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I paramedici portarono Abby all’UCLA Medical Center, dove fu visitata e poi dimessa. Fuori dagli ambulatori c’erano due detective che la aspettavano. Le chiesero di accompagnarli alla centrale di West LA. Abby tirò un sospiro di sollievo quando scoprì che nessuno dei due si chiamava Cahill.
Il primo interrogatorio fu breve. Era talmente stanca che riuscì solo a fornire una scaletta degli eventi accaduti, accuratamente modificata. Però diede in regalo ai poliziotti il nastro del suo microregistratore. Ne aveva inserito uno vuoto prima che Travis arrivasse a Westwood.
Alle otto di mattina la lasciarono andare. Erano settimane che non vedeva il suo condominio alla luce del giorno. Dormì fino alle due, poi si fece qualcosa da mangiare. Alle tre le guardie dell’atrio le dissero che c’erano due agenti di polizia che volevano vederla.
Questa volta raccontò loro tutta la storia, omettendo solo una piccola parte di verità. La stanchezza la faceva mentire meglio, era come se il suo corpo fosse troppo esausto per percepire il disagio che una macchina della verità o un osservatore allenato potessero rilevare.
«Paul Travis mi aveva assunto per trasferirmi nell’appartamento accanto a quello di Hickle. Ero lì per monitorare le sue mosse, annotare quando usciva e quando rientrava. Volevamo farci un’idea della sua routine quotidiana. Mi era stato detto così, ma in realtà mi hanno incastrata. Travis ha detto a Hickle che lo stavo spiando e Hickle ha dato di matto. Ha cercato di uccidere Kris. Dopo il tentato omicidio, Travis gli ha dato il mio indirizzo di Westwood. Immagino sappiate già cosa è successo in seguito.»
Le chiesero cosa l’avesse spinta a entrare nell’edificio in costruzione e lei rispose che aveva iniziato a sospettare di Travis. Temendo che volessero tenderle un’imboscata, era andata a controllare il quartiere e aveva scoperto che qualcuno si era introdotto nel palazzo. Aveva pensato che forse era stato Hickle a entrare.
«Avrebbe dovuto chiamare la polizia una volta scoperta l’effrazione» disse il più anziano dei due, in tono quasi paterno.
«Non ero certa che Travis fosse colpevole. Volevo delle prove. Volevo registrare la sua confessione.»
Il più giovane, meno comprensivo, le fece notare che ciò che lei stessa aveva detto nella registrazione e il ritrovamento della pistola di Howard Barwood, recuperata dal corpo di Travis, costituivano le prove che si era introdotta illegalmente nel bungalow di Barwood a Culver City e che aveva frugato in giro.
Abby non negò. «Se il signor Barwood vuole sporgere denuncia, ne ha tutto il diritto.» Sorrise con gentilezza, rivolgendosi principalmente al detective più anziano «Pensa che lo farà?»
«Considerando che l’ha scagionato da capi di accusa multipli, credo che quella dannata pistola gliela regalerà, e anche il bungalow.»
L’altro però non mollava. «Dalla registrazione si evince che Travis la riteneva responsabile della morte di Devin Corbal. Cos’ha da dire a tal proposito?»
«Travis mi aveva assunto per seguire Sheila Rogers, la stalker di Corbal, e di comunicargli i suoi spostamenti. Proprio quella sera ho perso le sue tracce. Non sapevo dove fosse andata e così non ho potuto aggiornare gli uomini di Travis sulla posizione della ragazza, né dire loro che era entrata al Lizard Maiden, un locale spesso frequentato da Corbal. Travis non mi ha perdonato per quella svista.»
«Ma non era presente sulla scena del crimine, vero?» le domandò il detective più giovane.
«Se chiedessimo a un paio di persone che erano lì quella sera e mostrassimo loro una sua foto, cosa pensa che direbbero?»
«Probabilmente che il locale era buio e gremito di gente e che sono passati quattro mesi dall’incidente e che, date le circostanze, i loro ricordi sono un po’ offuscati. Questo è ciò che direbbe un avvocato difensore, o mi sbaglio?»
Il poliziotto non rispose. Lui e il suo collega uscirono dopo poco. Prima che se ne andassero, Abby gli fece promettere di non dare ai media il suo nome.
Nei due giorni successivi tornarono a farle visita per chiarire un paio di dettagli. All’iniziò Abby pensò che la stessero ingannando, fingendo di credere alla sua versione dei fatti mentre si preparavano a incriminarla per l’omicidio di Travis o per il caso Corbal. Ma alla fine capì che la verità era un’altra. Non le credevano completamente ma, allo stesso tempo, non avevano ben chiaro fino a che punto lei li avesse ingannati, e in fondo non gli importava.
Un mercoledì mattina andarono a casa sua per l’ultima volta e le dissero che stavano per chiudere il caso. La sua identità era in salvo.
«C’è mancato poco» disse il poliziotto più giovane. Era diventato più amichevole, Abby gli piaceva un pochino di più. «Channel Eight era riuscita a scoprire il tuo nome a causa di una fuga di informazioni alla centrale. Stavano per mandare il servizio, ma qualcuno li ha bloccati. Credo che tutti qui sappiano chi ti ha fatto questo favore.»
«Probabilmente non Amanda Gilbert.»
«Amanda Gilbert non lavora più per la KPTI. Kris Barwood sì.»
Il resto della giornata Abby lo trascorse ascoltando musica soft e mangiucchiando qualcosa di tanto in tanto. Dopo averci riflettuto un po’, decise di staccare il poster del Regno della pace e metterlo nell’armadio. L’immagine del leone raggomitolato vicino all’agnello non le piaceva più.
Il venerdì mattina andò a casa di Travis.
Parcheggiò la Miata a un isolato di distanza e da lì continuò a piedi, portandosi uno zaino. Attese un paio di minuti finché non arrivò una Lincoln Town Car. Al volante c’era Kris. Non aveva più bisogno di una guardia del corpo ormai.
«Abby» esclamò mentre scendeva dalla berlina. «Volevo solo dirti… Insomma, dopo tutto quello che hai fatto per me… be’, forse non proprio tutto, ma molto…»
«Figurati, Kris.»
«Grazie. Ecco quello che sto cercando di dire. Grazie di cuore.»
Abby sorrise. «Forse non lo capirai, ma tutto quello che ho fatto… non l’ho fatto per te. L’ho fatto per me. Quindi non c’è bisogno di ringraziarmi.»
«Ti ringrazio lo stesso. Allora, perché mi hai fatto venire qui?»
«A casa di Paul c’è qualcosa che devi vedere. E anche io.»
Kris guardò il nastro giallo della polizia fissato al cancello. «Sai, è illegale violare una scena del crimine.»
«Dai, saremo come Thelma e Louise. Andiamo.»
Nessuno le vide scavalcare il nastro e dirigersi all’ingresso. Nello zaino Abby aveva i suoi attrezzi. Entrare fu un gioco da ragazzi, così come disattivare l’allarme; aveva visto Travis comporre quel codice molte volte. Non si curò di indossare dei guanti, visto che la polizia aveva già perquisito la casa.
«Come ti va la vita?» domandò a Kris mentre camminavano lungo il corridoio dirigendosi verso il retro.
«Sta migliorando. Ho chiesto il divorzio.»
«Immaginavo che l’avresti fatto.»
«Howard può anche non aver voluto la mia morte, ma ha cercato di derubarmi ed è un traditore incallito. Posso meritarmi di meglio.»
«Come darti torto.»
Condusse Kris nella camera padronale. I cassetti del comò erano stati aperti e svuotati, così come la cabina armadio, ma, come Abby aveva immaginato, i tecnici della Scientifica non avevano dato troppa importanza all’impianto televisivo. Durante un’ispezione ordinaria nessuno avrebbe mai potuto scoprire che in realtà si trattava di una cassaforte.
Digitò la combinazione sul telecomando e il pannello frontale della TV si aprì di qualche centimetro, mostrando i CD. Prima prese quello dei Barwood e lo diede a Kris.
«Là dentro c’è tutta la tua vita» disse, «e anche quella di Howard. I soldi che ha cercato di nasconderti… qui troverai il modo di rintracciarli. Chiama un bravo commercialista.»
Kris giocherellò con il CD inserito nella custodia di plastica. «Travis aveva indagato su di noi?»
«Non solo su di voi. Su tutti, anche su di me.»
Abby trovo il CD con su scritto il suo nome. «Ecco cosa voglio vedere.»
Dallo zaino estrasse un PC portatile, lo accese e inserì il CD con la scritta SINCLAIR, ABIGAIL.
«Forse non dovrei guardare» disse Kris mentre lei navigava tra i dati.
«Non essere timida. Non ci sono segreti tra noi due. Travis ha cercato di usarci entrambe. Non facciamo niente di male se vediamo quello che aveva in mente.»
Il CD conteneva dozzine di articoli scannerizzati sul caso Corbal. Travis li aveva collezionati ossessivamente. Sembrava che con tutti gli insulti e le allusioni rivolti alla TPS alimentasse le proprie frustrazioni.
A Abby però quegli articoli non interessavano molto. Lei cercava delle foto. Le trovò in una cartella nominata JPEG, il formato per la compressione delle immagini. Quando aprì la cartella, dozzine di immagini in anteprima comparvero a scacchiera. Di immagini di lei.
Eccola mentre usciva dall’atrio del Wilshire Royal per un giro, mentre cenava in una caffetteria a Westwood Village, mentre passeggiava in un parco di Beverly Hills, mentre giocava a tennis una domenica pomeriggio. Mentre lavava la macchina, faceva la spesa in un centro commerciale, camminava sul molo di Santa Monica, faceva un’escursione nel Will Rogers Park. Una foto la ritraeva sul balcone di casa sua, scattata dal palazzo al di là della strada, dallo stesso punto che aveva scelto Hickle per spararle.
Non c’era quindi da stupirsi che Travis fosse riuscito a guidare Hickle nei meandri della Torre Nera. C’era stato di persona. A guardarla, a fotografarla, proprio come Hickle aveva scattato delle polaroid di Kris mentre faceva jogging sulla spiaggia.
«Ti stalkerava» bisbigliò Kris. «Come faceva Hickle con me.»
Abby annuì. Non era sorpresa. Travis le aveva detto che la stava spiando la notte che aveva cercato di annegarla. Aveva avuto il presentimento che quella non fosse stata la prima volta che il suo odio ossessivo l’aveva spinto ad avvicinarla.
Aveva scattato le foto con un obiettivo lungo, utilizzando probabilmente una macchina digitale, poi aveva semplicemente salvato le immagini su CD. La sua collezione privata. Le vennero in mente le centinaia di foto di Kris che Hickle aveva ritagliato dalle riviste, dai giornali, e con cui aveva tappezzato le pareti della sua stanza. Travis aveva fatto più o meno la stessa cosa, spinto dalla stessa ossessione.
«Avrebbe potuto spararti in qualsiasi momento» disse Kris. «Quando eri sul balcone, o nel parco…»
«Sono sicura che è stato parecchio tentato, ma era un uomo cauto per natura. Era in attesa dell’occasione migliore. Aspettava il momento giusto.»
«Come Hickle» sussurrò Kris.
«Pare che fossero più simili che diversi.»
«Ma perché? Perché ti odiava così tanto?»
«Perché l’ho deluso. Mi ha addestrato, è stato il mio mentore. Io ho fatto un errore che gli è quasi costato tutto quello che aveva. Questa casa con la vista sul canyon, la sua sede al Century City, i suoi amici importanti, le feste di classe… Ha visto tutto questo scivolargli tra le dita e ha dato la colpa a me.»
Kris scosse la testa lentamente. «Tutte e due sappiamo come sceglierceli, eh?»
«La prossima volta saremo più fortunate.» Abby sorrise. «Peggio di così non può andare.»
Prima di uscire raccolse gli altri CD e li gettò in un sacco della spazzatura che portò con sé una volta salutata Kris all’esterno.
«Grazie per non aver reso pubblico il mio nome al notiziario» disse Abby.
«Era il minimo che potessi fare, e dico sul serio. Grazie, Abby. E… sii prudente, ok?»
«Lo sono sempre. È per questo che sono ancora viva.»
Sulla via di casa Abby si fermò in una stradina a West Hollywood e seppellì il sacco sul fondo di un cassonetto. Su quei CD c’erano segreti che nessuno aveva il diritto di conoscere.
Quella sera fece un giro per Westwood Village, passeggiando senza una meta e guardando le vetrine dei negozi. A un certo punto vide il bar in cui preparavano quelle ottime Piña Colada. Decise di entrare. La Piña Colada rimaneva la sua unica debolezza o, per lo meno, era quello che le piaceva credere.
Si sedette al bancone e avvicinò il calice alle labbra, pensando a Travis e ai suoi segreti.
«Ti offro da bere?»
Alzò lo sguardo. Era Wyatt e non era in servizio. Non indossava l’uniforme. Si mise a sedere sullo sgabello accanto al suo e ordinò una birra.
«Questa è la seconda volta che ci incontriamo qui» disse Abby abbozzando un sorriso. «Non mi starai mica seguendo, vero?»
«Se così fosse, lo sapresti. Sei tu l’esperta.»
«Già, anch’io lo credevo» disse Abby ripensando alle foto sul CD.
La birra di Wyatt arrivò. Passarono un paio di minuti a sorseggiare i loro drink, senza parlare.
«A essere sincero» disse lui, «è da un po’ di tempo che frequento questo quartiere più del solito, nella speranza di incontrarti.»
«Ha funzionato, spero non ti abbiano seguito.»
«No.» Ruotò sullo sgabello per guardarla in faccia. «Allora come stai, Abby?»
«Mai stata meglio.»
«Non sono sicuro di crederti.»
«Be’, sono viva e vegeta. Tu, come te la passi?»
«Non mi lamento.»
«Nessuna scocciatura da parte del tuo amico Cahill o di qualcun altro?»
«Niente di niente. Non c’è motivo che qualcuno colleghi il caso Hickle al caso Emanuel Barth, e non c’è ragione che qualcuno mi colleghi a te.»
«Sempre che a qualcuno non venga in mente che ero venuta a trovarti subito prima che scoppiasse tutto il divertimento.»
«Non verrà in mente a nessuno. Hollywood è un quartiere affollato. Gente che va e gente che viene. Siamo al sicuro, Abby. Il caso è chiuso. È finita.»
«È finita» ripeté lei. Era bello poter dire quelle parole.
Wyatt distolse lo sguardo. «Capisco che tu voglia tenere la storia fuori dai canali ufficiali, ma mi piacerebbe che ti confidassi con me. Quando sei venuta alla centrale, avevi già dei sospetti su Travis, non è vero?»
«Sì.»
«Avresti dovuto dirmelo.»
«Volevo cavarmela da sola.»
«Già.»
«Tipico mio, vero?»
«Sei stata tu a dirlo, non io.» Wyatt si passava il bicchiere di birra da una mano all’altra, agitando la schiuma. «Sai, vorrei continuare a vederti.»
«Per forza. Sei la mia principale fonte di informazioni a Hollywood. Dipendo da te.»
«Intendevo dire… non per lavoro.»
«Ah.» Abby rimase in silenzio per un attimo, fissando lo specchio che, alle spalle del bancone, le ricambiava lo sguardo, calmo e contemplativo. «Non lo so, Vic.»
Lui la osservò, mostrando un’espressione più perplessa che offesa. «Andiamo parecchio d’accordo, e non dovresti tenermi più all’oscuro dei tuoi segreti. Quindi… perché no?»
«Forse per quello che hai appena detto… Finirei per rivelarti i miei segreti. Vedi, non mi piace stare con chi sa troppe cose di me. Preferisco rimanere un po’ nascosta e avere i miei spazi. È da quando sono una ragazzina che mi comporto così. Tengo le distanze, sempre.»
«Non è il modo giusto di vivere, Abby.»
«Ma è un modo per sopravvivere.»
Wyatt pose delicatamente la mano sulla sua. «Non voglio metterti fretta. Se cambi idea, chiamami. Pensaci però, d’accordo?»
«Va bene. Te lo prometto.»
Abby fu la prima a lasciare il locale. Quando si voltò sulla soglia, vide Wyatt seduto da solo al bancone.
Il sole stava tramontando mentre tornava a casa. Sul balcone si mise a osservare quella palla rossa nel cielo. Ripensò ai giorni in cui si sedeva accanto al padre davanti all’ennesimo tramonto, molti anni addietro, e si chiese se la sua solitudine, quel bisogno di stare da sola, fosse una cosa positiva. Suo padre avrebbe detto di sì, se l’avesse sfruttata a suo favore. Quelle parole erano un indovinello che non era mai riuscita a risolvere.
“Chiamami” le aveva detto Wyatt. Chissà se l’avrebbe fatto.
In salotto squillò il telefono. Entrò in casa per rispondere. Per qualche strana ragione si aspettava di sentire la voce di Wyatt, invece era Gil Harris, il consulente della sicurezza del New Jersey che l’aveva assunta per il caso Frank Harrington. «Abby, come va?»
«Bene, Gil. Sto una favola.» Con il cordless tornò in balcone.
«Mi pare di capire che ti sei ripresa dopo l’incidente con quel pazzo» disse Gil.
Abby si domandò come facesse a sapere di Hickle, ma poi capì che si stava riferendo a Harrington. «Certo» disse semplicemente. «È incredibile come dieci giorni di vacanza possano rimetterti in sesto.»
«Ecco, spero che tu ti sia riposata abbastanza, perché ho qualcosa che fa proprio al caso tuo. Ti interessa?»
Esitò solo un attimo. «Quando ti servo?»
«Il prima possibile.»
«Prendo il primo volo domani mattina. Sarò da te nel tardo pomeriggio. D’accordo?»
«Va bene. Ah, devo avvertirti… questo qui potrebbe essere un po’ più complicato.»
«Sono tutti complicati, Gil.» Si appoggiò alla ringhiera e sorrise. «Anche se devo ammettere che alcuni sono più complicati di altri.»
Dopo la chiamata rimase un altro po’ in balcone a vedere gli ultimi attimi di tramonto. Sentì la sua vecchia amica, l’adrenalina, scorrerle nel corpo e capì che era quello di cui aveva bisogno. Wyatt poteva aspettare. La sua vita privata, o quello che ne rimaneva, poteva aspettare. Era il suo lavoro a mantenerla viva e in forma. Viveva per il suo lavoro. Il lavoro era ciò che lei era.
Le persone erano sempre alla ricerca di ciò che non avevano: fama o ricchezza, giovinezza o amore, vittoria o vendetta. Inseguivano i premi che avrebbero riassunto la loro vita nel tentativo di sentirsi completi. Era così facile rimanere incastrati in quell’inseguimento. Facile ma del tutto superfluo, almeno per lei, almeno in quel momento.
“Se sai sfruttarlo a tuo favore” le aveva detto suo padre.
Quando il sole sparì e vi fu solo buio, Abby rientrò in casa per fare le valigie.