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Se non ci fosse stato il pletorico Bertacchi, con il suo fisico da ex pilone dell’Amatori Rugby Milano, anche il maresciallo Binda avrebbe fatto la fine dell’appuntato Giudici. Era caduto, e non essendo riuscito a evitare l’impetuoso fiume degli spettatori in fuga s’era rifugiato tra le poltrone strisciando sui gomiti come un incursore. Nella sala dell’Angelicum si erano formati in pochi istanti tre serpentoni umani. “Sì, ha ragione Bertacchi, ci hanno fregato” era stato il primo pensiero di Binda, più furibondo che preoccupato.

«Un morto, c’è un morto» ripeteva qualcuno, correndo, mentre una voce acuta di donna sovrastava ogni altro urlo con la parola «attentato»: un termine che faceva aumentare d’intensità il galoppo dei fuggiaschi ancor più di «incendio». La strage di piazza Fontana, avvenuta nel dicembre di tre anni prima, aveva cambiato radicalmente, e per sempre, le abitudini dei milanesi. Il terrore di finire malamente, improvvisamente e inutilmente i propri giorni – dilaniati da una bomba, sprangati o accoltellati per un taglio di capelli, per il modello delle scarpe, se si assomigliava troppo ai “cinesi” o ai “sambabilini” – era entrato nelle discussioni di ogni famiglia, a prescindere dall’età dei figli, dalle professioni dei genitori, dai quartieri in cui si abitava. Ognuno si sentiva fragile e in pericolo: era questo l’unico risultato evidente raggiunto dal terrorismo.

In pochi minuti gran parte della sala s’era svuotata come una bottiglia di latte spaccata sul fondo. A parte due anziane signore inchiodate sulla sedia a rotelle, un bambino che si teneva la pancia dolorante e alcuni uomini ammutoliti che la luce della sala contribuiva a rendere pallidi come cadaveri, non era rimasto nessuno; anche il fumo si stava diradando. «Ci hanno ammazzato qualcuno sotto il naso» disse Binda a mezza voce, avanzando verso il palco, mentre Bertacchi aiutava il collega Giudici a rialzarsi e gli intimava di smetterla di bestemmiare ad alta voce.

Gli spari erano risuonati poco dopo l’ingresso nella sala concerti di Gingerino, e a terra c’erano due corpi. Due morti ammazzati. Uno supino, l’altro bocconi.

Con il battito del cuore accelerato Binda si avvicinò: maledizione, non poteva non riconoscerlo. Uno dei due era proprio Rosario Capovilla detto Gingerino. Fulminato da un proiettile in piena fronte, gli avevano dato il colpo di grazia. Gli occhi erano rimasti spalancati ma senza espressione, vuoti come un guscio di noce, e le basette erano rosse di sangue. La sua somiglianza con una civetta, una civetta impallinata da un bracconiere, era ancora più evidente di prima, gli venne da pensare. La testa, reclinata sulla destra, e la bocca semiaperta sembravano più piccole. Era entrato con il passo sicuro del balordo, ora si vedeva sotto la suola della scarpa destra un buco, e il celestino della calza di lana.

Poco distante, l’altro uomo. Non sarebbe stato necessario voltarlo: la pancia rendeva il cadavere di Zimbalist simile a un gigantesco pinguino spiaggiato. A Binda salì un palpito di commozione: gli aveva parlato sino a poco prima, e adesso? Adesso sarebbe rimasto muto, immobile e grassissimo per l’eternità. Le uniche due persone che l’avevano aiutato a raccapezzarsi nell’indagine stavano là, unite nella morte: la civetta e il pinguino, in mezzo a una pozza di sangue denso come mosto.

«Ho visto io chi ha sparato» disse l’uomo dalle spalle larghe che Zimbalist aveva indicato come il contrammiraglio Livraghi. Non dava più un’idea di forza. Era accasciato su una delle poltrone scassate dalla foga dei fuggiaschi, con le mani sul petto, come se si sentisse male. Il viceconsole sovietico gli stava accanto, preoccupato.

«È stato un giovane magro e agitato, un capellone, con una barba da Tupamaro» disse Asanovic. «È scappato in quella direzione.»

«Lo sta inseguendo un nostro amico francese» aggiunse il contrammiraglio.

Stavrogin, la spia del KGB, l’uomo che sapeva tutto del furto dei gioielli dei Romanov dal Museo della Rivoluzione, stava inseguendo l’assassino? Era un mondo alla rovescia, quell’Angelicum.

«In che direzione?» domandò Binda.

«Hanno preso la via dei camerini» rispose Asanovic, che sembrava indeciso se seguire il maresciallo o restare con il contrammiraglio, che ansimava come per un attacco di cuore.

Binda si precipitò verso i camerini, ma non fece molta strada: anche Stavrogin era a terra. Vivo, con una mano sulla testa insanguinata e una guancia rossa e gonfia. Da una finestra spalancata, che dava su via Montebello, arrivavano raffiche di vento freddo.

«Si è fatto fregare» disse all’agente sovietico, correndo ad affacciarsi.

Uno spazzino svuotava i cestini e fu il primo a parlare: «E che ha combinato, il capellone?».

«Dov’è andato?» alzò la voce Binda, per farsi sentire dall’uomo che continuava a cincischiare con un sacco nero.

«E perché dovrei dirglielo?»

«Perché sono un carabiniere.»

«Ah, be’, allora tocca stare schisci, che paura… Comunque, se proprio vuol saperlo» disse e rimase zitto.

«Se non le spiace» rispose Binda, con gentilezza, senza accettare la provocazione.

«Se allora vuol saperlo, è andato verso via San Marco, è l’ora della cineteca, ci vanno i comunisti con i soldi, Ingmar Bergman se perd tant a vess ignorant…»

Binda aveva smesso di ascoltarlo. Il capellone era scappato e Stavrogin dal pavimento tese la mano per farsi tirar su. «È bastardo allenato, schiena KO, ma non può andare lontano, io so chi è.»

Il maresciallo l’aiutò a rialzarsi, sentendosi elencare immediatamente alcune informazioni: «Comunista greco, geologo senza lavoro, lavapiatti, arrivato a Genova qualche mese dopo il golpe di Papadopoulos. Poi Milano, so dove dorme, via Lodovico il Moro, zona Taverna Greca».

«Ma è vicino a dove abbiamo trovato il magazziniere decapitato» l’interruppe Binda. Si ricordò allora dove aveva visto il contrammiraglio Livraghi: era lui l’uomo dei nodi, era arrivato in compagnia del nostromo senza mano sul Pont de Ferr e aveva aiutato i vigili del fuoco a tirar giù il corpo di Fabrizio Pasteur. Ed era anche stato a Mosca. Troppo vecchio per Victorjia? Senza dubbio, però non si poteva mai sapere: bisognava parlarci.

Stavrogin afferrò il maresciallo per un braccio: «Corriamo sul Naviglio, facciamo cantare greco».

«No, lei da qui non si muove, adesso si siede come tutti gli altri testimoni.»

«Devo ricordare decisione suo colonnello? Prendere assassino interessa KGB

«Ma chissà dov’è! Mi faccia il piacere, Stavrogin.»

«Se assassino torna a casa, e se io vedo, resto fermo come pietra e muto come pesce. Indico e basta. Solo lei prende e spara o cattura greco, parola d’onore, faccio questo» disse, tornando verso la sala del concerto ormai semideserta.

L’appuntato Giudici s’era rimesso in piedi, aveva acceso una sigaretta e con Bertacchi guardava i due cadaveri. «Ha ammazzato il ciccione e poi s’è sparato? Omicidio-suicidio? Mi sembra strano, Gingerino era un ladrone, ma…»

«Vedi per caso la pistola? L’ha nascosta nel pianoforte prima di spirare? Li ha uccisi qualcun altro, no? Ragiona!» reagì Bertacchi.

Binda si frappose tra i due, si accertò che l’appuntato stesse bene, infine impartì pochi ordini: «Tu, Giudici, devi fare due cose importanti. Innanzitutto, organizzi con il resto della Omicidi una serie di perquisizioni. Qui all’Angelicum, a casa dei due uccisi e, contemporaneamente, mandi qualcuno in via San Gregorio, dove ci sono quelli che trafficano in gioielli, e li tieni fermi e buoni: non devono toccare niente finché non torno io. Se fanno casino li portate in caserma, è chiaro?».

«I tre fratel…»

«Sì, loro, Giudici, gli Spontini. Non perdiamo tempo. Una volta che hai dispiegato le forze sul campo, cerca i testimoni della sparatoria, a cominciare dal violinista. Era qui, deve aver visto tutto, e non solo lui, in questa sala è pieno di abbonati. Rintracciali, bisogna lavorare in fretta e bene, se esiste un fantasma del Pont de Ferr lo voglio vedere in manette. In caserma, metti uno di guardia al contrammiraglio Livraghi, non deve parlare con nessuno, solo con me. Fuori c’è uno dell’AMNU, mi sembra un cretino, ma ha visto fuggire il capellone, che forse è un greco.»

Giudici, cicca all’angolo della bocca, si massaggiava le reni: «Tutto questo lavoro da solo, maresciallo? E lui, il rugbista, cosa fa lui?».

Il responsabile della Omicidi non voleva sfogare contro quello scansafatiche la sua frustrazione: «Se i morti parlano, ad ascoltarli basti tu. Anzi, fai portare in una stanza separata anche il console Asanovic e se protesta te ne freghi. Lui da una parte, il contrammiraglio dall’altra, il violinista in un’altra ancora. Bertacchi, lascia perdere il collega e vai a cercare una macchina, ci vediamo in piazza Mirabello, dobbiamo correre in via Lodovico il Moro, se davvero l’assassino è da quelle parti non deve scapparci».

«E come lo riconosciamo, lei l’ha visto? Io no.»

«Qualcuno ci aiuta, spicciati.»

In caserma era stata recuperata una 127 verde, con il parafango bisognoso di una cromatura, che Stavrogin apprezzò moltissimo. «Ottima idea, auto scassata per passare inosservati, voi taliani sapete sempre una più di diavolo» si complimentò.

Magari, pensò Binda, conoscendo invece l’arte di arrangiarsi di polizia e carabinieri per far fronte alla storica mancanza di uomini e mezzi. «Che c’entra un greco in questa storia? E come fa lei a conoscere uno che ha ucciso due persone?»

«Mio lavoro è relazione utilitaristica con popoli diversi.»

«Ascolti, Stavrogin, non è il momento di giocare, che rapporto c’è tra lei e l’assassino?»

«Quando io conosciuto non era assassino, ma non mi stupisce azione di stasera, perché greco è uomo in vendita. Io l’ho comprato, forse l’hanno comprato anche quelli che cerchiamo, è possibile.»

«Ma chi è, come l’ha conosciuto, come si chiama? Risponda, Stavrogin!» alzò la voce Binda.

«Spiego, nema problema. È compagno, figlio di partigiani combattenti greci, è iscritto a KKE, Partito Comunista greco, con bandiera rossa ha partecipato a funerali di Papandreou e fuggito in Italia prima di arresto. Ricoverato ospedale Genova, shock nervoso, suo amico s’è bruciato vivo, lui visto, aiutato, inutile. Tanti poveri ragazzi vittime di regimi fascisti.»

«Come no? Mi ricordo perfettamente, uno studente s’è suicidato con il fuoco gridando: “Viva la Grecia libera”» disse Bertacchi, che guidava e ascoltava con attenzione.

«Bravo, esatto. Atene è vittima piano anticomunista Prometheus, studiato e organizzato e attuato da CIA. Chissà in Italia che nome ha piano, forse “Solo”, forse “Gladio”.»

«Ma di cosa parla?» domandò il vicebrigadiere al maresciallo.

Stavrogin proseguì: «Militari NATO che odiano comunisti e Patto Varsavia. Binda, lei conosce storia e geografia, no? Segua discorso, segua logica. In Spagna c’è dittatore Franco, re Borbone non conta più. Nel Portogallo c’è governo fascista creato da Salazar, conosce, no? Là s’è rifugiato vostro eroico re Umberto, scappato durante guerra. Adesso anche Grecia è diventata fascista, comandano colonnelli anche su re fantoccio. Chi manca al grande disegno mericano di rendere nero tutto mare Mediterraneo? Un solo Paese, il vostro. Amici carabinieri, domandate meglio a colonnello Casiraghi se ho ragione, lui sa di idee NATO e non approva».

«Non siamo qua per parlare di fantapolitica internazionale, ma per prendere il greco. E non mi ha ancora detto come si chiama» puntualizzò Binda.

«Ha tanti nomi.»

«Il maresciallo sta perdendo la pazienza, lei l’ha mai visto arrabbiato?» domandò Bertacchi.

Il suo testone ruotò di quarantacinque gradi, il suo sguardo feroce si puntò sul passeggero, che s’affrettò a rispondere: «In nostro ambiente è mister Trikeri, dal nome di isola dove colonnelli hanno mandato al confino tanti amici. Vero nome è Sideris. Andreas Sideris, geologo. Non inganno, non imbroglio, per me veramente assurdo che uno come lui spara e uccide, veramente assurdo. Visto, ma ancora non credo a miei occhi».

«E come mai…» Binda stava per dire: “Come mai il KGB s’interessa a Sideris?”, ma si bloccò. Bertacchi, al volante della 127, continuava con gli occhi a chiedere al suo superiore chi fosse quel tipo e gli andava data una spiegazione, sì, ma a tempo debito. Erano arrivati a Porta Romana, non mancava molto al Naviglio. «Come mai» riprese «s’è occupato lei di questo Sideris?»

«In veste di imprenditore, fatto lavoro speciale per me e io dato Sideris molti soldi.»

Il maresciallo fece finta di credergli e annuì, ma non riuscì a risparmiarsi una domanda provocatoria: «Che bella coincidenza esserci visti all’Angelicum, davanti a due cadaveri. È un caso sfortunato o fortunato che lei fosse là per il concerto…».

«M’interessava vedere amico russo, addetto culturale Asanovic, bella testa, traduttore di Čechov. E osservare presenti a questo ultimo concerto di Victorjia. Concerto diventato rosso sangue.»

«Lei conosceva Victorjia? C’è mai uscito a cena?» domandò Binda.

«Perché domanda?»

«La conosceva o no?»

«Assolutamente no» disse Stavrogin.

Purtroppo l’investigatore non aveva più a disposizione Zimbalist per smentirlo. La fiducia se n’era andata a ettolitri e non ne restava che qualche goccia, molto poco limpida.