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Dopo aver visto i tre caramba confabulare tra loro, e due andarsene via un po’ scocciati, gli inquilini non mollavano l’unico rimasto sul ballatoio: «Lei ci sta nascondendo qualche cosa».

Binda negò, invano. La cartomante continuava a scrutarlo: «Io lo so perché sono una sensitiva, lei non è sincero. Magari lo fa per lavoro, perché è il suo dovere, ma ci ha mentito». Poi, abituata da sempre a controbattere allo scetticismo altrui, gli sbarrò il passo: «Lei non crede al mondo extrasensoriale, vero?».

A una domanda simile il maresciallo non poteva rispondere come avrebbe voluto fare e rimase inespressivo, mentre la donna, toccandosi la collana d’opale nero come se fosse una tastiera, continuava la sua orazione: «Invece nel quartiere lo sanno tutti che ho le vibrazioni, a lei ho trovato l’anello che aveva perso, diglielo».

Una trentenne in cappotto giallo annuì, socchiudendo le palpebre pesantemente truccate.

«E ai suoi amici del terzo piano ho indicato il luogo e l’ora dove presentarsi per essere assunti. In questo momento, il mio spirito guida è in comunicazione con il suo» precisò la siciliana, pressandolo con il suo seno prorompente contro i vasi rettangolari appesi alla ringhiera, colmi di fiori secchi, residui dell’estate passata e ormai dimenticata. Stretto tra quelle molto diverse protuberanze, che restringevano ulteriormente lo spazio già angusto del ballatoio, Binda riuscì a svicolare grazie a una risata sonora: «Magari avessi uno spirito a guidarmi nelle indagini, risolverei tutto senza fatica, sciura».

«Lei non crede nell’Aldilà, va benissimo. È scettico, perfetto, ma mi dica: c’è qualcosa che vuole sapere? Soldi, amore, salute? Uno con la sua faccia secondo me fa tribolare le donne. Le hanno mai detto che assomiglia ad Amedeo Nazzari? Sarà per quei baffi così ben curati, la sua aria distinta…»

Messi i sigilli alla porta del trilocale di Fabrizio Pasteur, il maresciallo cercò di cavarsela con un’altra battuta: «La ringrazio per i complimenti, ma deve sapere che ho già troppi problemi nell’Aldiquà e non posso pensare ai messaggi dell’Aldilà». Ma la cartomante insisteva perché andasse a casa sua: gli avrebbe letto il futuro con calma, senza fretta, disse, e aveva anche un buon vino arrivato da Partinico… insomma, cosa doveva fare Binda per non essere scortese in quella casa di ringhiera diventata fondamentale per l’indagine? «Però non voglio conoscere il futuro» la avvertì.

«Le leggerò il passato allora: vediamo, mani forti, salde… lei ha il segno del matrimonio, figuriamoci se non era stato già ciapato, giusto? E ha un solo figlio, un maschio, un ragazzino.»

«È vero.»

Un «oh» di approvazione si levò dalla piccola folla di inquilini.

«E ha appena ricevuto un’eredità. Giusto?»

Un po’ stupito, il maresciallo annuì di nuovo, e il volume degli «oh», «hai visto», «ne ha azzeccata un’altra» salì di tono. Okay, aveva una moglie, Rachele, e l’Umbertino, e il fratello di suo padre, morto senza figli, gli aveva lasciato tre milioni di lire.

«Ma non è più stato felice in amore da quando la sua fidanzata, il suo primo amore, l’ha lasciata e ha sposato un altro.»

«Completamente falso» disse Binda: lui e la sua prima ragazza s’erano lasciati diciamo di comune accordo, poi effettivamente lei aveva sposato un industriale della seta e s’era trasferita a Lecco. Una volta, tanto tempo prima, era anche andata a cercarlo, e gli si era offerta. Una storia dimenticatissima, e lui, via, si sentiva felice. Be’, se non felice, almeno tranquillo e appagato. O no?

Strappò la sua mano da quelle calde e palpitanti della sensitiva, che lo guardava soddisfatta facendo segno agli altri inquilini, come se avesse appena vinto un premio.

«Me racumandi, se il vostro amico torna, se vi ricordate o venite a sapere qualcosa, questo è il numero di via Moscova, dove chiamare» disse salutando uno per uno gli inquilini di via Melzo 5.

Gli dispiaceva mentire, non avvisarli che il loro amico era stato ammazzato, ma non poteva compromettere un’indagine così complessa. Quando arrivò all’uomo in tuta che gli aveva strizzato l’occhio domandò: «Per andare al Conservatorio, a vedere dove lavorava il vostro amico, che mezzi prendo?» e strizzò anche lui l’occhio.

«Esce da qui, va in via Bixio, a sinistra, là passa il 23, lo aspetta, direzione centro…»

«Lo aspetto in direzione centro.»

«Esattamente.»

Quell’uomo gli ricordava qualcuno, ma non riusciva a mettere a fuoco il messaggio della memoria. Lo attese in via Nino Bixio e lasciò passare due tram pensando al suo primo amore e a quando lei, sposata e inappagata, era andata a cercarlo sulla spiaggia di Abbadia Lariana. L’aveva portato dove finivano i sassi, s’era tolta il pezzo di sopra del bikini e aveva sussurrato: «Non l’abbiamo mai fatto sino in fondo». Avevano colmato la lacuna quel giorno, quella notte e il giorno successivo, poi era arrivato il marito a riprendersela, la Monica, e non l’aveva più rivista: ma tanto lei era una che s’annoiava presto di tutto e di tutti, chissà che fine aveva fatto. Se quei pensieri lo avevano messo di cattivo umore in una giornata già difficile, la ciliegina sulla torta arrivò attraverso il finestrino di una magnifica Mercedes 250SL color carta da zucchero, lucida come il cielo delle Grigne al mattino, dal quale spuntava, incorniciato dalle basette, il volto dell’uomo che aspettava: «Maresciallo, salga. L’accompagno in Conservatorio, e mentre andiamo, se quello che le dico resta tra noi…».

«Tra noi, tra noi! Non so nemmeno chi è lei, o cosa vuole dire» sbottò Binda maledicendo il suo mestiere. Decise di fidarsi e salì accanto allo sconosciuto, che partì sgommando verso viale Piave. «Sì o no, maresciallo?» insisté l’uomo, inserendosi con una manovra spericolata ma precisa nel traffico di piazza Fratelli Bandiera. La radio trasmetteva una famosa canzone di Lucio Battisti, uscita forse due anni prima – Emozioni… tu chiamale, se vuoi, emozioni – ma il guidatore, guardando un po’ il maresciallo e un po’ la strada verso i Vialoni, abbassò il volume e rimase in silenzio, in attesa di una risposta che non poteva piacergli.

«Sì o no? È no, tu sei un pregiudicato» disse infine Binda passando al tu. «E sei nervoso perché sono un carruba…»

«Maresciallo, allora è un sensitivo anche lei.»

«Già, vedo i certificati penali.»

«Non sono un santo, ma ho un papello profumato come un giglio bianco. Glielo può confermare il Pecora, il mio avvocato, anche se…»

«Anche se?»

«M’hanno indagato i questurini per qualche storia di macchine. C’è un siciliano che ha fatto di tutto per incastrare me e un amico come trafficanti internazionali d’auto rubate, ma siamo stati sempre prosciolti.»

«Lo conosco, il Pecora, e magari conosco anche il tuo amico, se si chiama Dione, vale a dire Spiridione, e conosco anche il poliziotto siciliano. Poi chiedo a tutti che razza di pesce sei, non ti preoccupare… intanto rallenta, per piacere, che non stiamo andando all’autodromo, e poi…»

«Poi niente, maresciallo, niente di niente. L’ho cercata io, sì o no? Non sto qui per mettere il culo davanti al calcio, è che sono preoccupato, molto. Il povero Pasteur per me l’è bel e che mort.»

In effetti l’avevano trovato decapitato e in bocca gli avevano infilato un foglietto con una scritta in cirillico. E come c’era arrivato, quel ladro d’auto dal certificato profumato come un giglio, a ipotizzare la fine del vicino di casa? Evidentemente aveva informazioni di prima mano. Informazioni che fino a quel momento aveva tenuto per sé.

«Come fai a dire una cosa del genere…» lo esortò Binda.

L’uomo si accarezzò con entrambe le mani i basettoni, dall’alto in basso, tenendo il volante con le ginocchia: «Martedì sera dovevamo vederci a casa sua. Siamo amici, amici veri, anzi, è come se fosse il mio fratellino di latte. Ho un doppione delle chiavi e sono entrato, l’ho aspettato… boh, mai più visto».

«Scomparso da un momento all’altro?» domandò Binda. Martedì? Bisognava retrodatare di un giorno la scomparsa? Dov’era stato Pasteur per quattro giorni?

«Come un coniglio nel cilindro del mago Silvan. C’era in frigo la birra che mi piace, e l’ho bevuta io, e ho anche guardato la TV, quindi se trovate le mie impronte sarà per quella ragione, e non per altro.»

«No?»

«No» confermò il ladro.

«Posso pure crederti, ma se ci sono le impronte sarai interrogato di nuovo, ufficialmente. Lo sai benissimo. Quindi se hai da dire qualcosa dilla adesso, visto che mi hai voluto parlare tu.»

«Lasci perdere le carte e i sospetti, non c’entro con la sua scomparsa. Se guardate nel frigo ci sono ancora le bistecche, tra due piatti.»

«Le ho notate, le fiorentine.»

«Se Fabrizio fosse andato via di sua volontà non avrebbe speso soldi dal macellaio. E comunque mi avrebbe avvisato. Dev’essergli capitato qualche incidente» disse il guidatore, rimettendo le mani sul volante e frenando bruscamente per non tamponare una 600 che si era fermata allo scattare del giallo al semaforo, «forse è privo di conoscenza in qualche ospedale e non può avvisarmi.»

«Come mai hai le sue chiavi di casa?» chiese Binda.

«Conosco Fabrizio da quando la mamma lavorava con Lola Gracy e lui era alto così, se ne occupava la mia fidanzata del tempo.»

«Però. Con Lola Gracy, la bomba di velluto?» si sorprese il maresciallo. Ricordava che nei primi anni di servizio era stato mandato al teatro Alcione, ma non in piazza Vetra, bensì in via San Vito, all’uscita degli artisti. In due non erano riusciti a proteggere la soubrette e il suo autista da un gruppo di calorosi fan foggiani, che con la scusa dell’autografo avevano cercato di allungare le mani.

«Esatto, ma la Lola faceva i soldi e la Lisette, la mamma di Fabrizio, no. E poi le fatiche della tournée erano pesanti, non reggeva, perciò è passata alle Maschere.»

«Allo spogliarello?»

«Già, lei e Rita Cadillac erano le uniche che quando non c’era la Buoncostume si levavano anche il pezzo di sotto. Ma anche qui, l’istess. La Cadillac è la Cadillac, Lisette no, e ormai mancava poco alle marchette sui Bastioni. S’è fatta scaricare da un industriale dei frigoriferi, dal farmacista di Porta Romana, dal padrone del ristorante Alla Vecchia Contrada della Lupa, balordo di uno, finché, spariti tutti, anche l’ultimo, un postino che voleva diventare un garga, ha cominciato a mantenerla il Fabri. Un ragazzo d’oro.»

«Lo stipendio del Conservatorio è così alto?»

«C’è lo stipendio e c’è che ci si arrangia in questo mondo difficile» rispose il ladro. Le basette che gli incorniciavano il volto e il naso, piccolo e adunco, lo facevano somigliare – ecco perché gli era sembrato di conoscerlo – a una civetta, all’“uccello del malaugurio”.

«Pasteur ha un doppio lavoro? Di che tipo?» chiese ancora Binda.

«Doppio lavoro, doppia schiavitù.»

«S’arrangia in che ramo, allora?» riprovò il maresciallo, sforzandosi di non perdere la gentilezza con chi gli stava dando buone informazioni. Discutere con gente a cui bisogna strappare le parole di bocca faceva parte del mestiere, lo sapeva. Zucch e melon a la soa stagion, ogni cosa a suo tempo, diceva il proverbio. Anche se a volte sprecare un singolo, prezioso minuto lo angosciava così tanto che, contravvenendo alla sua natura e ai doveri d’ufficio, avrebbe aperto più che volentieri qualche melon per guardarci dentro.

«Tutti i rami, meno la droga e la violenza» rispose il ladro, sempre ambiguo.

«Ramo macchine rubate? Non è che il Pecora difende anche lui?»

«Nisba, Fabrizietto è bianco.»

«Manca poco al Conservatorio e ancora non so perché sono salito sul tuo bel macchinone. O mi dici come stanno le cose o la finisci qua, guarda… e manco ti convoco in via Moscova: ti segno sul mio libro nero» disse Binda, mostrando con calma il taccuino.

Il discorso, o forse il tono di voce, oppure l’abitudine a evitare rogne con gli sbirri fecero effetto. «Io e Fabrizio qualche volta abbiamo fatto insieme qualcosa. Al Conservatorio, dove lavora lui, ci sono gli abbonati. Lui sa quando qualche vecchietta che abita sola va al concerto, me lo segnala, io a mia volta lo segnalo a chi apre le marmotte, dieci per cento a lui, dieci a me e il resto alla banda. Tutto qui.»

«Già, una cosetta che si chiama associazione a delinquere.»

«Maresciallo, io lo faccio per aiutare Fabrizio, e lui per aiutare sua madre. Gli guardo le spalle da quando era bambino, a lui e alla mamma, alla Lisette.»

«Siete stati insieme, tu e lei?»

«Tutta la via è andata insieme a Lisette.»

«Va bene, visto che sei il buon samaritano, martedì di cosa voleva parlarti Pasteur? Un altro appartamento da svaligiare?»

Il ladro guardò il carabiniere dritto negli occhi: «No, questa volta aveva bisogno di un consiglio su una merce più scottante. Voleva parlarmi di gioielli».

“Finalmente ci siamo” pensò Binda. Dalla scighera emergeva il luccichio di qualche драгоценность: aveva atteso la risposta ed era finalmente arrivata la soa stagion.

«Fabrizio mi ha chiesto di aiutarlo a piazzare un bel po’ di gioielli, roba di gran valore. Ma, per favore, adesso che le ho dato la dritta non mi tiri in mezzo, maresciallo» disse il ladro, tornando a guardare l’incrocio di piazza Tricolore e imboccando corso Monforte. La prefettura era difesa da un autoblindo e sull’asfalto c’erano cumuli di cartacce, bottiglie, bucce di frutta, uno striscione. Forse un presidio, forse uno strascico della manifestazione.

Binda deglutì e si schiarì la voce: «Non ti tiro in mezzo, va bene, ma questi preziosi da dove arrivano? Chi glieli aveva dati?».

«Dati? Scherza, chi darebbe mai gioielli di valore a uno come Fabrizio? Li ha sicuramente rubati.» Osservò di sottecchi il carabiniere, come se lo stesse sondando, come se volesse strappargli qualche informazione.

Ma Binda insisté con le domande: «Rubati? Dove, a Milano? O…?».

«Glielo giuro, non me l’ha detto. Penso che c’entri sempre il suo lavoro al Conservatorio, ma…» concluse il ladro con una smorfia che voleva dire: “Non so niente di più”.

“Sta mentendo” pensò Binda, ma non era il caso di interrompere il racconto. «Una tua deduzione, va bene. Ma su cosa è basata, come sei arrivato a farti quest’idea?» domandò. «Voi due, mi stai dicendo, dovevate trovarvi martedì a cena davanti a due bistecche, giusto? Un appuntamento. Perfetto. Ma per parlare esattamente di cosa, riguardo ai gioielli?»

Il ladro annuì: «Fabri non stava più nella pelle, diceva che un bel po’ di diamanti e rubini erano praticamente in mano sua. Mi ha detto: “Faccio duecento metri e li prendo”. Proprio così. Perciò voleva entrare in contatto al più presto con persone fidate e dalla bocca cucita, perché c’erano rischi da correre».

«Tu volevi e potevi aiutarlo?»

«Senza dubbio. Lui sa che ho alcuni amici che trattano pietre preziose e oggetti d’arte. Però non è che posso andarci a vuoto, non è corretto. Prima di spendere la mia parola con queste persone, che sono dei numeri uno, volevo sapere meglio cosa c’era da rischiare. Cioè, a chi li aveva rubati i gioielli? A qualche mafioso?»

«Te l’ha detto?»

«Macché, faceva il misterioso, ripeteva che non poteva scucirsi di più, che dovevamo chiarirci a cena, poi sarei andato a bussare dai miei amici.»

«Chi sono questi tuoi amici?»

«Tutto quello che potevo dirle gliel’ho detto.»

«Non mi occupo di furti.»

«E di cosa?»

Binda non rispose e continuò: «Almeno dimmi dove stanno».

«Lasci perdere, hanno un lavoro normale… cioè, uno ufficiale, e poi…»

«Ce ne sono decine così.»

«Non posso dire una parola di più.»

«Ascolta, non voglio perdere la pazienza e non mi frega niente dei ladri… ni-en-te, t’è capì? Io sono della Omicidi.»

«Allora avevo ragione» imprecò il ladro d’auto, sbattendo un pugno contro il tettuccio della Mercedes. Strinse il volante con l’altra mano e diede qualche colpo con la schiena al sedile di pelle bianca. «Fabri è morto, è vero? Chi l’ha ucciso?» domandò, paonazzo. Sembrava sull’orlo delle lacrime.

Binda non si fidava di lui, ma quel dolore era sincero. «Al momento non esiste alcuna certezza. Stiamo identificando il cadavere di un quarantenne, è vero, ma non è detto che sia lui. Calmati, non fare così. Cerca di spiegarmi perché quei gioielli comportavano un rischio per Pasteur» insisté.

«Parlava di quelle pietre come se fossero protette da gente veramente pericolosa. Eppure la tentazione era più forte della paura. Ripeteva che stava per chiudere uno di quei colpi che ti sistemano per tutta la vita» rispose con un sospiro il ladro d’auto. Anche se ormai era evidente che il suo ramo non si limitava alle macchine.

Avevano attraversato via Mascagni, presidiata da alcuni gruppi di giovani neofascisti: scarpe a punta e capelli dal taglio nazi. Mentre Binda rifletteva in silenzio l’altro continuò: «E invece di darmi le risposte che cercavo Fabrizio è sparito. Sua madre è impazzita, mi chiama tutti i giorni, tutte le notti, povera donna» concluse frenando all’angolo di via Passione. Erano arrivati al Conservatorio.

Binda scese dall’auto. «Non andare via da Milano, se ho novità ti chiamo e mi vieni a trovare. Dammi il telefono e scrivimi qui il tuo nome e cognome.»

«Maresciallo, scriva lei, io sono “un alfabeta”. Mi chiamano tutti Gingerino, al Comune sono Rosario Capovilla, elettrauto e carrozziere» rispose il ladro, grattandosi furiosamente la guancia, le dita affondate tra i peli della basetta sinistra.

A Binda non sembrò più triste, ma impaurito, anzi assalito dallo spavento, come se davanti al ladro non ci fosse più lui, ma un fantasma. «Se lei ha bisogno di aiuto, noi carabinieri…»

«Ma quale aiuto? Non ho mai avuto bisogno di aiuto, specie dai carabinieri, è Lisette che andrà in malora e nessuno potrà aiutarla.»

Binda tentò ancora una volta di rompere il muro che si era improvvisamente alzato tra loro, dopo le confidenze ricevute sui gioielli. «Ascolti, mettiamo che Pasteur sia morto, io non lo so, glielo ripeto, ma mettiamo che sia morto. Lei pensa di poter finire male? Di scomparire?»

Il ladro non rispose, partì in sgommata, sotto le luci dei lampioni alzò un braccio, forse facendo il segno delle corna, o forse mostrando il dito medio, chissà, però il suo braccio da buzzurro l’aveva alzato all’indirizzo del maresciallo, ma a debita distanza.