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Una villa elegante, curata e opulenta, presidiata da un sistema di telecamere, porte blindate e sbarre a tutte le finestre. A meno di trecento metri dal Palazzo dell’Ingiustizia. Grazie a un amico nell’anagrafe del Comune l’ex maresciallo era riuscito a risalire, non senza stupore, al nome del proprietario. Era intestata a una società in accomandita con sede in Lussemburgo, ramo elettronica e import-export, ma ci abitava con la moglie il contrammiraglio Livraghi, l’ex addetto militare all’Ambasciata di Mosca: e cioè l’uomo che, quella notte di sangue all’Angelicum, aveva raccontato di aver visto Stavrogin correre dietro l’assassino. A suo tempo Binda l’aveva interrogato, così come aveva interrogato il diplomatico russo Asanovic. Le loro versioni collimavano: entrambi avevano ammesso di aver conosciuto a Mosca la violinista scomparsa, ma di non averla mai incontrata a Milano, di non avere il minimo rapporto con Gingerino, con il magazziniere decapitato o con il direttore di scena Zimbalist. Erano stati colti di sorpresa dalla sparatoria, ma cosa avrebbero potuto fare, fermare a mani nude un pericoloso assassino? Anche il “francesino”, e cioè Stavrogin, non c’era riuscito. Tutto filava e indizi contrari non ce n’erano. “Allora come ora” si disse Binda, entrando nella cabina telefonica all’angolo con via Freguglia. Prima di bussare alla villa avrebbe dovuto chiamare, secondo i patti, Saul Spontini.

«Va bene, ha cominciato a lavorare, ora comincia la parte difficile. Far parlare il contrammiraglio» si sentì dire dall’agente israeliano. «Conosce la chiesa di San Bernardino alle Ossa, in piazza Santo Stefano? Ci vediamo là nel giro di un’oretta.»

Con i due operai al seguito, l’uomo della Unit 8200 si presentò in un gessato blu da tre milioni di lire, inconfondibilmente firmato Caraceni, nella chiesetta dalle pareti ricoperte di teschi e ossa. Accese un cero e si sedette accanto all’ex maresciallo: «Voglio darle un ultimo consiglio».

«Un consiglio che non posso rifiutare?» venne da scherzare a Binda, a cui era tornato in mente il famoso film con Marlon Brando che interpreta il personaggio di don Vito Corleone.

Saul, che non s’aspettava la battuta, rise di gusto: «Pensi che mi sono vestito così per incontrare uno degli uomini più fidati di un imprenditore che tra qualche mese comprerà il Milan: uno che loro stessi chiamano il “consigliere”… voi italiani siete davvero fantastici. Ma veniamo a noi. Può darsi che oggi lei riesca a trovare una parte della soluzione all’enigma. O forse tutta. Ma non prevedo il futuro, sono soltanto un esperto di elettronica, come Stavrogin, il nostro amico russo del tragico 1972…».

«Lei lo conosce anche con il suo vero nome?»

«No.»

«Ma è in contatto con lui?»

«In un certo senso. So che esiste, ma non l’ho più visto. Non siamo amici, siamo sempre stati concorrenti in affari… in ciascuno dei nostri affari.»

«Qualcuno all’epoca mi aveva detto che l’agente del KGB lavorava con l’elettronica.»

«Già. È un settore in cui guadagni miliardi, anche Livraghi non è povero e lavora sui nostri stessi mercati. In pratica ti muovi nel futuro, e ovviamente la competizione internazionale è molto, molto elettrica: può dare scariche mortali.»

«Io non ci capisco niente, so solo che mancano sedici anni al 2001 e Stavrogin si sbagliava: diceva che tutti noi avremmo scritto grazie a una specie di televisione, come il calcolatore di Odissea nello spazio… una bella fantasia.»

«Sì e no, maresciallo, da parecchi anni noi militari ci mandiamo messaggi attraverso la corrente elettrica e nessun civile lo sa. In Italia farete un primo invio soltanto l’anno prossimo. Ma Stavrogin aveva parlato di questo con lei?»

«Per la verità ne aveva parlato con Zimbalist, l’amico di Victorjia al Conservatorio. È stato ammazzato insieme con un ladro. Mi sembrava una brava persona, mi sono convinto che volesse aiutare la Novgorodova a espatriare, in totale buona fede.»

«Può essere. Ci sono persone che amano l’arte, credono nel bello e lo cercano nella vita di tutti i giorni. È cosa buona e giusta vivere così, ma se dimentichi che il brutto esiste può essere lui a venirti a cercare.»

«È un altro proverbio della Bibbia?»

«“Quando vedi soltanto il bello davanti agli occhi, dalle spalle arriva il brutto.” Dal libro del saggio Saul. Ha lasciato, come le ho detto, la pistola a casa?»

«Certo» rispose Binda.

«Se là dentro si metterà male non le servirebbe comunque. Vuole davvero rischiare il tutto per tutto per avere la verità?» domandò l’agente della Unit 8200.

«Indietro, a questo punto, non torno.»

«È la risposta di un uomo giusto.»

Dopo Alba, un altro gli dava del “giusto”. Chissà, forse stava soltanto diventando saggio, a cinquantacinque anni, pensò mentre Saul estraeva da un tascapane una delle sue penne-spia: un modello che replicava alla perfezione la Mont Blanc Meisterstuck 149. «La metta in tasca.»

«Non mi ci vedo a fare lo 007.»

«Però non faccia nemmeno l’ingenuo, visto che nel ’69 è entrato come infiltrato nel carcere di san Vittore.»

«Cosa me ne faccio?» domandò Binda toccando la penna. Saul sapeva molte più cose di lui di quante lui ne sapesse di Saul.

«Volendo scrive, ma è più utile per quello che trasmette. Qualcuno dei miei sarà sempre in ascolto. Se si mette male c’inventeremo qualche cosa, non vogliamo che le accada niente di male. B’ezrat HaShem

«Sarebbe “in bocca al lupo”?»

«Probabilmente» disse e sorrise a Binda.

Uscendo dalla chiesa, l’investigatore si soffermò a leggere un’iscrizione in latino: DATE ET DABITUR VOBIS. Tradotto: prima date, poi vi sarà dato. “Un latino da milanesi” pensò, andando a suonare il campanello della villa del contrammiraglio Livraghi.

Il massiccio portone aveva una base di metallo cesellato, due maniglie d’ottone e una sequenza d’intarsi romboidali che arrivavano sino alla finestra con fregi di metallo e vetri blu cobalto che sovrastava i battenti. Il giovane filippino in livrea che si affacciò aveva la fronte alta, i capelli nerissimi e i denti bianchi. Ascoltò con grande dolcezza il visitatore, si fece ripetere chi cercava, e più Binda parlava più sembrava invaso da una tristezza sconfinata: chiedendo scusa, inchinandosi, gli fece segno di attendere fuori.

L’investigatore ingannò l’attesa osservando avvocati con la valigetta, segretarie troppo grasse o troppo magre con le braccia ingombre di fascicoli, una numerosa famiglia di zingari che chiedeva l’elemosina, un matto con il cranio pelato e incerottato che a gran voce ripeteva: «Giustizia ritardata è giustizia negata!».

Quando il portone si riaprì, ad accogliere Binda c’era un altro domestico, molto più robusto, con il collo taurino, gambe arcuate e braccia da lottatore. Forse un europeo dell’Est, stretto in una tuta di cotone grigio ferro. Senza una parola scortò l’ex maresciallo attraverso un corridoio fiocamente illuminato da un magnifico lampadario di Murano, con foglie e campane di cristallo blu, per indicargli infine una sala circolare, con le pareti ricoperte dal legno rossiccio di una libreria e dal cuoio delle rilegature. Da un invisibile impianto stereo proveniva una musica che Binda riconobbe: la seconda sinfonia di Gustav Mahler.

Nessuno gli aveva detto di sedersi e restò educatamente in piedi a curiosare tra le fotografie, colpito dalla bellezza e dalla grandezza della villa. Parecchie erano scattate a Mosca: sulla piazza Rossa, davanti al Cremlino, all’interno di quello che sembrava il teatro Bol’šoj, sotto alcuni archi molto ben illuminati, forse di una stazione della metropolitana, sulle rive della Moscova, al Gorkij Park.

«Bei tempi.»

La voce riecheggiò all’improvviso nella vasta biblioteca e lo fece trasalire, ma l’uomo anziano che si trovò davanti quando si voltò gli porgeva la mano e nell’altra teneva un bicchiere: «Si accomodi, maresciallo, la giornata è calda, prenda una spremuta d’arancia».

Se non fosse passato all’anagrafe e non avesse visto la foto recente dei documenti d’identità, Binda non avrebbe mai riconosciuto il contrammiraglio Livraghi. Il sessantenne in gran forma di tredici anni prima s’era come rattrappito: aveva perso almeno una decina di chili di muscoli; le spalle s’erano fatte più strette e cascanti; il volto, un tempo abbronzato, tendeva al grigio, come la crosta di alcuni formaggi di malga; una pancetta a forma di uovo debordava dai pantaloni chiari con la riga stirata a lama di coltello.

«Purtroppo non conosco la Russia, né il resto del mondo» ammise Binda. «Oltre alla Francia e Londra, dove lavora mio figlio, sono sempre stato in Italia. Sia per il lavoro sia per le vacanze.»

«Quando lavoravo io, alla nostra Ambasciata di Mosca, erano gli anni della guerra fredda, della proliferazione nucleare. Per fortuna quel mondo orrendo è finito, le Borse tirano e il comunismo finalmente segna il passo. Prima o poi crollerà, come insegnano i fatti della Polonia, e la smetteremo di preoccuparci dei rossi e delle frontiere dell’Est.»

Binda partì all’attacco: «Anche lei è una spia? Come il finto francese amico del suo amico russo? Non si chiamava Stavrogin? Lavoravate insieme?».

Il contrammiraglio non sembrò spiazzato. «Le ho aperto la porta perché rappresenta, come me, le nostre istituzioni. Ma obblighi con lei, caro maresciallo, non mi sembra di averne contratti… o mi sono perso qualcosa?»

«No. Se sono qui è perché ho fiducia nella sua gentilezza e nel tempo che passa.»

«Siamo in tanti a pensare che il tempo sia un grande chirurgo. In cosa posso esserle utile?»

Binda controllò che la penna-spia fosse al suo posto nel taschino ed estrasse dalla tasca interna della giacca il gioiello che gli aveva dato Olga. Dopo averlo osservato un’ultima volta in controluce lo diede al padrone di casa, che lo prese come se fosse un tizzone ardente. Il contrammiraglio era impallidito, e nel suo sguardo scintillò un lampo sinistro: «Non posso crederci» esclamò, lasciando cadere il gioiello sul divano e afferrando un campanello d’argento.

Lo scosse come un termometro facendo accorrere, con il fiato corto, il maggiordomo filippino, che sembrava ancora più contrito, come se avesse combinato chissà quale guaio. Seguì tra i due una concitata conversazione in inglese, di cui Binda non capì una parola. Dai gesti del filippino comprese che il domestico si profondeva in scuse, ma che al tempo stesso attribuiva la colpa di qualcosa di estremamente grave a qualcun altro: al quale non avrebbe potuto opporsi.

«Sparisci, coglione» gli ordinò il padrone di casa afferrando con rabbia un telefono nero. Compose un numero di molte cifre: le prime, notò Binda, erano 0041. Il prefisso della Svizzera. «Sono Big Two. Abbiamo spedito un pacchetto a Mosca negli ultimi tempi?» domandò con fredda cortesia. «Ho capito bene? Due mesi fa circa? E com’è stato possibile? Come mai non sono stato avvisato?» sbottò dopo aver ascoltato la risposta. Le successive spiegazioni sembrarono piacergli ancor meno.

«Voi…» Altre spiegazioni, più lunghe: Livraghi rimase in un silenzio minaccioso per quasi un minuto. «Voi avevate ricevuto un ordine preciso. Devo sapere tutto, tutto quello che parte e che arriva da Mosca, o sbaglio?» Rimase nuovamente in ascolto, ma questa volta non aspettò che l’altro smettesse di parlare: «Mandatemi un rapporto per questo pomeriggio alle cinque. E domani voglio a Milano i responsabili della violazione, sia chi ha preso l’ordine sia chi ha materialmente portato il pacco a Mosca, chiaro? Domani, me ne fotto se si trovano in missione in Finlandia, gli aeroporti funzionano anche per i deficienti. E tu stai molto, molto attento a fare in modo che non ci siano intoppi».

Riattaccò e si avvicinò alla finestra che dava sul giardino. Salutò qualcuno, si voltò e osservò le vecchie foto scattate a Mosca. «Merdaieu, le donne ne san uun a ciù do diao» imprecò in ligure.

«Non immaginavo di procurarle tanto fastidio mostrandole un gioiello» intervenne Binda. «Anzi è così bello che pensavo le facesse piacere vederlo. O rivederlo?»

«Primo, quando si ha a che fare con l’import-export internazionale, non si può scherzare con i pacchi. Secondo, quel gioiello non sarebbe mai dovuto uscire da questa casa. Tantomeno ora.»

«Quindi è uscito da qui?»

«Non mi piacciono i suoi sotterfugi. Cosa vuole, soldi?» sbottò l’ex militare.

Binda giocò al rialzo. Non poteva nominare Saul Spontini e non immaginava nemmeno a quali sotterfugi potesse ricorrere, ma dalle risposte del contrammiraglio una cosa era lampante: Livraghi si era convinto che fosse molto ben informato. Aveva l’occasione di bluffare, non poteva sprecarla: «Possiamo stabilire insieme come procedere, ma lei non vuole sapere come mai ce l’ho io?».

L’ex ufficiale inanellò un’altra sequenza di moccoli e ringhiò: «Gliel’ha portato l’unica che poteva riceverlo, una magnifica ragazza di nome Olga. Non perdiamo altro tempo, cosa è venuto a cercare qui? Per conto di chi lavora? Quelli come lei non vanno mai in pensione».

L’unica era non cedere. «Lavoro per me, ma non ho ancora deciso cosa sia meglio chiederle, egregio Big Two» disse Binda come se ci stesse davvero pensando.

«Allora si fermi a pranzo.»

«Ma, scusi, e perché dovrei…?»

«Nessun ma. Non è un piacere mangiare con lei, dico solo che a pancia piena avrà le idee più chiare su cosa sia meglio. Se risolvere un giallo o comprare una casa più grande. Se farsi un lungo viaggio intorno al mondo oppure essere seppellito dal giardiniere sotto quel glicine. Via, scherzo. Si va a tavola tra un’oretta, adesso ho da fare.»