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Gli angioletti di marmo accanto al bassorilievo sul portone della chiesa di Santa Maria della Passione sembravano ascoltare, con aria da intenditori, la musica che dalla sala del Conservatorio volava dolcemente sin nel piccolo piazzale di ciottoli sconnessi. Si riconosceva la voce imperiosa del violino, ma il maresciallo Binda, grande appassionato di Beethoven, non avrebbe potuto sbilanciarsi sul titolo del pezzo e sul compositore. Era là per indagare su un omicidio tremendo, eppure appena superò l’arco della porta e arrivò alla biglietteria, incuriosito da quel frin de violin, prese un programma di sala.
Lesse: “Massenet: Meditation from Thaïs, Elgar: Salut d’Amour, Bazzini: La ronde des Lutins”. Ne sapeva quanto prima. Mostrò il tesserino dell’Arma: «Buonasera, può aiutarmi? Con chi posso parlare della scomparsa di Fabrizio Pasteur?».
«E chi sarebbe?» chiese la ragazza alla cassa senza alzare lo sguardo dalla “Settimana enigmistica”.
«Il magazziniere.»
«Mai sentito» continuò lei, togliendosi una matita dalla crocchia dei capelli e scrivendo una parola. «Pasteur, come l’inventore della penicillina, giusto?»
«L’inventore della penicillina è Fleming. Non ho tempo da perdere, signorina, mi chiami il suo superiore, per cortesia.»
La musica che l’aveva colpito al suo arrivo continuava a diffondersi. «E mi scusi, cosa stanno suonando adesso?» domandò.
«Io conto i soldi, di musica non so un fico secco» rispose la cassiera, aggiustandosi la gonna al polpaccio e andando a cercare il direttore di sala. Una ragazza così sgarbata lui l’avrebbe licenziata in tronco.
Un uomo alto non più di un metro e settanta, sui novanta chili, pallido, con il doppio mento e la pancia in fuori, un ciuffo di capelli lunghi, radi e tinti di un nero che ricordava il limo dei fiumi arrivò di corsa, tendendo la mano gonfia come un panzerotto. «Maresciallo» esordì con la voce flebile che a volte tocca in sorte ai grassi, «sia il benvenuto se porta notizie sulla Novgorodova…»
«Sulla…? E chi sarebbe?»
Il sorriso fin troppo amichevole del direttore di sala si spense. «Come, chi sarebbe?» Lo smoking su misura sembrò diventare di marmo, mentre il volto passava rapidamente dalla delusione all’indignazione. «È la violinista russa che tutti stanno cercando: il mondo intero tiene il fiato sospeso per Victorjia. È scomparsa un mese fa e lei, un carabiniere, non sa nulla? Non sa nulla, lui, poverino… l’ignaro» aggiunse, rincarando la dose e fissando Binda negli occhi.
Un’altra persona scomparsa a Milano? Una violinista russa svanita nello stesso luogo di lavoro in cui era scomparso Fabrizio Pasteur? Una che addirittura teneva “il mondo con il fiato sospeso”? Una russa, che usava quindi i caratteri cirillici? Dopo l’informazione sui gioielli e sul “colpo che ti sistema per tutta la vita” era ancora possibile ipotizzare che fossero pure e semplici coincidenze? E come mai gli era sfuggita quella notizia?
Pensò che un mese prima, e dunque alla fine del ’71 – e il ’71 era stato un anno pesantissimo, chiuso con le sue ferie lunghe, da Natale all’Epifania – no, non sempre aveva comprato i giornali. E in caserma nessuno aveva avvisato la sua sezione. Né ne avevano parlato nelle riunioni, dove tenevano banco i sequestri, le bische, banditi come Turatello e Michele Argento e Graziano Mesina, i giovani estremisti neri e rossi. Un pensiero lugubre gli attraversò la mente: “Speriamo che abbiano avuto ragione a non mandarmi alcun fascicolo su questa signora”. Ma come se non si fosse svegliato male al mattino e non stesse correndo dall’intera giornata, Binda si sentì improvvisamente carico di energie. Il ciccione in smoking, al solo osservarlo, ne restò colpito. «No, no, lei sa qualche cosa e vuole farmi un saltafosso, è la vostra tecnica.»
«Nessun saltafosso.»
«Ma insomma, come faccio a farvi capire che a Milano non c’è nessuno più danneggiato di me dall’assenza di Victorjia? Io le voglio bene!» concluse con tale enfasi che i capelli scuri si spostarono, rendendo molto più marcati i suoi lineamenti. A Binda venne da pensare a un telefilm che aveva visto sul Secondo canale cinque o sei anni prima, in cui Carolyn Jones interpretava Morticia Addams. S’impedì di sorridere: «Glielo ripeto, io non conosco questa Victorjia».
«E allora cosa è venuto a fare in Conservatorio?» domandò l’altro, fissandolo con uno sguardo da cocker.
«Comunque, visto che ci siamo, finisca di raccontarmi: come descriverebbe in poche parole questa signora russa?» chiese Binda, evitando di rispondere alla domanda.
«Un’artista da brivido caldo, nata per suonare strabene, donna dalla bellezza speciale, una meraviglia del creato. Una dea» rispose il ciccione.
Nel sentire la parola “dea” Binda ricordò che forse aveva letto su un settimanale una notiziolina su una russa scomparsa a Milano, ma non ci aveva pensato su più di tanto. Molti musicisti, ballerini classici, sportivi, lasciavano l’URSS appena la fama e il talento glielo consentivano, e poi li si ritrovava a passeggiare sulla Quinta Strada a New York – mentre lui aveva sin troppo da faticare con gli italiani.
«Un carrierone internazionale di assoluto prestigio, molti premi vinti, compreso un Niccolò Paganini a Genova, nel ’64, quando aveva dodici anni. S’era sposata con un famoso direttore d’orchestra georgiano, caro a Stalin, molto più vecchio di lei, ha divorziato, ha in patria una o due figlie, e può girare il mondo e suonare con le grandi orchestre, meno che in America: là non può andare per ordini superiori. Lei l’ha mai vista? Venga nel mio ufficio, le rammostro qualche foto.»
Binda lo seguì. Sulla porta c’era scritto MIKLOS ZIMBALIST, DIRETTORE DI SALA. Una larga scrivania di noce occupava metà della stanza. Era coperta di libri, raccoglitori, locandine, pipe, dischi e persino un mezzo panino mummificato e striato di blu come un lapislazzulo. Sotto una piramide di ritagli di giornale, alcuni unti d’olio e macchiati di pomodoro, c’era una macchina per scrivere Olivetti 22 color arancione. L’uomo frugò in quella specie di pagliaio per estrarre un piccolo album con la copertina di cuoio amaranto. «Victorjia Novgorodova» disse con orgoglio, come se stesse presentando la figlia prediletta al futuro consuocero.
Binda aprì l’album. Nel primo foglio la violinista era ritratta con i capelli sulla fronte e un violino nella mano sinistra. Un lampo di malizia nelle pupille, così evidente da ricordare al maresciallo lo sguardo di un’ereditiera finita in manette per l’omicidio del marito, traditore seriale. Secondo foglio: Victorjia con gli occhi trasognati e le belle labbra appena dischiuse; impugnava un archetto – forse lo stesso che avevano trovato nell’abito color pervinca del cadavere – come se fosse un manganello poliziesco. Nel terzo Victorjia esibiva un sorriso sbarazzino davanti al fotografo mentre il vento sollevava dal collo esile una sciarpa con un motivo a stelle, probabilmente rosse, a cinque punte; e poi ancora Victorjia Novgorodova fasciata in un abito da sirena, il seno tondo, almeno una terza misura, capelli alla Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany… e così, foglio dopo foglio, la violinista si mostrava in tutto il suo splendore di trentenne.
«In effetti, è di notevole bellezza… molto moderna, si può dire?»
«Appunto» disse il direttore di sala.
«Appunto cosa, signor Zimbalist?»
«Una donna così notevole, così famosa, kalòs e agathòs, non può scomparire nel nulla. O ce l’hanno gli americani, e tra un po’ la vediamo passeggiare a New York sulla Quinta con qualche direttore d’orchestra più bello, giovane, ricco e democratico dell’ex maritino sovietico…»
«Ho pensato esattamente la stessa cosa.»
«Oppure l’hanno presa quelli che l’accompagnavano alle prove. Erano in due, sempre. Un autista e un tuttofare, gente della Gestapo.»
«Non c’è più la Gestapo, che tra l’altro era dei nazisti. I russi hanno il KGB.»
«Sempre polizie sono. Mi scusi, cioè… non volevo offendere, noi in Italia, tentativi di golpe a parte, siamo diventati democratici, no, maresciallo?»
«La scomparsa della violinista risale a un mese fa, diceva…» tagliò corto Binda, che non apprezzava le battute di spirito sulla fragile democrazia italiana.
«Sì, durante le vacanze di Natale. Non si sa esattamente il giorno, è probabile che sia successo la notte tra il 27 e il 28. Noi avevamo un appuntamento qui per le prove, il 30, e non si è presentata, abbiamo chiesto al suo hotel, l’hotel Diana, saprà dov’è…»
Il Diana: poco più in là c’era via Sirtori, altri due passi ed eri in via Melzo, dove abitava Fabrizio Pasteur. Un’altra coincidenza? Impossibile. Cos’aveva detto Pasteur a Gingerino? «Faccio duecento metri e li prendo.» I gioielli. Li avrebbe trovati all’hotel Diana? Era, a ragion veduta, un’ipotesi più che probabile. Ma, considerando quanto Zimbalist si stesse dimostrando apprensivo, doveva procedere con cautela nelle domande. «Non si agiti se le dico che non sono venuto per questa magnifica violinista scomparsa, ma per un’altra persona che non si trova più da giorni, e cioè il vostro magazziniere.»
Il direttore di sala appoggiò la larga schiena alla sedia e incrociò sullo stomaco sporgente le braccia, che tendevano le maniche dello smoking come salsicce in un budello troppo stretto. «Cioè, lei sarebbe venuto qui non per Vicky ma per… come si chiama?»
«Pasteur Fabrizio, di anni trentasette.»
«Ah, certo, il piccolo Pasteur.»
«Perché quella faccia, signor Zimbalist?»
«Cos’ha adesso la mia faccia?»
«Lasciamo stare. Pasteur Fabrizio, che sa di lui?»
«Non ci posso credere, cioè… Ma è chiaro, se questo è il livello professionale delle indagini, se tutti gli assassini in Italia la fanno franca, se…»
«I commenti se li risparmi, d’ora in poi. E favorisca i documenti, mi servono per il verbale.»
Alla parola “verbale” Zimbalist scattò in piedi: il pallore del suo volto s’era fatto ancor più accentuato. «Mi sta arrestando?»
«Lei non conosce la legge. Io non l’accuso di niente, ma ho bisogno di cristallizzare quello che mi dice. Poi lo ripeterà in caserma, ma visto che siamo qui, e che c’è una macchina per scrivere, scrivo. Avanti, a domanda risponda. Quando è scomparso, Pasteur Fabrizio, di anni trentasette? Ha forse rubato qualcosa? Qualcuno lo ha denunciato? Vi manca qualcosa che nella denuncia del capoattrezzista non c’è? Gioielli? Strumenti musicali preziosi? Lo riconosce in queste fotografie?» chiese, prendendo dalla tasca le immagini estratte poco prima dalle cornici del trilocale di via Melzo.
Miklos Zimbalist, nel vedere Pasteur in foto, arrossì, tossì e si schiarì la voce: «È una coincidenza? La scomparsa di ’Torjia a dicembre, e adesso il magazziniere? E lui che fine ha fatto? Dov’è?».
«Ascolti, non si agiti. Beva un po’ d’acqua e mi dica tutto quello che sa su Pasteur, senza tralasciare nulla, e si ricordi che le domande qui le faccio io» replicò Binda.
«Le indagini le fate voi, le domande le fate voi, ma i risultati?» protestò ancora il direttore di sala, estraendo tra due tomi dedicati alle opere di Mozart una bottiglia di sambuca.