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Abby parcheggiò nel posto a lei assegnato sotto il porticato di Gainford Arms. Quando spense il motore, la macchina sussultò come un barbone che trema per il freddo.

Aveva comprato la Colt da un rivenditore di auto usate per duemila dollari e la utilizzava esclusivamente per il lavoro sotto copertura. A casa c’era la sua vera auto, una Miata, piccola ed elegante, che le permetteva di percorrere i tornanti e le curve di Mulholland Drive con il vento nei capelli. Ogni volta che faceva quella strada, le tornavano alla mente i giorni trascorsi in collina a sud di Phoenix, in sella a uno degli Appaloosa del padre, sui sentieri scoscesi.

Ma non poteva andare in giro con la Miata in quel quartiere senza attirare l’attenzione, quindi per il momento il suo mezzo di trasporto era la Dodge. Chiuse a chiave la portiera e attraversò il parcheggio.

A un tratto sentì della musica e delle risate. Seguì il trambusto che proveniva dalla fine del parcheggio. C’era un piccolo cortile in cemento delimitato da un reticolato di ferro. All’interno del reticolato, da una Jacuzzi sgorgavano una moltitudine di bollicine. Alcuni ragazzi se la spassavano nella vasca bevendo birra dalla bottiglia, mentre da una radio portatile usciva una canzone di Shania Twain.

Il proprietario aveva parlato di una zona SPA, l’unica chicca dell’intero palazzo. Abby non gli aveva creduto del tutto, anche se, col senno di poi, non c’era motivo di dubitarne; in fin dei conti quella era LA, dove piscine e vasche idromassaggio si sprecavano anche nei quartieri più malfamati.

L’acqua aveva un aspetto invitante, ma lei non aveva voglia di unirsi alla folla. Stava per andarsene quando uno dei ragazzi la notò.

«Ehi, ce l’hai un costume?» gridò.

Lei sorrise. «No, grazie. Giornata storta oggi.»

«Ci pensiamo noi a raddrizzarla» urlò un altro. Era ubriaco.

«Non so perché, ma ne dubito. Divertitevi. E cercate di non finire in coma, mi raccomando.»

Si allontanò. Alle sue spalle, i due ragazzi perorarono la loro causa e quando si accorsero che non c’era speranza, iniziarono a lanciarle fischi da allupati e ad ansimare, esibendosi in versi animaleschi. La delicatezza evidentemente non rientrava nei loro metodi d’approccio.

Prese l’ascensore e salì al quarto piano. Si fermò davanti all’appartamento di Hickle e premette l’orecchio contro la porta di legno. Sentì la televisione in salotto. Erano le nove, mancava ancora un po’ al telegiornale. Forse lasciava la TV accesa per illudersi di avere un po’ di compagnia.

Aprì la sua porta ed entrò, sentendosi mancare alla vista dei mobili logori e squallidi e delle pareti sudice. L’intero appartamento puzzava di muffa. Negli ultimi anni aveva vissuto per molto tempo in posti come quello.

Si sdraiò sul divano e registrò tutte le informazioni che aveva acquisito da Wyatt. Poi si preparò una tisana e la bevve lentamente seduta sulle scale antincendio, osservando il cielo notturno.

A un tratto vide una stella cadente disegnare un tenue arco di luce sopra i tetti lontani. Forse era un presagio, se buono o cattivo non sapeva dirlo.

Le voci provenienti dallo spiazzo in cemento echeggiavano nella notte. La festa era finita e la gente stava uscendo dall’area SPA. Sentì le risate allegre, accese dall’alcol, svanire in lontananza. La vasca idromassaggio ora era sicuramente vuota. Decise di concedersi quel lusso.

Tra le cose che aveva portato con sé c’era anche un costume intero. Lo indossò, prese un grande asciugamano e andò di sotto. Attraversò il parcheggio fino ad arrivare alla zona SPA. L’entrata era chiusa ma si accorse che il lucchetto era rotto. Non fu costretta a usare la sua chiave. Un cartello diceva che la Jacuzzi poteva essere utilizzata solo dagli inquilini del Gainford Arms e solo nella fascia oraria 8-22. Controllò l’orario. Le dieci e un quarto. Be’, in giro non c’era nessuno che potesse dirle che stava infrangendo una regola.

I ragazzi avevano lasciato un gran casino. Bottiglie di birra vuote erano ammucchiate sui bordi della vasca. Patatine e briciole sparse dappertutto, vicino a una sedia di plastica i resti di una merendina mangiucchiata.

«Maiali» mormorò Abby. Posò la borsa e l’asciugamano su una sedia, si tolse l’orologio e le scarpe. Infine si immerse. L’acqua gorgogliava ancora; i ragazzi si erano dimenticati di spegnere l’idromassaggio.

Chiuse gli occhi, appoggiò la testa contro il bordo della vasca e lasciò che i getti di aria calda le massaggiassero la schiena.

Era da tanto tempo che non si riposava sul serio. Il caso in New Jersey era stato complesso e subito dopo Travis l’aveva fatta rientrare a LA. Praticamente non aveva avuto un attimo di tempo libero.

Si chiese se avesse fatto male ad accettare il caso della TPS. La verità era che voleva riscattarsi agli occhi di Travis dopo l’incidente con Devin Corbal, sempre che ci fosse riuscita. Forse però si stava sbattendo troppo. La stanchezza era il vero nemico, nel suo mestiere. La stanchezza poteva essere fatale.

Promise a se stessa che dopo questo caso si sarebbe presa una vacanza. Magari a Phoenix, per andare a trovare un paio di vecchi amici. Qualche arrampicata sulle Superstition Mountains, qualche cavalcata su sentieri polverosi, per tornare a essere una ragazzina.

Sì, avrebbe fatto tutto questo… una volta portato a termine l’incarico…

Si accorse che stava scivolando nello stato alfa, sulla soglia del sonno. La mente si svuotò e i pensieri volarono lontani. Tutta la tensione abbandonò il suo corpo, gli zampilli di acqua calda le massaggiavano il collo…

Poi un improvviso ondeggiare in avanti, l’acqua sopra la testa, i getti caldi contro il collo…

Fu immersa a forza nella vasca, la superficie a pochi centimetri da lei ma fuori portata, visto che non poteva alzarsi.

Qualcuno la teneva sott’acqua premendo forte contro la testa, i capelli aggrovigliati nella presa d’acciaio.

Cercò di afferrare la mano dello sconosciuto, sapendo che avrebbe potuto infliggergli un dolore istantaneo semplicemente piegandogli un dito oppure premendo la carne sotto al pollice, ma con la mano libera l’aggressore deviò il colpo.

Se solo avesse potuto vederlo…

Impossibile. Era sott’acqua, accecata dalle luci della Jacuzzi, e sopra di lei c’era solo l’oscurità. Non vedeva niente e le mancava l’aria.

Cercò di divincolarsi, abbassandosi per liberarsi, ma lui la teneva per i capelli e non mollava la presa. Appoggiò i piedi alla base della vasca e diede una forte spinta, cercando di sovrastare la pressione che la teneva sott’acqua, ma fu tutto inutile.

Un urlo di frustrazione le uscì di bocca in un’esplosione di bollicine, confondendosi con quelle dell’idromassaggio.

Quell’urlo le costò quasi tutto l’ossigeno che le rimaneva. Da un momento all’altro avrebbe perso conoscenza e lui non avrebbe dovuto fare altro che tenerla sott’acqua finché l’ultimo respiro istintivo le avrebbe riempito i polmoni di acqua.

Ma non poteva morire in quel modo, in una Jacuzzi circondata da bottigliette di birra vuote e immondizia varia…

Bottigliette.

Un’arma.

Con le ultime forze alzò il braccio fuori dall’acqua, toccando a tentoni il bordo della vasca.

La sua mano afferrò il collo di una bottiglia.

Spaccò la bottiglia contro il cemento e iniziò a sferrare dei colpi verso l’alto con l’estremità frantumata.

La mano che la teneva si ritrasse immediatamente.

Abby continuò ad affondare la punta alla cieca, ignorando se avesse colpito l’aggressore già la prima volta. Poi riemerse dall’acqua annaspando, con un rantolo rauco.

Si sollevò respirando affannosamente, si guardò attorno alla ricerca dell’aggressore, ma l’unica cosa che vide fu il cancello di ferro che si chiudeva.

Nel parcheggio qualcuno stava correndo, il rumore dei passi si perdeva in lontananza.

Si appoggiò alla parete della vasca, sforzandosi di controllare il respiro, poi notò che aveva ancora la bottiglia rotta in mano.

Controllò se sulla punta frantumata ci fosse del sangue. Non ce n’era. Nessuna goccia di sangue sul cemento della zona SPA.

La bottiglia l’aveva solo spaventato. Non l’aveva ferito. Accidenti. Avrebbe potuto far analizzare il sangue e scoprire un eventuale sospetto. E poi le sarebbe piaciuto ferire quel bastardo dopo quello che le aveva fatto.

Posò la bottiglia e uscì dalla vasca tremando a causa dell’aria fresca. Si avvolse nell’asciugamano e si pose la fatidica domanda.

Chi diavolo era stato?

Era abbastanza sicura che l’aggressore fosse un uomo. Le mani, grandi e forti, erano di un maschio. Ma a chi appartenevano quelle mani? A Hickle? Forse aveva scoperto chi era, oppure nella sua testa l’aveva paragonata a Jill Dahlbeck, la sua ossessione precedente?

Le aveva chiesto se fosse un’attrice, come Jill. Forse c’era qualcosa in lei che gli aveva fatto scattare gli stessi impulsi che lo avevano portato a schizzare Jill con dell’acido in una stradina buia di Hollywood anni prima.

Oppure l’aggressione non era da collegare a Hickle né al suo caso. Si ricordò delle parole di Wyatt: “Non dimenticare che siamo a Hollywood. Qui è pieno di pazzoidi a piede libero. Ci sono un’infinità di svitati come Hickle”.

Poi fu fulminata da un’idea assurda. Conosceva davvero Vic Wyatt?

«Ma per favore» disse con un filo di voce, «non essere paranoica.»

Certo che era paranoica. Il suo era un mestiere paranoico. Era stata addestrata a essere sempre all’erta, sempre vigile. Ma il punto era che qualcuno aveva cercato di ucciderla meno di due ore dopo l’incontro con Wyatt… e non conosceva Wyatt così bene.

L’aveva incontrato per caso la sera prima in un bar di Westwood. E se non fosse stata una coincidenza? Magari la seguiva da tempo. Come uno stalker… Non sapeva tutto su quel genere di comportamento?

E se quella sera, dopo cena, l’avesse seguita fino a casa e quando l’aveva vista entrare nella vasca…

«… avesse cercato di uccidermi?» concluse ad alta voce. «Ma perché?»

Una domanda a cui non sapeva rispondere, ma dovette ammettere a se stessa che era plausibile. Il lucchetto del cancello era rotto, chiunque sarebbe potuto entrare nell’area SPA.

Non riusciva ancora a crederci. Wyatt non le era mai sembrato neanche lontanamente un tipo instabile, ostile o ossessivo.

C’era un solo modo per scagionarlo da ogni sospetto.

Prese il cellulare dalla borsa e lo chiamò a casa. Viveva in una zona della città tra La Brea e Hollywood. Se davvero fosse scappato da lì qualche minuto prima, non avrebbe avuto il tempo di essere già in casa.

Il telefonò squillò tre volte e un piccolo nodo di preoccupazione le si formò nello stomaco. Non voleva sospettare di Wyatt. Non voleva che l’aggressore fosse qualcuno che conosceva e che le stava simpatico.

Quattro squilli…

Poi qualcuno rispose. «Wyatt.»

«Ehm.» Prese un bel respiro. «Ciao, Vic, sono io. Scusa se ti chiamo così tardi.»

«Non preoccuparti. Con i turni che mi hanno dato, ultimamente vivo più di notte che di giorno. Che succede?»

Chiaramente non poteva dirgli che lo stava chiamando per assicurarsi che non fosse coinvolto nel suo tentato omicidio. Però non aveva avuto il tempo di inventarsi una scusa, così decise di improvvisare. «Mi sono dimenticata di chiederti se Hickle infastidiva altre donne. Voglio dire, oltre a Jill Dahlbeck. Qualche altra donna prima o dopo di lei, qualche denuncia o simili?»

«Non che io sappia. Ma ho come l’impressione che tu abbia in mente qualcuno.»

«Io?»

«Perché un’agenzia di sicurezza dovrebbe tenere d’occhio questo individuo osservandolo da una nuova prospettiva?»

«Be’… no comment.»

«Come pensavo. E se ti chiedessi chi potrebbe essere il suo nuovo oggetto del desiderio?»

«No comment.»

«Sembri un disco rotto. C’è qualcos’altro che vuoi chiedermi?»

Stava per dire di no, ma poi le venne in mente un’altra domanda. «Solo una cosa. Qualche denuncia per annegamento nell’area di Hollywood?»

«Annegamento? Tipo bambini che cadono in piscina?»

«No. Parlo di adulti… Qualche caso irrisolto? Adulti che annegano in piscina o in una vasca idromassaggio o simili?»

«E questo cosa avrebbe a che fare con Raymond Hickle?»

«Probabilmente nulla. Sto solo cercando di trovare il bandolo della matassa.»

«Comunque, per rispondere alla tua domanda… no, non ci sono stati misteriosi e irrisolti casi di annegamento a Hollywood. Se ci fossero stati, non credi che i telegiornali locali avrebbero alzato il solito polverone?»

«Hai ragione. Eccome se l’avrebbero fatto. Domanda sciocca.»

«Non c’è problema. Sono qui per aiutare. “Proteggere e servire” è il mio motto.»

«A presto, Vic.»

«Stai bene, Abby.»

Riattaccò. Wyatt non avrebbe mai avuto modo di arrivare a casa così alla svelta, e lei non aveva colto esitazione o paura nella sua voce, quando gli aveva chiesto dei casi di annegamento. Era innocente.

Rimaneva però un altro sospetto, che aveva ben più probabilità di essere l’aggressore rispetto a Vic Wyatt.

Abby entrò nel palazzo e salì con l’ascensore al quarto piano. Dal suo appartamento andò sulle scale antincendio e scivolò accanto alla finestra della camera da letto di Hickle.

Era aperta. Dal salotto proveniva il suono della TV accesa, la voce di Kris Barwood. Controllò l’ora, le 22.40. Il notiziario della sera su Channel Eight non era ancora finito.

Si sporse oltre la ringhiera delle scale e sbirciò nel salotto da circa due metri di distanza. Le tende erano alzate e riusciva a vedere Hickle chiaramente, seduto sul divano, a torso nudo. Indossava un paio di pantaloncini stracciati, lo sguardo fisso e concentrato sullo schermo. A giudicare dalla postura, sembrava non si fosse mosso da almeno un’ora. Probabile. Quando arrivava l’ora del telegiornale, ogni altra cosa non aveva più senso.

Abby rientrò nel suo appartamento ed esaminò la situazione.

Wyatt era pulito, e secondo lei neanche Hickle era l’aggressore.

Ma allora chi era stato?

Qualche pazzo svitato, disse a se stessa, ripensando alle parole di Wyatt. Quella era Hollywood. C’erano un sacco di matti a piede libero.

Per un momento aveva abbassato le difese e qualcuno aveva cercato di assalirla. Forse voleva ucciderla e rubarle la borsa. Ma quando aveva reagito, l’aggressore si era spaventato ed era fuggito. Fine della storia.

Non era completamente convinta da quella ricostruzione dei fatti. Non aveva una gran passione per le coincidenze. Wyatt e Hickle avevano le mani pulite e non c’era nessun altro di cui sospettare.

O invece c’era?