22

Stavrogin e Bertacchi, uno piccolo, snello ed elegantissimo con il suo papillon, l’altro gigantesco e straripante nei vestiti da magut, s’erano appostati all’angolo tra via Valenza e l’Alzaia Naviglio Grande. Protetti dal muro delle ferrovie, tutt’e due in cima a una scala di legno usata dai capotreni per cambiare le lampade di segnalazione, avevano sollevato la mano destra per farsi notare dall’altro elegantone, il Binda, che camminava tra Ripa di Porta Ticinese e via Angelo Fumagalli: vestito di scuro per la serata di musica, sapeva di spiccare sulla sponda opposta del Naviglio come un bevitore di champagne si fa notare in un trani in mezzo ai tracannatori di barbera.

Se n’era accorto alla Taverna Greca, dove era entrato per telefonare a Rachele e avvisarla che non sarebbe tornato a dormire. Mentre ascoltava le raccomandazioni e una modesta lamentela della moglie – «Peccato, questi sono i giorni fertili» – dai tavolini più vicini qualche capellone lo aveva scrutato con aria di sfida, o di commiserazione, e un paio di biondine avevano riso ostentatamente indicando le sue scarpe troppo pulite. Era stato contento di lasciare l’odore di aglio e melanzana e tornare in quel freddo che sembrava arrivare direttamente dal mare, come se qualche vento di levante si fosse infilato dal Tirreno sin dentro il Ticino e fosse riuscito a superare il ponte coperto di Pavia per abbattersi sulla grande città del Nord, non più con il ruggito dei cavalloni, ma con una sorta di sibilo da serpente, pronto a mordere quando meno te l’aspetti. Un vento che portava raffreddori, mal di gola, bronchiti: le tipiche malattie di Milano. Il maresciallo se ne sentiva avvolgere, e sperava che l’agente del KGB non si sbagliasse. S’era proclamato arcisicuro: il greco del KKE, diventato assassino – o forse chissà, assassino da sempre – sarebbe passato per quelle strade, aveva dichiarato senza il minimo dubbio. E intanto il vento soffiava, e non diminuiva.

Poco prima di mezzanotte sentì il fischio del vicebrigadiere Bertacchi, e sul muro della ferrovia, con un gesto da americano, il pollice verso l’alto, Stavrogin non nascose la sua soddisfazione. Stava arrivando Andreas Sideris, nome di battaglia Trikeri, il “figlio di partigiani fuggito prima di arresto”: pedalava su una vecchia e cigolante bicicletta nera da fornaio e sbucò tra i lampioni canticchiando una famosa canzone di José Feliciano, Che sarà. Continuando a fischiettarla, legò con attenzione la dueruote al cartello di sosta vietata e, guardandosi intorno, dopo aver chiuso il lucchetto della catena, emise un poderoso rutto. In silenzio, camminando un po’ a zig-zag, s’inoltrò sul lato destro dell’Alzaia. E là, letteralmente, si appoggiò al muro di mattoni rossi e scomparve, come succede nei trucchi cinematografici.

«Dov’è finito il maiale?» chiese Bertacchi, che in pochi passi aveva raggiunto il superiore.

«C’è un rifugio di tossicomani, là dietro.»

«Ah.»

«Ci ho fatto irruzione una volta» rispose Binda. «Il passaggio è stretto e non c’è una luce, non possiamo entrare senza essere notati e da lì il greco non solo scappa come vuole, a meno che non copriamo i quattro punti cardinali, ma ci spara facilmente. Saremmo un bersaglio perfetto.»

«Chiedere rinforzi a voi e anche a miei compagni?»

Binda finse di non aver sentito. «Aspettiamo la luce dell’alba per tentare un’irruzione. Oppure il tipo, che tornerà a riprendersi la bicicletta, visto come l’ha legata.»

«Aspettiamo bicicletta e andiamo a mangiare» confermò Stavrogin. E siccome insisté dicendo che aveva fame e che non mangiava da quella mattina, il primo turno di guardia alla bici toccò all’immusonito Bertacchi, che almeno nel pomeriggio aveva ingollato il panino con lo zola.

Gli altri due andarono con la 127 alle Capannelle, uno dei pochi ristoranti-pizzeria aperti sino a tardi a Milano, in viale Papiniano, vicino al carcere di San Vittore. Binda ci mangiava circa una volta al mese con i colleghi, quando finiva di lavorare a orari impossibili, per proseguire i ragionamenti davanti a un bicchiere di vino e alla tagliata al rosmarino, la specialità della casa. Gli sembrava una profanazione essere là con il russo: quello Stavrogin non faceva parte della “squadra”, ed era un mistero. Di più, un bugiardo. Uno che mentiva con facilità.

Conosceva Victorjia, forse c’era andato a letto, ma aveva negato. Conosceva anche l’assassino dell’Angelicum, però li aveva portati sino alla sua tana. Possibile che ogni traccia in quell’intrico finisse per incrociarsi con i passi milanesi e le conoscenze in città della spia sovietica?

Un cameriere piccolo, scuro, con un inconfondibile accento sardo venne a distrarre il capo della Omicidi dai suoi pensieri più cupi e a prendere le ordinazioni. Binda era indeciso se tacere oppure se provare a far parlare l’agente del KGB. Se avesse taciuto, gli avrebbe dimostrato sfiducia. Se avesse domandato e si fosse sentito preso in giro – la sua proverbiale pazienza si stava esaurendo – la diplomazia, resa obbligatoria anche dalle raccomandazioni del colonnello Casiraghi, sarebbe andata a farsi benedire: avrebbe prevalso l’animo del montanaro delle Grigne, del figlio di un artigiano del ferro, di un lombardo che non sopporta di fare la parte del pirla.

«Lei mi sta facendo giocare a mosca cieca?» decise di domandare. E siccome Stavrogin fingeva di non seguire il discorso andò dritto al punto: «Senta un po’, Stavrogin del menga».

«Come ha detto?»

«Non le sembra molto strano il comportamento del suo amico assassino?»

«Non è amico, nemmeno io amico suo, è solo assassino e noi prendiamo.»

«Prendiamo chi? Un suo dipendente? Un collaboratore dei servizi segreti? Comunque, il suo greco, prima uccide due persone, e non sappiamo perché, e poi scappa senza sparare un colpo. Non poteva mettere due confetti di piombo anche nella sua testa, signor Stavrogin?»

«Mi ha steso.»

«Infatti, ma che gentile, il Sideris del Partito Comunista ellenico, il rifugiato politico sotto shock, si limita a centrarla in faccia con un pugno. Lei karate, judo, jujitsu? Non le hanno insegnato niente alla Lubjanka?»

«Non è colpa mia se solo ferito e non morto, lei arrabbiato con uomo sbagliato.»

«Vedremo chi è sbagliato e chi è giusto. NATO, Gladio, tutte balle, stiamo con i piedi per terra. Che fa il suo amico Sideris dopo aver ammazzato due persone e messo KO il grande, potente, immenso Stavrogin del KGB? Sa che lo cerchiamo, sa anche che lei lo conosce, e, zac, questo imbecille torna nella sua tana in bicicletta, come se niente fosse. Cosa le viene da pensare, Stavrogin?»

«E a lei?»

«Non ho problemi a dirglielo, i casi sono due. O lei manovra il greco come un burattino e ci sta usando tutti quanti in un modo che ancora non mi è chiaro. Oppure il greco è convinto che lei non possa tradirlo per nessuna ragione al mondo. Ma lei che pensa? Ha altre ipotesi da condividere come si fa tra investigatori che collaborano lealmente?» chiese Binda, dopo aver sbranato una fetta di pizza siciliana e bevuto in pochi sorsi un’intera birra piccola alla spina.

«Ragionamento non fa una pin… una grinza, ma non stiamo in sua testa» replicò Stavrogin.

Dopo quella risposta il maresciallo decise che avrebbe dovuto tenere molto, ma molto sotto controllo l’agente del KGB. Più di quanto avesse fatto sino a quel momento. E che non poteva più parlargli di ciò che aveva scoperto sui rapporti tra la violinista che voleva scappare all’estero e il magazziniere che le aveva procurato le donne per distrarre le guardie del corpo. Forse avrebbe dovuto chiedere al colonnello il permesso di trattenere Stavrogin in caserma. Come poteva e doveva comportarsi un onesto maresciallo di Milano con un’ombra capace di muoversi sullo scenario internazionale?

“Non stiamo in sua testa” non era la risposta di un investigatore degno di questo nome. Qualcosa nello sguardo di Binda doveva aver colpito Stavrogin, perché la spia assunse immediatamente un’aria pensierosa e continuò la frase: «Greco forse piccola pedina, esegue forse ordini di persona più intelligente, ma non sono io, io faccio indagini su contrabbandieri gioielli czar e lavoro onestamente con amico maresciallo taliano, come colonnello Casiraghi lavora onestamente con CIA e KGB, noi siamo banda degli onesti e non colpiamo amici».

«Amici» ripeté Binda, con rassegnato scetticismo. Gli era passato l’appetito, aveva lasciato un quarto di pizza. Era l’unico a digiunare nel ristorante, affollato di buone forchette e di persone che badavano agli affari propri. In fondo alla sala aveva riconosciuto alcuni giocatori di dadi che frequentavano la non lontana bisca di via Panizza, e anche loro l’avevano riconosciuto, sollevando il bicchiere nella sua direzione. Lui aveva annuito e basta, non brindava con quella gente. Prima di ordinare un caffè doppio e un marsalino per mettere un po’ di calore nel suo stomaco, osservò il piccolo russo spazzolare una zuppa di cozze, due pezzi di pecorino e un tiramisù. In sottofondo, le casse dello stereo diffondevano il tema di uno dei film più insopportabili che avesse mai visto, Love Story. Non andava bene niente, quella notte: tutto era ostile, pesante, sgradevole, tranne l’ottimo marsalino, finché non tornarono indietro sulla tossicchiante Fiat e si presentò ai loro occhi una scena straordinaria.

Il vicebrigadiere Bertacchi pedalava in circolo sulle beole, mentre il ricercato stava incatenato al palo, al posto della sua bicicletta da fornaio, imbavagliato. «Questo greco per me è un vero fornaio» spiegò il vicebrigadiere, fiero della cattura. «Dice che stava andando a Corsico a lavorare e non ha armi. Addosso non gli ho trovato niente di sospetto o di pericoloso. Guardi le mani. Sono scottate, sono mani da lavoratore, questo non è un criminale.»

Andreas Sideris finse per dieci minuti di non capire l’italiano, poi raccontò di dormire dove capitava. Solo quando Binda lo trascinò verso il muro di mattoni rossi tentò, nonostante le manette, una fuga. Con un preciso sgambetto Stavrogin lo fece crollare faccia a terra, e infilandogli un solo dito sotto il mento lo costrinse a camminare senza opporre resistenza, come se fosse al guinzaglio. «Taci e muovi culo» gli ordinò.

«Non c’è bisogno di alzare troppo le mani» disse Binda.

«Perché mi trattate così?» domandò il greco guardando i tre uomini, uno dopo l’altro.

«Per Angelicum» rispose Stavrogin.

«È reato uscire dalla finestra e non dalla porta?»

«Questo ci sfotte» tuonò Bertacchi, ma si trattenne dall’appioppargli una sberla e si limitò a tenerlo per il collo.

Il muro non aveva tutti i mattoni a posto: era stato creato uno spazio, sufficiente per permettere a una persona d’infilarsi. La fitta e spinosa vegetazione avrebbe scoraggiato ogni estraneo, ma Binda sapeva che dopo due metri di erbacce si apriva uno spazio sterrato. Era sporco oltre l’immaginabile. Sulla destra sorgeva come un fungo, e con gli stessi colori di un porcino, un capannone da meccanico con una parte del tetto in Eternit e con i vetri oscurati, qualcuno rotto, tutti protetti da sbarre. La “casa” del greco, coperta di ruggine e fango.