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Il giornalista del “Corriere” non aveva gradito di rinunciare all’esclusiva, ma s’era rassegnato a sperare nel futuro e probabile scoop. Il colonnello Casiraghi aveva portato lui e Binda al bar della caserma e aveva offerto a entrambi un caffè. «Scriva bene, che domani il maresciallo leggerà gli articoli parola per parola» aveva concluso l’ufficiale, dando al maresciallo un suggerimento: «Burlando è un bravo ragazzo, in fondo, ma con questi giornalisti d’assalto bisogna fare come diceva Cicerone».

«Amicus omnibus, amicus nemini» aveva risposto Binda, lasciando l’ufficiale interdetto. Il giorno dopo, a Milano, e in buona parte d’Italia, non si parlava d’altro.

Una testa tagliata dice in russo: «Gioiello» era il titolo del “Giorno”. Morto che parla quello della “Stampa”, con un occhiello esplicito: Dalle corde di violino un oscuro messaggio made in URSS. Appena quarantott’ore dopo quel colloquio nelle strade nebbiose dietro piazza Cordusio la parola драгоценность, dragosteen, era stata pubblicata su tutti i giornali. A parte il nome della persona uccisa, che ufficialmente restava “non identificata”, non venivano risparmiati dettagli sul “messaggio macabro” infilato in bocca alla testa recisa e sulla perla nera trovata in una delle scarpe.

Un cronista, figlio di uno scrittore, s’era lanciato in un lungo articolo che partendo dai Vangeli (“Non gettate le perle davanti ai porci”) e dal taoismo (lo stesso Lao Tzu si diceva nato da una perla inghiottita dalla madre) arrivava alla conclusione che il vero messaggio fosse destinato a una setta segreta di matrice massonica legata ai Cavalieri di Malta e ai Templari. L’articolo aveva suscitato più che altro ilarità e nessuno, tra i cronisti di Milano, aveva fatto collegamenti tra quel cadavere e la scomparsa della violinista. Solo sul “Corriere” Rainer Burlando aveva siglato un secondo pezzo, in basso alla pagina: Ancora un mistero la scomparsa della violinista russa diceva il titolo. Binda aveva letto con molta preoccupazione le prime righe, ma no, il giornalista non l’aveva fregato. A metà mattina, il colonnello gli aveva fatto sapere che Stavrogin si era dichiarato “soddisfatto per lavoro amico maresciallo” e non poteva ringraziarlo di persona. Ma come, nel giorno in cui forse i criminali si sarebbero sentiti alle strette, in cui Victorjia avrebbe avuto probabilmente il messaggio, come mai se ne andava urgentemente a Parigi? Doveva credere a quel viaggio? Molto difficile, ma era inutile lavorare d’immaginazione. Binda s’era dunque diviso i compiti con i suoi sottoposti.

L’appuntato Giudici e il vicebrigadiere Bertacchi si erano appostati in un appartamento sfitto di fronte al caseggiato di via Melzo 5. Dalle finestre si vedevano sia la ringhiera del secondo piano, dove aveva abitato Pasteur, sia il cortile e l’officina di Rosario Capovilla, detto Gingerino. Quale molla emotiva o quale necessità oggettiva aveva spinto il ladro ad accompagnare Binda sino al Conservatorio e a parlargli del “colpo che ti sistema per la vita”, del sogno che forse Pasteur stava per realizzare, se non fosse stato appeso da chissà chi sotto il Pont de Ferr? Dove voleva andare a parare, con le sue mezze verità? Binda si arrovellava, ma certe indagini sembrano quesiti filosofici, senza risposta all’ultima pagina della “Settimana enigmistica”.

Da una parte era innegabile che Gingerino avesse aiutato il maresciallo. Parlandogli dei gioielli l’aveva messo nella direzione giusta. E da questo cosa si poteva dedurre? Che era stato davvero in apprensione per la sorte dell’amico. Doveva nutrire per Pasteur un affetto sincero e Binda, dopo aver incontrato la signora Lisette, ex ballerina ed ex tante, troppe cose, era certo che senza Gingerino alle sue spalle a fargli da fratello maggiore Pasteur non se la sarebbe cavata in quella vita da mezzo balordo.

Anche l’interrogatorio alle tre ragazze che Pasteur portava a prostituirsi all’hotel Diana in qualità di sguincie saltuarie aveva confermato le sue sensazioni. «Fabrizietto è solo gentile» aveva raccontato la rossa lentigginosa, «aiuta la madre e se non avesse come amico un bandito vero sarebbe già stato ammazzato. Una sera c’è andato vicino, all’Accademia del Biliardo, là in via Melzo. C’ero anch’io, lo accompagnavo come portafortuna. Ero vestita proprio come oggi.»

Binda si era costretto a non guardare più la minigonna inguinale, a quadri bianchi e neri, e l’ombelico lasciato scoperto da un top a maniche lunghe, sempre a quadri color Juventus. Gli restava da fissare solo il nastro biancorosso che sovrastava la frangetta.

La ragazza gli aveva sorriso calorosamente, come se non le dispiacesse affatto far colpo sul maresciallo, ed era andata avanti: «Aveva scommesso un milione a carambola americana contro uno che chiamavano Robertino, un tappetto con due baffoni neri, da paura, e aveva vinto. Ma quello non voleva pagare, Fabri gli è andato contro con una stecca e l’altro, il tappo, ha sollevato un sopracciglio, uno solo, giuro, ed è bastato, perché due matusa con una panza tanta hanno acchiappato Fabri per il collo e gliel’hanno portato, e quel tipo, brutto, siciliano, schifoso, si è aperto la patta dei pantaloni e ha detto: “Prima mi faccio lui e poi te, sbarbatella”».

«Sa chi è?»

«Un mafioso, questo è certo.»

«Perché dice così?»

«Per due ragioni. La prima, nel bar nessuno ha detto più be’, e me la stavo vedendo brutta, ma è arrivato di corsa questo amico di Fabri, uno con due basette lunghe sino al mento, e ha risolto la questione. Con mille scuse ci ha fatto uscire e ci ha infilato sulla sua macchina, una Mercedes di un azzurro incredibile. E non la finiva di rimproverare Fabri: “Ma lo sai chi è quello? È il braccio destro di don Michele, che sta dall’altra parte della strada, ed è il capo di Cosa Nostra, sei un pazzo! Lui, i fratelli Fidanzati e i fratelli Bono comandano tutto!” gli diceva, e Fabri quasi quasi piangeva. Oh, ecco che arriva la Ginny, abbiamo finito, maresciallo? Se vuol vedermi, anche per un caffè, o per far quattro chiacchiere, il mio numero ce l’ha. Ma mi raccomando, discrezione, i miei genitori non sanno niente.»

Il proprietario della Mercedes era stato per Fabri come un fratello maggiore? Senza dubbio, e i nomi che gli aveva fatto la ragazza corrispondevano al Gotha di Cosa Nostra a Milano: bisognava solo aggiungere i Ciulla, i Guzzardi e qualcun altro e non mancava nessuno dei corleonesi comandati da Luciano Liggio. Ma più ci rifletteva, più emergeva la disonestà di Gingerino nella sua presunta collaborazione: se il traffico andava avanti da anni grazie alle tournée milanesi della bella violinista Victorjia Novgorodova, se i negozianti di via San Gregorio costituivano un ingranaggio del furto dei gioielli sulla rotta Mosca-Milano, lui che andava a fare così spesso da loro? Anche due o tre volte a settimana, come avevano documentato i rapporti di Giudici e Bertacchi: perché?

Il maresciallo Binda aveva imparato da tempo che le domande alle persone sospette vanno fatte solo quando si conoscono le risposte. Altrimenti c’è il rischio di farsi allontanare dal cuore delle indagini per andare a caccia di fanfaluche: spesso la fantasia degli indagati s’era rivelata degna dei migliori romanzieri. Per lui le parole, per quanto importanti, non contavano se non come corredo dei fatti: erano i fatti, i comportamenti, le azioni così come emergevano a dare un senso logico alle indagini. Non le parole.

Demandata la prosecuzione del faticoso lavoro di controllo e pedinamento di Gingerino ai due sottoposti, Binda erano andato a piedi in via San Gregorio, con due borse del supermercato, augurandosi di sembrare insospettabile. Voleva vedere da vicino quelli che Stavrogin aveva chiamato “giudei”. Aveva riletto le carte: ufficialmente erano i tre fratelli Spontini, così si chiamavano, erano arrivati da Salonicco nel 1947, con permesso di soggiorno rinnovabile di anno in anno. Nei documenti dell’Ufficio stranieri della questura mancava quanto gli aveva rivelato l’agente russo Stavrogin, e cioè che l’anonimo e spazioso negozio rappresentava non solo uno dei terminali del contrabbando di gioielli, ma anche una sede dei servizi segreti israeliani.

Binda non si capacitava, quello che stava accadendo sembrava una nemesi storica: era rimasto alla Omicidi per avere a che fare con le luci e con le ombre degli esseri umani, adesso si ritrovava dentro le luci e le ombre degli Stati, incarnati dai loro apparati di sicurezza e dalle loro trame. Stava conducendo un’indagine sulla tragica fine di un uomo travestito da donna e appeso sotto il Pont de Ferr? O sulla vittima designata di uno scontro tra gang internazionali, tra uomini misteriosi, capaci di mimetizzarsi, di sfuggire a qualsiasi controllo e attraversare qualsiasi frontiera, composte com’erano da poliziotti corrotti, con la mentalità dei ladri e delle spie?

Fingendo di perdersi sotto i lunghi tubi al neon in cerca di un paio di calze di lana, Binda aveva notato nel sottoscala del negozio, dietro una porta blindata con un cartello di divieto d’accesso, un magnifico banchetto da orefice. Quindi era vera anche quell’informazione: là dentro, accanto alle stoffe e alla biancheria, si palpava qualcosa di ben più prezioso. Ed era vero che le apparenze ingannano, pensò Binda osservando con attenzione i fratelli. I maggiori avevano l’aspetto di innocui commercianti: adiposi, occhialuti, pantaloni con le bretelle, basco di panno sui capelli ricci. Parlavano lentamente, come se avessero un amo conficcato nella lingua. Era il più giovane, Saul, a impensierirlo. Volto abbronzato e scavato, da bagnino cocainomane. Spalle da nuotatore, con un tic che gli faceva muovere in avanti l’omero destro. E occhi di un blu intenso, della stessa cupa sfumatura del lago d’Iseo, in cui saettavano i medesimi lampi glaciali che aveva colto nello sguardo di Stavrogin.

I tre carabinieri fecero il punto della situazione il mattino seguente. Concordarono che era ancora lontano il momento di ordinare perquisizioni nelle case e nei negozi e di condurre gli interrogatori.

L’unico che avrebbero potuto mettere alle strette era Gingerino. Ladro d’amore, perché ogni giorno, prima di tornare nella sua casa in via Sirtori con moglie e quattro figli, andava a trovare Lucia, una ragazza argentina dal futuro incerto. Arrivata a Milano dopo il golpe del ’66, sbarcava il lunario come hostess saltuaria alle Fiere: era Gingerino che le pagava l’affitto di un monolocale ammobiliato, in un tetro condominio dietro le gallerie commerciali a metà di corso Buenos Aires. Ladro d’amore e d’auto, meglio se di lusso. Auto che sapeva aprire senza difficoltà e mettere in moto in pochi secondi. Di solito “lavorava” in orari antelucani, dalle quattro alle sei del mattino. Prelevava una, due, tre macchine, mai di più, in quartieri diversi, e le lasciava per così dire in deposito quasi sempre nello stesso posto, l’impensabile parcheggio dei dipendenti dell’aeroporto di Linate: poi tornava indietro, verso l’obiettivo successivo, con la complicità di un paio di tassisti. Erano informazioni sufficienti per mandarlo in galera o sfasciargli la famiglia, e durante un interrogatorio avrebbero potuto essere utili: ma su cosa avrebbero potuto interrogarlo, esattamente? Sul valore della Fiat 124 Spider al mercato nero di Tangeri, dove spediva via Genova i pezzi più preziosi della sua attività illecita, destinati ai Paesi del Golfo? No, bisognava soprassedere e farsi un’idea più chiara della situazione.

E bisognava anche smuovere ulteriormente le acque: era arrivato il momento di rivelare chi fosse lo sconosciuto appeso al Pont de Ferr, e osservare le reazioni di tutti.

Binda, che aveva un debito morale con il Rainer Burlando, lo chiamò in caserma e gli fece leggere una parte della sua relazione di servizio al giudice istruttore Loira. Quando il giornalista finì di prendere appunti su un bloc-notes, gli offrì un caffè e gli augurò buon lavoro. Lo scoop arrivò puntuale la mattina dopo, un’intera pagina di cronaca milanese a nove colonne intitolata La doppia vita di un magazziniere. Più in piccolo: Fabrizio Pasteur, trentasette anni, vittima di un regolamento di conti? Appartiene a un giovane immigrato dalla Francia il corpo appeso al Pont de Ferr. Quattro fotografie, tra cui, bella grande, una di Binda. Come se gli facesse piacere apparire ed essere riconosciuto. Quel giornalista non aveva capito niente di com’era fatto.