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Le luci si abbassarono e poi si riaccesero segnalando l’inizio imminente di un concerto che, se non si fosse dissolta nella scighera di Milano, avrebbe dovuto tenere Victorjia Novgorodova. Nella sala dell’Angelicum il brusio aumentò e gli spettatori cominciarono a cercare la fila, il numero della poltrona, a chiedere permesso e a prendere disciplinatamente posto. Aleggiava nel pubblico la percezione di partecipare a un piccolo evento: c’era, al posto della violinista scomparsa, uno sconosciuto lituano. Era stato scelto da una qualche autorità musicale di Leningrado, era preceduto da poche note biografiche cariche di elogi. Insomma, a fine serata ci sarebbe stato qualcosa da raccontare.

Zimbalist e Binda avevano due poltrone in settima fila, ma si stavano attardando nel corridoio: il maresciallo non mollava la presa e proseguiva il bombardamento delle domande. «Adesso si concentri e mi dica se vede qualche volto noto. Chi sono quelli che parlano fitto fitto laggiù, in piedi davanti alla prima fila? Uno lo conosco, mi pare sia un avvocato.»

Il direttore di sala del Conservatorio, ansimando ma senza protestare, provò a sistemare meglio lo smoking sulla pancia sporgente come la prua di un rimorchiatore e indicò i membri del gruppetto. Ecco il console, o viceconsole, insomma un diplomatico russo, mister Asanovic, appena arrivato in Italia. Aveva una faccia liscia e magra, degna di un asceta, «e sentisse come parla la nostra lingua, persino con l’accento milanese! Questi della Cortina di Ferro sono molto, mooolto competenti». Accanto a lui, con le spalle larghe contenute a stento da uno smoking che aveva visto tempi migliori, «il Livraghi, quello è un pezzo grosso, un contrammiraglio, l’ex addetto militare dell’Ambasciata italiana a Mosca, da quando è tornato in Italia è uno dei nostri spettatori più assidui, be’, può chiedere a lui se conosce Victorjia, o se sa qualcosa di lei o del suo amante italiano in Russia, per scremare la rosa dei sospetti». A Binda parve un buon suggerimento. Non solo. Gli sembrava anche di conoscerlo, ma non sapeva collocarlo: l’aveva visto di recente, ma dove, in che circostanza?

Accanto al contrammiraglio, con un gessato blu, gigioneggiava l’avvocato Della Gilda. Era troppo ignorante e cafone per meritarsi l’appellativo di “principe del foro”, non era un Gian Domenico Pisapia, un Alberto Dall’Ora, un Gianfranco Maris, ma da penalista si lanciava come un kamikaze in grandi battaglie per grandi imputati. Li difendeva parlando immancabilmente di “complotto”, di “indagini a senso unico”, di “furore investigativo”; i magistrati non lo sopportavano e lui se ne compiaceva. Toni e parole a parte, non era molto apprezzato nemmeno dai carabinieri: l’avevano intercettato in una serrata discussione con un boss mafioso, e non si capiva chi dei due prendesse ordini.

«E qualche faccia nuova? Qualcuno che dovrebbe esserci e non c’è, o viceversa…» chiese Binda.

«Ma no… Oddio, se proprio mi ci fa pensare, mancano le mogli del diplomatico e dell’avvocato. Di solito vengono insieme e vanno a cena al ristorante toscano di via Fatebenefratelli. Oggi al posto delle signore ci sono altre persone. Amici del console, direi, hanno l’aria così… sovietica, non trova?»

Il maresciallo osservò meglio il gruppetto. E, come se avesse un sesto senso, uno di loro si girò e lo guardò negli occhi. Era Stavrogin.

«Ah, no, quel signore bassino, ora che s’è girato lo riconosco» disse Zimbalist.

«E dove l’ha conosciuto?» si preoccupò Binda. Il piccolo russo – o ucraino che fosse – era dunque tornato a Milano, se mai era partito davvero. In ogni caso, dopo aver ottenuto quello che voleva, la pubblicazione sui giornali del macabro messaggio, non s’era più fatto vivo con lui.

«Metti una sera a cena. Cioè, un momento: niente di morboso, e non c’era nemmeno Florinda Bolkan, ma mi ha invitato a mangiare fuori. C’era anche Victorjia, me l’ha presentato lei. Mi pare che sia un francese giramondo, uno che conosce tutti. Ci ha fatto una donazione, so che è imprenditore, ha una fabbrica a Marsiglia che si occupa di elettronica.»

“Una fabbrica di elettronica a Marsiglia? Un francese?” si domandò il maresciallo, sempre più stupito. Sia dalle menzogne, o dalle omissioni, di Stavrogin, che non gli aveva detto di conoscere l’artista scomparsa. Sia dalla sua capacità di mimetizzarsi.

«Abbiamo passato una serata fantastica. Ha presente quel film di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, di tre o quattro anni fa? Il francesino dice che dagli umani del 2001 quel film sarà considerato preistoria, sulla Terra saremo molto più avanti, per esempio non useremo più la macchina per scrivere e tutte le comunicazioni passeranno dalle televisioni, o da qualche cosa di simile. Be’, speriamo, perché a guardare l’Italia di oggi, e la guerra fredda tra USA e URSS, e le guerre calde in Africa, l’apartheid, non me la sento di condividere il suo ottimismo. Anzi, siamo sempre tutti lì lì per entrare nella Terza guerra mondiale, che durerà pochi giorni, e si concluderà con il ritorno al Pianeta delle scimmie.»

«Ma questo francese è un altro appassionato di musica?»

«Più che di musica di musiciste, direi.»

«E com’è andata la serata tra lui e Victorjia?» domandò l’investigatore mentre le luci si accendevano e si spegnevano di nuovo.

«Io la accompagnavo sempre al Diana in taxi e venivamo seguiti immancabilmente da quegli antipatici dei suoi angeli custodi. Così di solito la lasciavo sulla porta, ma quel giorno mentre eravamo per la strada mi aveva detto, come se si fosse ricordata all’improvviso, di aver ricevuto da Mosca il permesso per una serata libera. Aveva deciso di accettare l’invito di questo ricco e giovane industriale, e avrebbe avuto piacere se io l’avessi accompagnata. Siamo stati insieme in un buon ristorante toscano, L’Assassino, poi io sono andato via, e lei…»

«Non sia timido.»

«Una donna divorziata, russa, comunista, senza il senso del peccato di noi cattolici, la nostra violinista… insomma, m’ha capito, no?» disse Zimbalist con un filo di voce. Doveva avergli dato non poco fastidio quella serata tra la violinista e il molto presunto francese. E gliene avrebbe dato molto di più, pensò Binda, se avesse saputo che quel biondino era russo, o ucraino, ed era a capo delle operazioni del KGB nell’Italia del Nord. Ovvio che le avessero dato il permesso di gozzovigliare con Stavrogin.

«Il giorno dopo è arrivata con alcune ore di ritardo alle prove… e di solito era puntualissima.»

«E come le è sembrata?»

«Normale, a parte gli occhi un po’ allucinati, troppo brillanti, però non ho chiesto niente, non sarebbe stato polite

Binda registrò anche quell’ultima informazione. Quindi Stavrogin conosceva personalmente la violinista. Non era sorpreso che gliel’avesse taciuto: come responsabile del KGB probabilmente curava direttamente alcuni personaggi importanti per il Partito nei loro viaggi all’estero. Ma cosa accomunava lo spione vestito da dandy e la bella musicista tornata con gli occhi “brillanti”? Se la fiducia si guadagna goccia a goccia, ma si perde a litri, sin dal primo incontro Stavrogin era un serbatoio in riserva.

Le luci dell’Angelicum si accesero e si spensero definitivamente. Si levò un breve applauso all’apparire del musicista chiamato a sostituire Victorjia: un sessantenne con le spalle larghe, una pancia ragguardevole, gambe snelle e lo sguardo intelligente. Fregandosene degli applausi afferrò l’archetto come se fosse la testa di un pericoloso serpente da strozzare, con la sinistra innalzò il violino al cielo, l’abbassò, l’infilò sotto il collo massiccio e, mentre il pubblico rabbrividiva, la voce dello strumento si diffuse limpida e cristallina, arrivando fin dentro il cuore di Binda. Quell’uomo tozzo suonava come se cavalcasse il suo pezzo di legno con l’abilità e la forza di un fantino che sta addosso al purosangue e lo incita a vincere. Era prodigioso.

«Come s’intitola?» domandò Binda, in estasi per l’abilità dello sconosciuto: per alcuni minuti aveva dimenticato le ragioni per cui si trovava dentro l’Angelicum.

«La ronde des Lutins, di Bazzini» rispose Zimbalist.

«E chi sono questi Lutins? Fanno la guardia a chi?»

Il ventre del direttore di scena sussultò. «Ma lei è sospettoso persino sulla musica! Per gli inglesi è The round of the goblins, noi italiani diciamo “la ridda dei folletti”.»

«Di chi?» domandò. Non aveva compreso la parola.

«Folletti, gnomi, nanetti magici, piccoli esserini favolosi, non avverte che non c’è nulla di militare o di angosciante?»

«È un ballo forsennato.»

«Infatti occorre grande abilità tecnica: questo brano era stato scelto dalla Victorjia apposta per noi. Un omaggio a Milano. Deve sapere che Antonio Bazzini è stato direttore del nostro Conservatorio, non solo un compositore. Lo spartito di stasera è quello della celebre trascrizione di Zino Francescatti, grande violinista, grande uomo e anche grande giocatore di scacchi, come Isaac Stern, come Ojstrach, come Leonard Bernstein.»

«Shh» disse uno spettatore alle loro spalle.

Il maresciallo si scusò, ma aveva ancora in serbo una domanda. Aspettò che si levassero gli applausi alla fine del brano e chiese a Zimbalist: «Ma i pezzi sono sempre gli stessi o cambiano di volta in volta? E chi li sceglie?».

«Victorjia, ovvio. È stata lei a volere per primo Bazzini. Adesso seguirà un compositore francese, che personalmente considero un minore, Massenet con Thaïs. Voglio proprio ascoltare come l’interpreta un uomo. Bravino, però, il bovaro lituano, non trova?»

Thaïs? Gliene aveva parlato Stavrogin: era l’abito di Thaïs che aveva permesso la grande esportazione di gioielli rubati.

«È la storia romantica di una sacerdotessa dell’amore, Taide» spiegò Zimbalist, «talmente sensuale da mettere in crisi decine di uomini e accendere di passione persino un asceta, finché all’improvviso cambia e sceglie la castità.»

«E ci riesce?»

«Lei sì, ma c’è sempre uno che ama e uno che si lascia amare: il monaco, dopo tanta astinenza, non può resistere ai no di Taide, e scoppia una tragedia.»

Mentre il corpulento violinista riusciva a lanciare nello spazio un lamento sorprendentemente sottile, femmineo, delicato e un po’ malsano per un folletto, il direttore di scena del Conservatorio aggiunse a voce bassissima: «Il concerto, dopo i due brani, fa una pausa e si chiuderà con l’Inghilterra, con il Salut d’Amour. Come avrà notato non ha scelto russi, nemmeno il suo amato Ščedrin. Ha messo in programma tre pezzi non comuni, mi ero ripromesso di discutere con lei i motivi della sua scelta e invece…».

«Shh!»

«Rob de ciod, state ziti!»

«L’è minga San Siro, che ignoranza, che gent!»

Nella testa di Binda si stava formando un’idea. Massenet Victorjia l’aveva scelto, o gliel’avevano scelto, per l’abito con i gioielli cuciti, era una necessità. I folletti potevano anche essere un omaggio al suo amore milanese. Forse solo il Salut d’Amour costituiva la sua vera scelta: ma era un salut al suo pubblico oppure alla Russia? O al suo innamorato? Quella donna restava un mistero, né poteva essere diversamente in quella fase delle indagini.

Il concerto stava finendo, Zimbalist tra il primo e il secondo brano s’era scusato con i vicini, invitandoli gratis al Conservatorio, e poi, sugli applausi, era corso in bagno, senza riuscire a tornare in tempo. Aveva fatto cenno a Binda ed era rimasto in piedi accanto alle tende verdi, sotto il palco. Non appena si levarono i «Bravo!», i «Bis!» e i battimani dopo l’ultimo brano, il maresciallo si girò per vedere dove fosse finito e notò tra la folla ben vestita il barbone scuro e l’improbabile giubbotto del vicebrigadiere Bertacchi. Ma che ci faceva là? Non avrebbe dovuto pedinare il ladro di via Melzo? C’era anche Giudici, chiuso in un trench da tenente Sheridan. Marciavano fianco a fianco con aria bellicosa e attenta. Al solo vederli alcuni spettatori, già in piedi e pronti a uscire, erano arretrati di due passi. Binda alzò il braccio, per farsi notare, e in quel momento risuonò inconfondibile il rumore di uno sparo. E ne seguirono altri: riecheggiavano in un fumo densissimo, rosso cupo, da stadio, da curva del Milan, che aveva invaso rapidamente la platea. Qualcuno gridò «Al fuoco, al fuoco!» e un coro di urla spaventate scatenò un’ondata di corpi. A decine gli spettatori si lanciavano su sedili, corridoi e tendaggi. Chi cercava di guadagnare l’uscita usava le braccia come remi.

«Cristo, stavamo pedinando Gingerino, maresciallo, e adesso ci hanno fottuto» sentì dire da Bertacchi.

E che ci faceva il ladro d’auto all’Angelicum?, si domandò Binda. Il denso fumo rosso aveva ormai ricoperto le prime file e il palco. Chiunque avesse premuto il grilletto si stava proteggendo la fuga: un “chiunque” che aveva con ogni evidenza un piano ben organizzato. Ai danni di chi? Per ottenere cosa?