«Nelle leggende degli eroi, la vita assomiglia sempre a un trucco ben riuscito. Magari fosse così anche nella realtà. Buon lavoro, dutur, vado a cercare un telefono per riferire al magistrato.»

«Maresciallo, se vuol telefonare in santa pace venga con noi, sono due passi» lo invitarono due vigili, e il maresciallo li seguì. Lungo la strada i due continuarono a ragionare con entusiasmo di Bettega, Causio e Cuccureddu e del nuovo progetto di Boniperti, sicuri che la Juventus avrebbe vinto il campionato. Tentarono di coinvolgere Binda nelle loro elucubrazioni da “Gazzetta dello Sport”, ma il detective si costrinse a tacere: non odiava la Juventus come l’appuntato Giudici, ma la squadra dell’ultimo re d’Italia, Gianni Agnelli, non gli andava a genio. L’anno prima la sua Inter aveva vinto, meritatamente e senza aiutini da parte degli arbitri, l’undicesimo scudetto: e molti indizi lasciavano immaginare che, anche grazie al grande Bonimba, uno dei migliori centravanti che avesse mai visto lottare in area di rigore, il bis fosse possibile. A discutere di calcio con i gobbi juventini si finiva sempre per litigare citando il settimo comandamento, “Non rubare”: ma in quel momento era turbato dal quinto. “Non uccidere.”

E così, estraniandosi dai discorsi dei suoi accompagnatori, rifletté sull’omicidio del ponte di ferro: innanzitutto era stato compiuto da uno che sapeva usare il cervello e non solo il coltello. Le difficoltà investigative apparivano di quinto o sesto grado: il massimo. I testimoni, in quanto ad affidabilità, erano quello che erano. Inoltre avevano visto poco, ammesso e non concesso che il mix di umidità del Naviglio e fumi del fragolino bianco e rosso non avesse fatto scambiare loro lucciole per lanterne. Un Belfagor che naviga verso Corsico, chi ci avrebbe creduto? Senza contare che questo Belfagor poteva tranquillamente essere estraneo all’omicidio e non c’entrare nulla con quella testa mozzata e simbolicamente avvolta nel filo: già, il filo.

Quello di Arianna portava l’eroe, il Teseo citato dal dutur, a ritrovare l’uscita dal labirinto dopo aver ucciso (anzi, giustiziato) il Minotauro. E il suo, di filo? Chi poteva averlo avvolto intorno alla testa mozzata se non un Minotauro in cerca di chissà quali emozioni, significati, perversioni? Qual era il senso? Gli venne in mente un quadro di Magritte, Gli amanti forse: due teste coperte da un lenzuolo bianco, che si scambiano un bacio. Non si vedono, non comunicano, ma si capisce che sotto la bianca eleganza del lenzuolo c’è un mondo invisibile, degno di Dino Buzzati e forse anche di Alda Merini, poetessa… e così c’era un mondo invisibile anche in quel suo avvio d’indagine: la spiacevolissima sensazione di essere di fronte a una manipolazione crudele non se ne andava. Se uno uccide, uccide. Cosa significava quel teatro? Perché qualcosa doveva pur significare.

Era così immerso nei suoi pensieri che si ritrovò come d’incanto alla Bocciofila Magolfa, in Alzaia Naviglio Grande 36. Doveva essere una sorta di osteria dei ghisa, visto che ne era piena. Sapeva che ci andavano in tanti, anche dal comando di piazza Beccaria, per bersi un bianchino e per discutere a bassa voce di chissà cosa, vai a sapere, ma non immaginava di trovare quella ressa di uomini in divisa: “E ci credo che il traffico di Milano è da impazzire” avrebbe voluto dire, ma non sempre i ghisa accettavano ironie sul tema delle ore di lavoro, quindi andò in cerca del telefono. Era in fondo al bancone, accanto a un registratore di cassa che risaliva almeno a vent’anni prima, con quattro pulsanti bianchi e le colonne delle cifre.

Chiamò il magistrato. Come previsto, il dottor Loira gli lasciò carta bianca: «Fai tu, per avere un’idea sul corpo e sulla testa staccata mi bastano e avanzano le fotografie. No, grazie, non vengo per i testimoni, specie se sono quelli che dici, ho promesso a mia moglie che prima andavamo al cinema e poi a comprare una penna in corso Vittorio Emanuele, sempre che non ci sia qualche manifestazione… Ne sai niente?».

«Purtroppo no.»

«Non è che puoi farmi la cortesia di una telefonata al nucleo?»

Binda sospirò e chiamò in caserma: bisognava sempre essere accondiscendenti con i magistrati. In ogni caso cominciò dalla sua sezione: ogni giorno si faceva fare il punto delle notizie sulle altre indagini in corso. Al momento avevano un pregiudicato catanese trovato carbonizzato dentro una 850 TC Abarth a Quinto de’ Stampi e una non più giovane professoressa di matematica strangolata con il filo dei panni in una casa popolare di Dergano. Doveva anche impartire le disposizioni sugli interrogatori da condurre: «Li separate subito, i Quattro dell’Ave Maria, e solo quando tutti hanno firmato il verbale li mettete nella stessa stanza con gli altri. Ma cercate di ascoltare quello che si dicono, mi raccomando».

Alla fine si fece passare i carabinieri che tenevano sotto controllo gli operai e gli studenti, anche grazie a militari che non mettevano la divisa da anni e vivevano alla Casa dello studente, vicino al Politecnico, e in alcune case popolari al Giambellino: la piccola Cina di Milano, patria italiana dei maoisti. Sì, una manifestazione era in programma, ed era probabile che fosse di quelle che lasciano segni sulle vetrine e sulle auto, confermò al giudice Loira ascoltandone con pazienza le lamentele, quelle personali («Lunedì si laurea il nipote preferito di mia moglie, avrei dovuto comprarla prima, la penna, ma ho tardato, e ora chi glielo dice? Sarà furibonda come un puma») e quelle politiche («Più manifestano in forme non democratiche, più lo Stato reagirà con la forza militare, ma come fanno a non capirlo questi ragazzi? E i loro maestri, Binda, non saranno dei cattivi maestri, che mandano allo sbaraglio i giovani per ottenere un posto in Parlamento?»).

Solo mezz’ora dopo essere entrato nella trattoria dei ghisa riuscì finalmente a telefonare in montagna: «Umbertino come sta?» domandò alla moglie, senza preamboli.

«Avrebbe ancora la febbre» disse con qualche imbarazzo Rachele. Era incapace di mentire, la sua “testolina”; quando lo faceva diventava tutta rossa. Binda d’un tratto si sentì trafitto dalla sua assenza. In quel momento avrebbe desiderato un suo bacio, prenderle la mano, poggiare la testa sulla sua spalla delicata. Un secondo figlio, voluto e a lungo cercato, non arrivava. «Rachele, scusami, ma cosa significa “avrebbe”?»

«Peder, promettimi di non arrabbiarti. Lunedì aveva un compito in classe, martedì interrogazione di matematica e così… lo sai com’è fatto, no? S’è strofinato del tabacco sotto l’ascella e quando ha messo il termometro, tel lì, trentanove e mezzo. Me ne sono accorta perché non aveva gli occhietti lucidi, quelli da pesce lesso di quando sta male davvero, solo che tu eri già partito, e allora…»

«Non mi piacciono questi sotterfugi da piccolo zanza.»

«Da?»

«Tra truffatorino in erba. Nostro figlio deve capire che, anche se è un bambino, ha i suoi doveri di studente, diglielo da parte mia…»

«Lo sai, non è cattivo, non è uno zonzo, quella cosa che hai detto, è come un cavallo che ogni tanto s’imbizzarrisce, e in fin dei conti una settimana al paese, lontano dallo smog di Milano, fa bene a tutti e due. Tu riesci a stare un po’ tranquillo e a evitare di andare in piazza?»

«Per la verità, da stamattina lavoro a un brutto caso d’omicidio, nella zona del Naviglio.»

«Ah, la decapitata del Pont de Ferr, terrificante, ma chi è che può fare una cosa simile, Peder?» disse Rachele. La voce da tenera s’era fatta spaventata.

«E tu che ne sai?»

«L’ho sentito al “Gazzettino Padano”. Ma chi? Un’altra prostituta?»

«No, al momento non ci sono prostitute uccise, e questa non è una donna, l’è un om. La testa l’abbiamo appena trovata. Cià, cambiamo discorso, che l’è mej. Passami Umbertino che lo saluto e gli tiro le orecchie.»

La moglie tossì: «Ora non posso».

«E come mai, Rachele?»

«Peder, sai, qui è diverso che in città. È una giornata magnifica, c’è un sole, ma un sole, quasi di primavera… Sono arrivati i vicini, quei signori di Cusano con i figli capiscout, andavano a fare una passeggiata al Pian del Tivano, poi volevano mangiare a Colma…»

Madre e figlio erano alleati, pensò Binda salutandola. Doveva mettersi in contatto anche con altri due alleati, Giudici e Bertacchi, che stavano seguendo il corso del Naviglio alla ricerca della canoa di Belfagor: sempre che quei testimoni ciucchi non si fossero inventati l’uomo nero, come capita ai bambini. Richiamò la sezione Omicidi, diede il numero dell’osteria e disse che nell’ora successiva avrebbe aspettato lì ogni comunicazione.

Provò a fare mente locale. Il corpo di un uomo vestito da donna, in abito da sera color pervinca. Ai piedi scarpe eleganti, una delle quali, chissà perché, bagnata. Appeso sotto il ponte della Richard Ginori da una o più persone capaci di eseguire alla perfezione il nodo d’anguilla e la gassa d’amante doppia, usati dai marinai e dagli alpinisti. Quel variopinto gruppo di habitué dell’osteria aveva visto su una barca – e una canoa olimpica risultava effettivamente rubata dalla Canottieri Milano – un uomo vestito di nero. «Come Belfagor» avevano detto, ricordando lo sceneggiato televisivo che alcuni anni prima aveva messo paura a dieci milioni di spettatori. Lui aveva spedito l’appuntato e il vicebrigadiere, uno in acqua e uno a terra, in cerca della canoa, o magari di Belfagor in persona. E poco dopo da vicolo dei Lavandai era arrivata la segnalazione: anche la testa era stata trovata. Ma era stata avvolta con strani lacci, che a pensarci bene sembravano corde di violino, e un archetto era stato infilato anche nell’abito, quindi il morto non poteva che essere…

«È per lei, signor maresciallo» disse con cortesia l’oste, un signore baffuto e occhialuto con un grosso neo sulla guancia sinistra, porgendogli il telefono e interrompendo il flusso delle sue elucubrazioni.

Era l’anatomopatologo: «Devo darle tre notizie, tutt’e tre sorprendenti e spero utili alle indagini. Quel gomitolo intorno alla testa, be’, sono corde di violino».

«Un musicista…» disse Binda.

«Chi, la vittiiima o l’assassiiino?» domandò il medico.

«Magari entrambi, ho solo pensato ad alta voce. E il resto?»

«Quale resto?»

«Ha detto che aveva tre notizie, me ne ha data una…»

«Giusto, scusi, è una giornataccia. Nel cavo orale abbiamo trovato un messaggio. Un bigliettino avvolto nel cellophane. E mi sono permesso di aprirlo.»

«E cosa c’è scritto?» domandò Binda, che non sapeva più cosa augurarsi.

«Innanzitutto è un pezzo di carta strappato da un pentaaagramma. Ancora un rimando al mondo della musica, no?»

«Dottore, mi vuol dire o no che cosa c’è scritto?» ripeté l’investigatore. Dal silenzio che s’era fatto intorno capì di aver alzato la voce. Un comportamento da vanghett.

E infatti Boncompagni gli rispose risentito: «E che ne so… C’è una sola parola, ed è in cirillico».

«In russo? E quindi?» domandò Binda.

Un sabato così in salita non lo ricordava da mesi. Non solo la mattina era cominciata malissimo, ma più passavano le ore meno l’indagine si chiariva, anzi, si arricchiva di indizi sconcertanti: a chi era mai capitato di ricevere da un assassino – chi altri, se no? – un messaggio in caratteri cirillici, scritto su un pezzo di carta pentagrammata, infilato in una testa mozzata?

Il nervosismo di Binda aveva definitivamente contagiato il dottor Boncompagni, che al suo “quindi?” ribatté secco: «Quindi me lo deve dire lei cosa ne facciamo».

«Be’, si tratta di un reperto, s’è dimenticato la procedura?»

«La procedura la conosco come le mie taaasche, Dio mio, ma non capisce?»

«Cosa dovrei capire?»

«Ah, il maresciallo è lei.»

«A parte che serve un traduttore per sapere il significato della parola in cirillico, non ho idea di dove voglia arrivare.»

«Appuuunto! Me lo manda lei un traduttore? Ne avrete o no, con tutti i casini che ci sono tra la NATO e il Patto di Varsavia? Oppure posso chiedere iiiio una zampa al cugino di mia moglie, insegna Lettere straniere alla Statale, un cervellone, e mi ha raccontato che le sue lezioni sono uno spasso, metà studenti comunisti votati alla causa, metà democristiani di destra che sognano di radere al suolo il Muro di Berlino. Ha preferenze per la traduzione, egregio maresciallo? La vuole di destra o di sinistra? Me lo dica, per favore, che oggi a Medicina legale non abbiamo in carico soltanto il suo cadaverone. Ho in lista d’attesa duuue ubriachi gonfi come damigiane, una bella intossicazione da metanolo a quanto pare.»

Per non rispondere per le rime, Binda contò sino a dieci. «Conosciamo noi un bulgaro scappato dopo i carri armati. Era un insegnante alle superiori e qualche volta ci ha fatto delle traduzioni. Non abita lontano da voi, sta a Porta Venezia, in via Felice Casati, ve lo mando…»

«La zona degli immigrati eritrei? Povera Milano, cos’è diventata.»

«… se è ancora a casa, come spero. Però, dottore, quando lei ha trovato il biglietto nel cellophane, non l’ha toccato, vero?»

«Ho usato le pinzette per estrarlo e poi l’ho aperto sulla scrivania.»

«Appunto. Come l’ha aperto?»