2

1972, fine gennaio

Dino Buzzati era morto. Quel sabato mattina Pietro, prima di andare in caserma, aveva fatto colazione da solo al bar sotto casa. Rachele era rimasta al paese, con Umbertino, che aveva trentanove di febbre, e lui – maledetto turno festivo – era dovuto tornare a Milano. La sera prima s’era cucinato (ed erano passate le dieci, maledetta anche la fame nervosa che talvolta gli mordeva le viscere) un bel toc de luganega coi fasoi, roba paesana: gravissimo errore. Aveva dormito poco e male ed era uscito dal tepore dell’appartamento troppo presto, per ritrovarsi circondato da una nuvolaglia di nebbia fredda e buia: il sole non era ancora sorto. Con le mani e il naso ghiacciati era andato all’edicola del sciur Filippo, che già odorava di grappa, e…

… ed era ragazzino quando aveva letto Bàrnabo delle montagne. Gli era sembrato, immerso in quelle pagine, di poter star là, accanto al protagonista, appostato con il fucile carico di fronte ai banditi. Avrebbe potuto ucciderli, ma non l’aveva fatto. Bàrnabo aveva scelto di non sparare. Un atto rivoluzionario. Specie se letto a posteriori, dopo aver appreso dei campi di sterminio, dopo aver saputo quello che c’era da sapere sulla Seconda guerra mondiale, dopo aver visto da vicino la ferocia delle esecuzioni. Esecuzioni come quella di Giancarlo Puecher, ammazzato dai fascisti davanti al cimitero di Erba, non troppo lontano dalla casa del giovane Binda. Per rendergli onore aveva inventato una scusa in famiglia e in bicicletta, con un amico, era andato a infilare un fiore intagliato nel legno in uno dei buchi scavati dai proiettili nel muro del cimitero.

Non erano passati nemmeno trent’anni dalla fine delle atrocità della guerra, eppure a Binda sembrava un’altra era geologica: cos’erano ormai lo sbarco in Sicilia, il Piano Marshall, la Resistenza celebrata dai cortei del 25 aprile e tradita ogni giorno? Chi li conosceva, i fatti e i documenti? Chi ne parlava con competenza scientifica e onestà intellettuale? Sì, l’Italia, con il più forte Partito Comunista dell’Occidente, rappresentava insieme alla Germania una sporca trincea per le spie e i bombaroli. Quando si parlava di “strategia della tensione” non poteva che essere d’accordo: non era una paranoia della sinistra extraparlamentare l’identità dei mandanti di stragi come quella di piazza Fontana; non lo erano la presenza di depistatori nascosti tra le fila delle istituzioni e i colpevoli prefabbricati.

Per questo, o anche per questo, aveva preferito restare alla sezione Omicidi: fatti concreti, dolore, fatica e sangue, ma anche esseri umani divisi tra bene e male, dentro o fuori dai limiti del codice penale, non delle ideologie. Niente complotti: solo esseri umani, appunto. Fragili, crudeli, spietati, vittime di se stessi e della propria ignoranza, della propria sottocultura. E quando in mezzo agli esseri umani piombava la Secca, la Puntuale, come chiamavano la morte, Binda sentiva di potersi misurare con lei, quasi di poterla fissare negli occhi verminosi senza timori reverenziali. Era consapevole che alla fine, come capita a ogni uomo, lui avrebbe perso e che lei, la Nera Signora, sarebbe rimasta con la ranzona in mano a mietere ancora e ancora, ma nello stesso tempo s’era convinto che accanto alla Comare Ranzona, alla comare che porta la falce, potesse camminare, anche se con passo più debole e incerto, la Giustizia. E che, grazie alla sua bilancia, si potessero in qualche modo pesare i torti e i soprusi, mettendo sul piatto anche la verità. I reati di qua e gli anni di carcere per i colpevoli di là. Un risultato parziale, ma pur sempre un risultato.

Non aveva mai avuto paura di morire, Binda, né di subire i guai dell’ingiustizia: il suo cruccio era sempre stato quello di non vivere. Anzi, di non saper vivere sino in fondo la vita, che è quella cosa che passa mentre sei impegnato a fare altro, come aveva detto… chi era? John Lennon, forse. Insomma, di non fare la sua parte sino in fondo. E di essere se non proprio freddo almeno trattenuto, persino impacciato negli affetti: «Troppo riservato» gli diceva sua moglie. Ecco, Dino Buzzati lo portava a pensare a queste cose, ed era morto. Grande scrittore. E adesso era nel mistero, diceva il giornale: un titolo perfetto, per lui e per tutti.

Al bar aveva preso solo un caffè e una “esse” di pasta frolla. Il sole non era ancora riuscito a bucare la scighera. S’era deciso a uscire e a mettere un passo dopo l’altro, lentamente, per andare a prendere il tram che lo avrebbe portato in caserma. Ma in testa continuava a frullargli quello che gli avevano raccontato i suoi colleghi della Pantera, che talvolta trovavano Buzzati come annichilito nelle periferie di Milano, così immerso nei suoi pensieri – e chi a volte non ha pensieri che l’inchiodano in quel modo? – da essere scambiato per un senzatetto. Saggio, colto, maturo, per tanti anni fidanzato semiclandestino di una grandissima giornalista, Camilla Cederna, una delle poche che osava porre le domande giuste ai potenti, Buzzati finiva per perdersi correndo dietro a ragazze giovani e ignoranti, se non proprio giovanissime e ignorantissime. Cosa lo spingeva ad andare all’Aretusa? Non scendeva quelle scale per godersi la musica inglese in compagnia delle sbarbine, ma per impedire a quella di cui era invaghito di andarsene con qualche altro signore danaroso. Non era un seduttore, un dongiovanni. Era uno che s’innamorava? Quello stesso Buzzati, di cui tante volte Binda aveva apprezzato gli articoli fino a mandarne a memoria interi passi – specie i leggendari reportage sulla belva di via San Gregorio, una ragazza del Nord-Est che nel 1946, o era il ’47?, aveva ammazzato con un coltello e un bastone la moglie dell’amante, appena arrivata dalla Sicilia, e i loro tre figli, l’ultimo ancora sul seggiolone –, insomma quell’uomo così complicato, delicato, intelligente, colto, appassionato, ossessionato era morto, ad appena sessantasei anni; e chissà quanti altri libri meravigliosi e quanti articoli memorabili avrebbe potuto scrivere, se non avesse incontrato anche lui, e prima del tempo, la Secca.

Prese al volo il 9 in Porta Vittoria, sino alla fermata dopo piazza della Repubblica. Percorse l’ultimo tratto a piedi, pensando che dietro alle ragazze non era mai andato: era un bene? Un male? O semplicemente un tratto del suo carattere? E gli venne anche da pensare che non sarebbe mai stato capace di scrivere un romanzo, o un bell’articolo: c’era una relazione tra il desiderare e lo scrivere bene? Tra il piacere e il creare? Cosa ne poteva sapere lui, che era un carabiniere, uno che si occupava di dare qualche risposta ai morti ammazzati, ai loro parenti, alla collettività? Appena arrivato in via Moscova, dopo aver sorbito un altro caffè dal tabaccaio per scacciare il freddo che gli aveva lasciato addosso la nebbia, e forse anche per mandare via i pensieri, venne accolto dal piantone come se fosse un salvatore. E apprese che un’altra belva, dopo quella di via San Gregorio – la Rina Fort, ecco come si chiamava la sterminatrice – era al lavoro in città.

«Ma dov’eri finito? Ti abbiamo cercato a casa alle sette e non c’eri» gli disse andandogli incontro l’appuntato Giudici, un caratteraccio perennemente arrabbiato contro ogni modernità, capace di parlare male di chiunque meno che dei giocatori del Napoli, di cui era un tifoso sfegatato. Chissà perché, visto che era nato a Sant’Angelo Lodigiano, Santangiulin, tucc lader e assassin.

«Ciumbia, Giudici, non sono nemmeno le otto ed è sabato, ma cosa vuoi anche tu…»

«Sali in macchina dài, che dobbiamo correre sul Naviglio.»

«Chi hanno ucciso?»

«Una donna. Decapitata e impiccata, l’hanno appesa sotto il Pont de Ferr.»

«Decapitata, dici? E allora come l’avrebbero impiccata? Giudici, ti sei alzato presto ma ti sei svegliato tardi, come gli svizzeri?»

«Il radiomobile ha detto così, ci sono alcuni testimoni, andemm» replicò l’appuntato ingranando la prima. Accese contemporaneamente la sirena e una Muratti e si gettò nel traffico di Milano come se fosse su un circuito di Formula Uno. Inutile ordinargli di andar piano: Giudici era un pigro, camminava lentissimo come ogni slandrun, ma al volante subiva una trasformazione, diventava una specie di intrattabile Fangio e solo una volta sceso dall’auto tornava più o meno tranquillo. A patto che non gli si nominasse la Juventus, che odiava con la stessa intensità con cui amava il Napoli.

«Hai l’indirizzo esatto?» domandò Binda.

«Mi hanno detto il Pont de Ferr, sarà quello che collega la Ripa Ticinese all’Alzaia Naviglio Grande, quello che usano gli operai del Sieroterapico, no?» rispose l’appuntato, che pur essendo arius sfoggiava un atteggiamento da milanese purosangue, di quelli che conoscono ogni angolo della loro città.

«Sperem, sono tanti i ponti di ferro sul Naviglio. Hai detto un corpo appeso, ma tra via Pasquale Paoli e via Casale l’assassino sarebbe stato un po’ troppo in vista. Chiedi meglio alla centrale. Con questa nebbia, poi…»

Osservando dal finestrino i contorni sfumati dei giovani tossicomani, con i capelli lunghi e gli abiti a brandelli, il loro quieto svegliarsi tra i gradoni dei caselli del Dazio in piazza XXIV Maggio per andare alla fontanella, come in una processione di penitenti medievali, Giudici aveva buttato fuori dal finestrino la seconda sigaretta e trafficava con i pulsanti e il microfono della radio. Abbassò il volume, lo rialzò, i fischi finirono e arrivarono le informazioni: «Non è questo qui vicino, dobbiamo andare alla Richard Ginori, quel ponte grosso laggiù» confermò, dirigendosi a tutta velocità sulle beole sconnesse di via Lodovico il Moro, anche se non si vedeva più in là di tre metri. Pesava sul Naviglio una scighera più bianca che giallastra, un po’ più puzzolente di quella di corso XXII Marzo. Bella parola, “scighera”. Veniva dal latino: da caecaria, “che acceca”, gliel’aveva detto un professore. E in fondo tutta Milano e tutta l’Italia in quel periodo gli sembravano accecate, avvolte in un vapore ribollente di violenza, di paura, di contraddizioni pericolose. Eppure bisognava resistere, andare avanti: gli pareva quasi una metafora quel correre con Giudici lungo un rettilineo incredibilmente muto, con i balconi del tutto invisibili fin dai secondi piani.

«Vuoi farmi star male?» urlò Binda mentre superavano, con una sterzata all’ultimo secondo, la colonna dei tram 19 fermi uno dietro l’altro. La successiva frenata, necessaria a evitare un nutrito gruppo di persone, fu anche peggio. «Fai arrivare i ghisa, altrimenti si blocca tutta Milano e il sindaco chiama il colonnello. Poi raggiungimi al ponte.»

«E perché devo fare tutto io?»

«Tel chì… Dimmi, collega, te s’è de la congrega de Sant’Andreja?»

«E sarebbe?» chiese Giudici accendendosi un’altra Muratti.

«T’è scappaa la voeja e t’è restaa l’ideja.»

L’appuntato ci restò male. «Se c’è da lavorare lavoro, anche se siamo sempre gli stessi a tirar la lima. E intanto il lavoro aumenta, aumentano i morti ammazzati, i casini, le violenze… Di questo passo si scoppia, o almeno scoppio io, non so come resistete tu e quel tuo vicebrigadiere, il figlio dei fiori che parla sempre di musica.»

«Va bene, ma rinforzi mi sa che non ce ne sono a breve, quindi a chi tocca tocca. Avanti, march.»

Il corpo senza testa penzolava dalla parte inferiore del ponte di ferro verde, quella destinata al traffico ferroviario. In quella nebbia, emanava un orrore contagioso e irresistibile. Anche se non c’era un alito di vento, oscillava con movimenti circolari, come quelli del pendolo di Foucault. Intorno alle quattro ripide scale di metallo, che permettevano di raggiungere il ponte pedonale e attraversare le due sponde del Naviglio, s’erano radunati i più curiosi e i più svalvolati. E qualcuno era salito sui gradini, o addirittura era arrivato in cima alle scale, e da lì i gruppetti tenevano gli occhi spalancati e fissi sul punto in cui avrebbe dovuto esserci la testa: e invece c’erano solo un innaturale spazio vuoto e il triangolo formato dalle corde di canapa. Il lungo abito da sera e i guanti a mezzo braccio di che colore erano? Né viola né celeste, forse era quello che le zie chiamavano “pervinca”. E le scarpe scure, eleganti, col tacco da otto centimetri? Perfettamente calzate.

Binda mandò Giudici a sgomberare il ponte e a far arretrare la piccola folla dalla strada e solo quando si fece un bel largo, dall’una e dall’altra parte dell’acqua verde, che trasportava alghe e plastiche, chiazze d’olio e schifezze, affrontò con calma i primi gradini della scala su via Lodovico il Moro. Saliva tergiversando, cercando di concentrarsi su quel che sapeva del ponte: c’era la data, 1906. No, era 1908, la macchia di ruggine nascondeva il numero. Era stato costruito dalla ditta Larini per far arrivare le motrici direttamente in fabbrica e caricare sui treni merci vasi, water e lavandini che poi, attraverso la stazione di San Cristoforo, sarebbero stati smistati in mezza Europa. Il cadavere era stato appeso alla parte bassa del ponte, i piedi in direzione della periferia, di Corsico, di Romano Banco, di Cesano Boscone, e le spalle al centro della città. Binda poteva solo osservarlo dall’alto, in quella zona riservata ai pedoni e non ai treni. Dall’angolo della scala si sarebbe dovuto affacciare, ma voleva ritardare di qualche secondo, solo qualche secondo, l’inevitabile visione della donna mutilata e della corda di canapa che le stringeva anche la vita.

L’abito sembrava appena stirato. Ed era pulito. Come se la vittima stesse per andare a un party e uscendo avesse dimenticato la testa. Chiuse gli occhi, pensò che per fortuna aveva bevuto solo un caffè. Deglutì, recitò mentalmente alcune strofe di una poesia imparata a scuola e mai dimenticata, Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me sì cara vieni, oh sera…, Foscolo, un grande, e con quel pensiero tornò, più calmo, a svolgere il suo difficile compito. Il busto finiva con l’osso del collo, lucido e bianco: «Una messa in scena da porci maniaci. L’hanno ammazzata altrove e l’hanno appesa qui, in una notte di nebbia. Ma come avranno fatto?» domandò Giudici quando l’ebbe raggiunto.

Anche Binda era arrivato alle stesse conclusioni: «E perché avranno portato via la testa, se hanno lasciato il corpo e le mani? Chissà, forse riusciamo a identificarla subito grazie alle impronte digitali. Non hai detto che c’erano dei testimoni?».