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Il cancello della Canottieri Milano, il club sportivo dall’altra parte del Naviglio, sull’Alzaia, era aperto e presidiato da un gruppo di carabinieri in divisa. Nel grande cortile alberato, sotto la scritta rossa VOLENTI NIL DIFFICILE, nulla è impossibile a chi s’impegna, avevano concentrato i testimoni. O i molto presunti testimoni?

A Binda bastò un’occhiata per perdere la fiducia. Tra i quattro, che se ne stavano a testa bassa come scolaretti in attesa di una ramanzina, aveva riconosciuto “il Wanda”, con le spalle magre poggiate al muro della rimessa delle barche. Ballerino, cantante, cabarettista di talento e omosessuale dichiarato, animava con altri artisti – o sedicenti artisti – le osterie del Naviglio. Anche lui, nonostante i fumi dell’alcol non ancora smaltito, aveva riconosciuto Binda: «L’è vun dei fratelli Branca, ma l’è bun» aveva sussurrato agli altri testimoni insonnoliti.

Li presentò uno alla volta: «El Pelé, suonatore di tolofono. Il Pinza, che ha un’osteria famosa, la Briosca, non dovrebbe aver bisogno di presentazioni, giusto? E lei è Contessa, è una contessa vera, una contessa da brodo, abita in via Serbelloni, vero cara?, ma s’è innamorata del Szola, che adesso è in ospedale. Maresciallo, cosa possiamo fare per lei? Le canto qualcosa? Amapola, dolcissima Amapola, la sfinge del mio cuor sei tu sola…» intonò.

Binda girò la testa verso il cadavere, che dall’interno della Canottieri non si vedeva, e puntò il dito contro i quattro. Li guardò uno dopo l’altro: ancora completamente ubriachi, poco ma sicuro. «Quacci Alberto, detto il Wanda, non è il momento di scherzare, non trovi? Risparmiaci lo spirito di patata, non siamo all’osteria.»

Fu il Pelé a farsi avanti, con una voce da basso degna della Scala: «Maresciallo, ci scusi, nessuno di noi uccide le donne, e nemmeno gli uomini. Siamo negativi».

«E chi vi accusa?»

«Era giusto per chiarire. Noi eravamo in gaina, siamo stati al Gratosoglio a bere sino alle due, poi è arrivato un amico che aveva qualche boccia di fragolino, bianco e rosso. Ed è andata com’è andata.»

«Ma come siete arrivati qua? Proprio qua?»

«Volevamo accompagnare a casa madama la contessa e invece siamo andati a sbattere in piazza Negrelli. Un disguido. La mia Simca è ancora lì, e il palo del 119 è tutto storto. Allora ci siamo messi in cammino e a un certo punto ho creduto di avere le allucinazioni, perché sul Naviglio c’era una barca lunga e stretta, con uno vestito di nero come Belfagor a remare.»

«Belfagor, il fantasma della televisione, che naviga sul Naviglio» disse Giudici. «Ci stai prendendo in giro, Pelé?»

«Maresciallo, è vero. L’avevo dimenticato, ma l’abbiamo visto tutti, c’era uno vestito come il fantasma del Louvre, diteglielo anche voi» aggiunse il Wanda.

Un coro alcolico di «Sì, l’è vera» investì Binda, mentre el Pelé riprendeva il racconto: «Come Belfagor, lo giuro, e andava verso Corsico. Guardi, maresciallo, ho ancora i peli che si alzano per i brividi. Poi abbiamo visto il ponte, ma c’era tanta nebbia, sempre più fitta, e così siamo saliti su quel ponticello e…».

«E?»

«Insomma, avevamo freddo, non stavamo bene, il cancello della Canottieri era aperto, lo giuro, e comunque anche un fiulet glielo sa aprire, siamo entrati per stato di necessità e per cercare un ricovero siamo andati verso le cucine. E se c’è da mangiare ci sarà anche da bere, ci siamo detti, e anche questa porta, glielo giuro, era praticamente aperta, e così…»

«Taja, Pelé. Praticamente aperta, va bene, va bene, non voglio dubitare, ma l’hai visto o non l’hai visto quel corpo appeso?» chiese Binda.

«No, c’era troppa nebbia, anche nei nostri meloni, e non ci siamo accorti di niente sino a questa mattina, quando ci hanno svegliato dei pazzi, pazzi furiosi, volevano andare in piscina, con quest’aria fredda, e di sabato, capisce maresciallo, di sabato, ai sett’ur! E hanno gridato, ci hanno circondato, un mal di testa… Sono arrivati i branca, scusi, i suoi colleghi, e vai, chi siete, cosa fate, il solito trambusto di voialtri, e la nebbia si è diradata e qualcuno ha gridato, perché c’era il corpo, appeso là…»

Si era avvicinato un uomo robusto, con gli incisivi mancanti e un paio di denti scuri e sbilenchi, presentandosi come il guardiano: «Signor maresciallo, ho controllato. Da noi manca una barca, una canoa olimpica. Se chi l’ha rubata è quel Belfagor, per lo meno dev’essere passato sotto il cadavere della donna. Se non è stato lui ad ammazzarla, saprà certamente qualche cosa».

«Oh sant Ambroeus ’ndemm. Dopo i Quattro dell’Ave Maria, ci mancava l’ispettore Tibbs. Gentilmente, tappatevi la bocca. Il maresciallo deve pensare in pace» ordinò l’appuntato Giudici spegnendo la sigaretta in un bicchiere d’aranciata.

Binda rimase a capo chino per qualche istante, poi impartì le disposizioni: «Facciamo così. Finché non arrivano i pompieri, di’ ai vigili di organizzare un senso alternato, che ci pensino loro. Libera i nostri, non devono occuparsi di ordine pubblico. Poi chiama alla radio il tuo amico Bertacchi, lavorerete insieme. Uno scende in barca sul Naviglio, l’altro va in bicicletta sulle sponde, magari la canoa olimpica è rimasta da qualche parte. Se la trovate non la toccate» si affrettò a dire per arginare le proteste di Giudici, «perché possono esserci le impronte digitali. Questi quattro vanno portati in via Moscova per essere verbalizzati, avvisa l’ufficio».

«No, maresciallo, siamo negativi.»

«Silenzio. In ufficio voglio anche il custode e gli atleti.»

«No, un momento, stasera ho un impegno di famiglia a Santa, scusi, eh! E poi cosa c’entriamo noi con ’sti locch?» domandò un giovane con i capelli corti e gli occhialini alla Gramsci.

«Ognuno ha le sue esigenze, le comprendo, ma bisogna ricostruire cos’è successo questa mattina minuto per minuto. Siete cittadini, con le vostre libertà, e fate bene a rivendicarle, ma in questo caso specifico siete anche testimoni di un crimine, e come tali avete un obbligo…»

«Senti come parla bene el strappabuttun» disse a voce bassa uno degli ubriachi.

Binda fece finta di niente, seguì con gli occhi la contessa, che si dirigeva verso una fontanella nel piazzale, poggiava la mano sul pomello in alto e, con un movimento da ballerina classica, si chinava per bere, mettendosi in una posizione che scatenò il fischio di uno dei nuotatori. Era la figlia diseredata di una ricchissima famiglia, una vera “contessa da brodo”, come si chiamavano le dame di San Vincenzo, che nei tempi passati servivano i pasti ai poveri, ma, come lei stessa una volta gli aveva detto all’osteria del Pinza, aveva “il vizio degli uomini”. Ma in quella frase, più che sesso, c’era la disperazione di una signora che si riduceva a fare di tutto per non perdere il suo fidanzato del momento e, com’era ovvio, questa sua attitudine non era un segreto per il popolo della notte.

«Lei, maresciallo, non viene?» domandò il custode, andando a cercarsi una giacca.

«Arrivo dopo, per i verbali, adesso aspetto il medico legale, vi accompagnano e vi riportano, se serve.»

Superò la folla di curiosi, e dopo una leggera salita e una leggera discesa tornò alle scale del ponte color verde marcio. Affrontò i gradini di ferro, stando attento a non toccare alcuni spigoli rugginosi, e avanzò con calma verso la donna senza testa. «Giudici!» gridò. L’appuntato smise di litigare alla radio con il vicebrigadiere Bertacchi, sbuffò il fumo di un’altra sigaretta e fece spuntare la testa riccioluta dal finestrino della vecchia Gazzella. «Manda anche qualcuno in viale Gorizia, non ricordo il numero, ma c’è un’associazione di marinai in congedo, questi nodi non mi sembrano comuni.»

«Marinai? A Milano? Binda, per favore, oggi ce l’hai con me? Mi vuoi mandare foera di strasc?»

«Datti una regolata, collega. Sono migliaia i milanesi nella leva di mare, fammi raggiungere da uno che abbia navigato. Voglio un esperto di nodi. Non stiamo giocando, qua c’è una donna morta ammazzata, ti è chiaro?» Gli scocciava far pesare il grado, ma con alcuni era inevitabile.

La nebbia s’era quasi del tutto sollevata dalle acque e un sole timido illuminava la scena del crimine. Binda si avvicinò di nuovo al corpo. Per essere una donna, la decapitata del Naviglio aveva le braccia un po’ troppo muscolose e pelose. E il seno praticamente piatto, come un’asse da stiro.

Le oscillazioni del cadavere ipnotizzavano i curiosi, imponendo nei più un silenzio totale, rispettoso e ambiguo, rotto dal ritmo di una musica dolce e martellante che risuonava in lontananza, Djamballà, il dio serpente, e da alcuni commenti a bassa voce: «Sarà una di strada», «Ma no, è vestita troppo bene, questa è roba da quartieri alti», «Ma non ci sono denunce di scomparsa? Una così avrà un marito e un amante, un cugino…».

La brezza aveva scoperto meglio i piedi, attaccati a caviglie ben poco sottili. Una scarpa, la sinistra, era fradicia e gocciolava. Com’era possibile? Il corpo era stato estratto dall’acqua? Impossibile, l’altra scarpa e l’abito erano asciutti. Binda annotò ogni dettaglio sul suo taccuino nero e continuò a osservare. Di chi era quel corpo decapitato appeso sul Naviglio, infilato in eleganti abiti femminili, con la schiena magra ma muscolosa, lasciata nuda dalla cerniera aperta? No, non era di una donna, si disse. Guardò meglio: nell’abito color pervinca era stato infilato una specie di bastoncino di legno: sembrava l’archetto di un violino.