17
Hickle si sarebbe perso il notiziario delle 18 e la cosa non gli piaceva per niente.
Nell’ultimo anno non aveva perso neppure una delle dirette televisive di Kris. Mettersi davanti alla TV alle 18 e alle 22 di tutti i giorni feriali faceva parte della sua routine. Aveva provato un’angoscia terribile quando lo scorso settembre lei si era presa una vacanza. Eppure quella sera avrebbe mancato al suo appuntamento serale. Pensò che comunque l’avrebbe potuto vedere più tardi, dato che lo stava registrando, e poi era sicuro di tornare in tempo per quello delle 22.
«Non c’è tanto traffico.»
Lanciò un’occhiata a Abby seduta sul sedile del passeggero della sua Volkswagen.
«Sì, è abbastanza scorrevole stasera» le rispose, «considerando che è l’ora di punta.»
«In questa città è sempre l’ora di punta.»
Non riuscì a pensare a nessuna risposta adeguata. «Già.»
Aveva la faccia bollente, la mani sudate e avrebbe tanto voluto essere nel suo appartamento a guardare Kris (probabilmente il notiziario era iniziato da poco), a osservarla e a godersi la sua bellezza, sebbene fosse solo un’illusione.
Invece era su Santa Monica Boulevard, al volante della sua auto, al tramonto, con Abby Gallagher. Si era cambiata d’abito. Ora indossava pantaloni di cotone, una camicetta e una giacca a vento di nylon. Stava bene. Sicuramente meglio di lui che si era messo un paio di jeans e una felpa.
Si prese il rischio di intavolare una conversazione. «Immagino che qui sia molto diverso da Riverside.»
Abby parlò al di sopra del rombo del motore e della vibrazione del cruscotto. «LA è così grande. Non riesco a capire dove siamo. Non so orientarmi.»
«Ti ci abituerai» disse sforzandosi di non piombare nel silenzio. «Io l’ho fatto.»
«Non sei originario di Los Angeles?»
«Mi sono trasferito tanti anni fa da uno stato centrale.» Chiacchierare del più e del meno non era il suo forte. Decise di osare un approccio più diretto. «Ti scoccia se ti faccio una domanda?»
«Figurati.»
«Prima mi hai detto che stai scappando dai tuoi problemi…» Era sicuro che lei gli avrebbe detto di farsi gli affari suoi.
«Problemi con il mio ragazzo» rispose Abby imperturbabile, come se Hickle le avesse chiesto le previsioni meteo per il weekend. «Be’, era più di un ragazzo. Era il mio fidanzato. A maggio ci saremmo dovuti sposare. Poi ho scoperto che mi tradiva. L’ho visto con i miei occhi. L’ho beccato mentre si scopava un’altra. Sul nostro letto. All’una di pomeriggio.»
Hickle non sapeva cosa dire, ma per una volta non si sentì in imbarazzo, perché di certo nessuno avrebbe saputo cosa dire in quella situazione.
«Così ho iniziato a urlare e a lanciare oggetti per aria, la classica reazione matura di una donna offesa nell’orgoglio. Il giorno dopo ho lasciato la città. Dovevo andarmene.» Un’alzata di spalle. «Ecco la mia triste storia.»
La parola “triste” gli suggerì la risposta appropriata. «Mi dispiace.»
«Così è la vita.»
«Ma quello che ti ha fatto è tremendo.»
«Immagino che una persona non possa più aspettarsi una relazione a lungo termine ormai. Ma a parte tutto, ero davvero convinta che fossimo destinati a rimanere insieme per sempre. Capisci cosa voglio dire?»
La voce di Hickle era ferma e chiara. «Capisco.»
«Trovare qualcuno che è tutto quello che cercavi, tutto quello che desideravi, e poi scopri una cosa del genere…» Abby lasciò la frase a metà.
«Capisco» ripeté Hickle con più fermezza. «So esattamente di cosa parli.»
«È successo anche a te?»
Dato che erano fermi al semaforo su Beverly Drive, Hickle girò la testa e la guardò fisso negli occhi. «È successo anche a me» disse. «Da poco. Pensa che, proprio quest’anno, ho trovato la donna perfetta. Perfetta. E lei…» Abby lo guardava, nessun cenno di giudizio o rimprovero nel suo sguardo. «Mi ha spezzato il cuore. Ha ucciso la mia anima e la parte migliore di me.»
Ecco. L’aveva detto. Ma perché non era rimasto zitto? Le parole gli erano uscite di bocca come un fiume in piena, disperate e furiose. Temette che Abby pensasse che fosse uno schizzato.
«Mi dispiace, Raymond» sussurrò lei.
Raymond. L’aveva chiamato per nome.
Qualcuno suonò il clacson. Il semaforo era diventato verde. Stava bloccando il traffico.
Sfrecciò per l’incrocio, dirigendosi verso ovest, intimorito dall’idea di dire qualcosa che potesse infrangere la fragile intimità che aveva creato.
Raymond. Il suo nome. Pronunciato con dolcezza e comprensione.
Raymond.
I parcheggi che servivano la passeggiata a Venice erano tutti pieni quella sera. Hickle guidò attraverso la rete di stradine e vicoli finché non trovo un posto a due isolati dalla spiaggia. Ora che ebbe parcheggiato la Golf, le ultime luci del tramonto erano scomparse e l’oscurità avvolgeva le strade in un manto fitto e delicato.
Dopo la confessione d’impulso a Beverly Hills, era rimasto piuttosto silenzioso e Abby non gli aveva fatto pressioni. Sebbene non fosse tecnicamente un appuntamento, quell’uscita aveva innalzato pericolosamente il suo livello di ansia. Una volta raggiunto il ristorante, si sarebbe aperto un po’ di più e lei sarebbe venuta a sapere quello che voleva sapere.
Per ogni caso, Abby iniziava con una lista mentale, domande sulla persona di cui stava valutando la potenziale minaccia. Le domande erano semplici e specifiche. Più erano quelle a cui riusciva a dare una risposta, maggiori erano le possibilità di giungere a una valutazione finale. Aveva già spuntato molte delle domande più importanti su Hickle. Per ora solo risposte affermative.
Provava un forte legame con Kris Barwood? Sì. Le osservazioni spontanee e sincere in macchina lo avevano confermato.
La sua ossessione lo spingeva oltre le lettere e le telefonate? Sì. Dopo aver perquisito il suo appartamento sapeva che aveva profuso molte energie per indagare sulla vita di Kris. Aveva rintracciato il suo indirizzo e l’aveva fotografata da una certa distanza.
La sua ossessione indicava che avrebbero potuto esserci atti di violenza? Sì. I libri sugli stalker e sul combattimento ne erano una prova lampante.
Aveva acquisito una o più armi? Sì. Due fucili.
Solo due domande della lista non erano ancora spuntate.
Riteneva di poter mettere in atto un’aggressione con successo? Senza quella convinzione forse non avrebbe mai agito seriamente. Si sarebbe limitato a fantasticare, a fare delle prove e a pianificare.
La paura l’avrebbe distolto dalle sue intenzioni? Spesso la paura accendeva l’ultimo barlume di coscienza.
Hickle le sembrava un uomo timido, forse a causa della paura che gli si era annidata dentro per tanto tempo. Forse quella stessa paura avrebbe frenato i suoi impulsi più violenti.
Hickle spense il motore e le luci della Volkswagen, disinserendo le chiavi. «Siamo arrivati» annunciò. «Be’, non al ristorante, dobbiamo andarci a piedi, ma non è molto lontano.»
Balbettava come un ragazzino delle medie. Abby avrebbe potuto provare un po’ di compassione se non avesse visto i fucili e le foto segrete di Kris. «È una bella serata per fare due passi» disse gioviale. «La brezza dell’oceano è piacevole.»
Uscirono dalla macchina e Hickle la chiuse a chiave. «Già, è una cosa che mi è sempre piaciuta di LA. Il posto in cui sono cresciuto era a ottanta chilometri dal mare. L’aria dell’oceano non arrivava fin lì.»
«Una zona desertica?»
«No, colline e campi coltivati. I miei avevano un negozio di alimentari. Era molto… come si dice… bucolico.»
«Però noioso.»
«Già. Tutto l’opposto di una grande città, con le sue luci e i suoi rumori.» Iniziarono a camminare. «Scommetto che non hai mai visto l’oceano quando stavi a Riverside» disse Hickle.
«Solo sotto forma di miraggio, solitamente causato da un improvviso colpo di calore. Si arriva anche a quarantatré gradi all’ombra, e là non c’è ombra. A volte guidavo fino alla costa per sfuggire al caldo del deserto. Non sono mai venuta in questa parte di città, però.»
«È… colorata.»
«Perché la chiamano Venice?» Sapeva il motivo ma lasciò che lui glielo spiegasse mentre si avvicinavano alla folla.
«Ci sono dei canali qui» disse. «Ne sono rimasti pochi ma in passato ce n’erano tanti, come a Venezia, in Italia. Questo quartiere fu progettato come attrazione turistica verso il 1900 da un tizio di nome Kinney. Dicono che fosse un visionario.»
Abby guardò le finestre sbarrate, i rifiuti per strada e i segni distintivi delle bande criminali dappertutto. «Pare che la sua visione sia andata a sbattere contro un muro chiamato realtà.»
«Purtroppo sì. Santa Monica è più carina, ma Venice è un bel posto per uscire la sera, vedere un po’ di gente. Sembra una festa di quartiere o un carnevale.»
«Sempre?»
«Praticamente.» Osò un po’ più di leggerezza. «Sai, LA è la città che non dorme mai.»
Quella è New York, pensò Abby, ma non lo corresse.
Hickle la accompagnò verso la passeggiata sul lungomare, gremita di ogni di genere di curiose varietà umane: giocolieri, venditori ambulanti, barboni, artisti di strada, culturisti tatuati. Posteggiate sotto un lampione c’erano tre giovani donne ossute, probabilmente prostitute. Lì vicino, sulla pista ciclabile, dei ragazzi su skateboard e rollerblade gridavano nella sera, mentre sulla via pedonale un gruppo di Hare Krishna suonava tamburi. Murales stravaganti sugli alti muri in mattoni di edifici risalenti al secolo scorso facevano da sfondo a questo scenario eccentrico.
«Ora capisci?» le domandò Hickle mentre attendeva nervoso la sua reazione. «Un carnevale.»
Abby sorrise. «Come si diceva negli anni Sessanta, è tutta scena.»
Passeggiarono lungo il tratto in cemento che la gente del posto chiamava pontile. Si susseguivano negozi ricavati da vecchi garage, che esponevano magliette, occhiali e articoli curiosi e stravaganti. A un tratto la voce di una donna sovrastò il baccano generale. Stava sbraitando furiosa in spagnolo.
«Conosci lo spagnolo?» le chiese Hickle.
«Un po’. Sta dicendo al suo ragazzo che è un bastardo, bugiardo traditore. Dice che non lo vuole rivedere mai più. Ora sta dicendo: “Va’ al diavolo”.» Abby alzò le spalle. «Immagino sia la fine della loro storia d’amore.»
Era abbastanza sicura che Hickle l’avrebbe pensata diversamente. E infatti la sua reazione non la sorprese. «No» disse, «lo sta ingannando.»
«Strano modo per farlo.»
«È il gioco delle donne. Dicono no quando in realtà vogliono dire sì. Ti dicono di andartene quando vogliono averti più vicino. Urlano, gridano e fa tutto parte del corteggiamento.»
«Di certo non è il mio stile.»
«Be’, no, non mi riferivo a te. Dicevo in generale. È nella natura della maggior parte delle donne far sudare un uomo. Negargli qualsiasi cosa, farlo implorare. Si divertono un sacco a fare così. Le donne sono…» Si interruppe bruscamente.
«Sono cosa?» gli domandò Abby subito.
«Non so. Niente. Lascia stare.»
Ma lei sapeva cosa stava per dire: “Le donne sono delle stronze… delle rompicoglioni… delle puttane”.
Il Sand Which is There era un locale molto grande, affollato e chiaramente alla moda, lontanissimo dall’idea che Abby si era fatta. C’erano un sacco di bambù e oggetti in vimini. Palle di vetro illuminate pendevano dalle travi, proiettando coni di luce giallo limone sui tavoli laccati. Le pale di legno dei ventilatori si muovevano lente, creando fiacchi vortici d’aria. Sopra un bancone di legno teak su un lato della sala c’era una vasta scelta di acqua in bottiglia e bevande alcoliche. Davanti al bancone si aprivano delle porte di vetro che affacciavano su un patio che dava sul pontile.
Il ristorante era chiaramente un luogo di incontro per aspiranti celebrità: attori, musicisti, modelli. Solo in pochi ce la facevano ma tutti possedevano i requisiti base per affrontare la scalata alla notorietà: volti telegenici, corpi fotogenici. Il locale era un mare di curve flessuose e folte chiome selvagge. Abby si chiese come avesse fatto Hickle a capitare in un posto del genere.
Una cameriera li accompagnò a un tavolo d’angolo. Abby sapeva che lui ci avrebbe messo un po’ per sentirsi a suo agio. I primi tentativi di conversazione furono brevi e improduttivi. Ordinarono da bere e da mangiare e quando furono serviti Hickle consumò il proprio pasto con voracità, senza quasi parlare.
Iniziò a rilassarsi solo dopo aver stappato la seconda birra. Abby capì che non era abituato all’alcol. Iniziò a biascicare leggermente. Il respiro era meno naturale, le palpebre pesanti e lo sguardo vago. Era un uomo grande e goffo, a disagio nel suo corpo, e la seconda Heineken lo rese ancora più maldestro. Per due volte fece cadere la saliera e una volta gli scivolò il coltello dal tavolo.
«Com’è la tua insalata?» le chiese finalmente, cercando di instaurare per la prima volta un vero dialogo.
«Favolosa. Cavolo riccio e funghi Portobello… una vera delizia. Allora, vieni qui spesso?»
«Quasi mai. A dire la verità…» Un sorriso imbarazzato. «… sono venuto qui solo una volta. Non è l’atmosfera giusta per me.»
«Perché no?»
«Be’, guardali.» Appoggiò il gomito sul tavolo e puntò un dito accusatore verso il centro della sala. «Il modo in cui si muovono. Le loro facce. Sono così sicuri di sé. Hanno il mondo in pugno.»
Abby seguì il suo sguardo e osservò gli altri clienti. Hickle aveva ragione. Donne bellissime e uomini affascinanti. La differenza tra maschi e femmine non era data dalle capigliature o dai vestiti, che erano piuttosto analoghi. Piuttosto, gli uomini emanavano un senso di delicatezza, di fragile sentimentalismo emotivo; le donne invece erano toste. Corpi scolpiti dalle ore trascorse in palestra, lineamenti duri su volti privi di trucco, gli occhi stretti e severi.
«Hanno il mondo in pugno» ripeté Hickle corrugando la fronte. «Non che tu debba invidiarli» aggiunse per farle un complimento, che suonò più come un rimprovero.
«Io non invidio nessuno» disse Abby, facendo piroettare la sua forchetta i cui denti luccicarono al lume di candela. «Il verde non mi dona.»
Hickle si portò alla bocca il suo club sandwich e ne staccò un pezzo con i denti. «Non li invidi perché non ne hai bisogno. Sei una di loro anche tu.»
«E tu no?» Era chiaro che lui non lo era.
Con un gesto largo e sgraziato, Hickle agitò il braccio verso la folla, rischiando di far cadere la birra. «Io sono di un altro pianeta.»
«Non sono poi così speciali.»
«Oh, sì che lo sono. Non avverti il loro potere?» Abbassò la voce, sporgendosi in avanti e incurvando le spalle, sulla difensiva. «Una volta ho visto un film con un titolo strano. Killer Elite. Tutte le volte che vengo in un posto come questo, mi viene in mento quel film. Un’élite killer, che ti uccide.»
Abby notò la parola “killer” e il fatto che la utilizzasse per descrivere gli altri quando, in realtà, era molto più realistico collegarla a lui. «Sono solo dei ragazzi che escono per un hamburger e una birra» disse placida.
«Dei ragazzi, certo, ma non semplici ragazzi. Loro hanno la bellezza.»
«Cosa?»
«La bellezza» ripeté con una strana serietà. «Sai quello che si dice, che il mondo si divide in ricchi e poveri? Be’, è vero, ma non nel modo in cui pensa la maggior parte della gente.» Avvicinò il boccale di birra alla bocca e prese una grossa sorsata, come un cane, ingollando un terzo del contenuto. «Non sono i soldi a fare la differenza. I soldi non contano; chiunque è in grado di fare soldi. Arriva puntuale al lavoro, mostra un minimo di intelligenza e il tuo capo nel giro di tre mesi ti offrirà una promozione, che tu la voglia o no.»
«Perché mai uno non dovrebbe volere una promozione?» gli chiese Abby, ma Hickle non la ascoltava.
«Quello che davvero importa» disse, il tono di voce alto, gli occhi sgranati, «è la bellezza. Ecco cos’hanno i ricchi e cosa non hanno i poveri. Dovresti saperlo perché tu ce l’hai. Ogni donna di questa sala ce l’ha. E anche gli uomini…» Hickle aveva la mano stretta a pugno sebbene non se ne fosse reso conto. «A parte me.»
La rabbia stava montando dentro di lui pericolosamente. Abby cercò di calmarlo. «Sei troppo duro con te stesso.»
«Sono solo sincero. Vedi, alla fine il cervello non conta. Puoi essere il ragazzo più intelligente della classe, prendere sempre il voto migliore, ma se non sei di bell’aspetto nessuno ti invita al ballo della scuola. Se non hai la bellezza non sei niente. O sei il pagliaccio della classe oppure… il mostro.» Diede un ultimo morso svogliato al panino e posò gli avanzi stancamente. «Che cavolo, tanto tu non capirai comunque. Scommetto che tu non avevi problemi con i ragazzi.»
La stava studiando con un sorriso di sbieco che doveva essere amichevole ma che, invece, comunicava una cattiveria fredda e incomprensibile.
Abby mantenne un tono di voce calmo. «Veramente io ero un maschiaccio. Non ero molto popolare e ovviamente non sono mai stata la reginetta del ballo.»
Quell’informazione lo sorprese. La sua espressione si addolcì un po’. «Dici sul serio?» le chiese tranquillo.
«Ero una frana in quasi tutte le materie. La mia mente aveva la tendenza a vagare. In sostanza ero sempre da sola. Quando non ero a scuola, trascorrevo la maggior parte del tempo a fare trekking nel deserto o a strigliare i cavalli al ranch. Ero sempre sporca, con i capelli scompigliati. Non mi truccavo mai. Avevo le braccia piene di pizzichi di zanzare e la faccia ricoperta di lentiggini.» Era tutto vero. «Mio padre diceva che ero un fiore che doveva ancora sbocciare.»
Hickle la osservava e Abby sentì che il suo risentimento si stava affievolendo. «Be’» disse infine, «sei sbocciata bene.»
Lei sorrise. «Sono una persona completamente diversa ora. Quindi immagino che dopo la scuola inizi davvero un’altra vita.»
«Sbagliato.» Hickle sbatté il palmo della mano sul tavolo, facendo vibrare i piatti, poi si morse le labbra in preda all’imbarazzo. «Scusa, non volevo. Ma la gente dice sempre così. Me lo sono sentito ripetere in continuazione quando ero un ragazzino. Quando diventerai adulto la tua vita cambierà completamente. Ecco cosa mi dicevano.»
«E non è andata così?»
«Per niente. Il liceo è la vita vera. Vita vera senza finzioni.»
Prese un’altra sorsata di birra, ma non era l’alcol a farlo parlare liberamente. Erano le sue domande, ognuna posta gentilmente, con l’obiettivo di indagare la sua anima. Erano la sua calma, il suo sguardo riflessivo e i suoi silenzi, che facevano sì che Hickle potesse dire tutto quello che voleva senza sentirsi giudicato o rimproverato.
«Ti racconto dei miei anni al liceo.» Sollevò una carota da un piattino e iniziò a giocherellarci distrattamente. «Nella mia classe c’era un ragazzo, Robert Chase. Non era particolarmente brillante. Non era un idiota, intendiamoci, ma nemmeno un genio e neppure un bravo studente. Saltava le lezioni, prendeva voti mediocri e a volte insufficienti, fumava erba nei bagni e cazzeggiava in giro. Ma aveva un vantaggio.»
«Tiro a indovinare. Era… un bel ragazzo?»
«Esattamente. Il caro vecchio Bob Chase.» La bocca di Hickle si contorse in un ghigno di disgusto. «Le ragazze lo chiamavano Bobby, con quel tono svenevole, hai presente? Era alto e aveva folti capelli ricci e addominali scolpiti. Era la punta di diamante della squadra di basket. Lo adoravano tutti.»
Abby capì che la vecchia invidia gli stava montando dentro. Rimase in silenzio.
«Comunque, un paio di mesi fa stavo leggendo il Los Angeles Times e cosa vedo? Robert Chase, il mio vecchio compagno del liceo, era stato nominato capo dello staff di un membro del Congresso a Washington DC. È un personaggio emergente, ha fatto carriera in fretta. Dicono che potrebbe mettersi in lizza per un seggio. Potrebbe diventare lo stramaledetto… scusa… diventare Presidente degli Stati Uniti. Perché? Io sono più intelligente di lui. Avevo voti migliori. Non chiudevo gli altri ragazzi negli armadietti né gli davo dei pugni nei corridoi solo per farmi due risate.» Hickle spezzò la carota, buttò le due metà e ne prese un’altra. «Ma io non ho la bellezza. Sii sincera. Potrei mai diventare presidente?»
Nella sua mente Abby si immaginò una sala congressi, palloncini colorati, brindisi e, sotto i riflettori, la sagoma sciatta e goffa di Raymond Hickle, con quell’ammasso di capelli neri trascurati e in disordine, il collo arrossato dall’acne, il viso tirato e paffuto allo stesso tempo, gli occhi infossati e la pelle spessa e cadente all’altezza della mascella. Se lo vide mentre cercava di fare un discorso, pretendere rispetto, esercitare la sua autorità, e quello che sentì erano le risate della folla presente. «Non sono tutti tagliati per diventare presidente» disse con gentilezza.
Con un gesto della mano Hickle respinse quella risposta come se fosse una mosca fastidiosa. «Quello del presidente era solo un esempio. Le persone come Bob Chase sono dei vincenti nella vita. Possono fare tutto quello che vogliono. Possono avere chiunque vogliano. Tutto e tutti.» Voltò la testa, distogliendo lo sguardo dalle verità che stava pronunciando. «Se vogliono soldi, gliene arrivano a palate. Oppure la fama… Guardali sulle copertine delle riviste importanti. Oppure, be’…» Arrossì. «… il sesso, sai… se lo vogliono, ottengono sempre anche quello.»
Abby annuì, i pensieri le si affollavano nella testa. Anni prima Hickle si era fissato con Jill Dahlbeck, un’aspirante attrice non diversa dalle molte donne presenti in quella sala. Ora Kris Barwood era la sua nuova ossessione, una vera e propria celebrità. Con ogni probabilità ce n’erano state delle altre, tutte famose o alla ricerca di successo. Era attratto dalle belle donne, ma la bellezza non gli bastava. Dovevano anche essere famose o nutrire la speranza di diventarlo. Erano come le stelle dorate nel cielo e lui voleva disperatamente essere uno di loro. Con l’età non aveva perso le sue abitudini adolescenziali, il desiderio di essere accettato e ammirato. Per lui il ballo della scuola era tutto ed era l’unico a esserci andato senza accompagnatrice.
«E la felicità?» chiese Abby dolcemente. «Hanno anche quella?»
«Certo. Siamo appena passati per Beverly Hills. Hai visto che case? Oppure quassù a Malibu…»
Dove viveva Kris. Abby alzò un sopracciglio. «E quindi?»
«È un posto bellissimo. L’hai mai visto?»
«No.»
«È magico.»
«Intendi la spiaggia? Il lungomare?»
«Tutto quanto. Malibu è un luogo perfetto. Uno come potrebbe essere triste vivendo in un posto del genere? È un paradiso.»
In realtà Abby aveva visitato Malibu molte volte. Secondo lei la cittadina non era all’altezza della sua reputazione. Le colline erano aride e spoglie per metà dell’anno, colpite da potenti colate di fango nella stagione delle piogge e da incendi improvvisi nei mesi torridi. Dietro ai cancelli e alle mura si potevano intravedere ville sfarzose, ma la strada principale era costellata di negozi da surf diroccati e noleggio bici. Abby non avrebbe definito quei luoghi un paradiso, ma per Hickle erano i Campi Elisi. La dimora in cui la reginetta del ballo e il suo consorte si erano ritirati per condurre le loro vite da sogno.
Voleva che continuasse a parlarle di Malibu, ma non c’era un modo di farlo senza correre rischi sconsiderati ed evidenti. Perciò disse pacata: «Le persone hanno problemi dappertutto, anche se vivono in bei quartieri».
«Le persone normali sì. Conosci lo scrittore che ha detto che i ricchi sono diversi? Aveva ragione, eccetto che non sono solo ricchi. Sono la killer élite. Hanno tutto quello che vogliono, mentre il resto di noi…»
La seconda carota gli si spezzò fra le mani.
«Sì?» gli chiese Abby.
«A noi toccano le briciole. Se siamo fortunati.»
Abby tentò di placare la sua ira con un’alzata di spalle. «Scommetto che quasi nessuno qui è ricco o famoso.»
«Non ancora, sono giovani, ma dagli tempo. Dove saranno fra dieci anni?» La sua voce si ridusse a un sussurro. «E io dove sarò?»
«Non lo so, Raymond» rispose lei con un tono altrettanto basso. «Cosa pensi ne sarà di te?»
«Io credo…» Con gli occhi rivolti verso il basso osservò il tavolo per un lungo momento. Poi sollevò lo sguardo, che incrociò quello di Abby. «A essere sinceri, credo che sarò piuttosto famoso.»
«Davvero?»
«Sì. Tutti sapranno chi sono.»
«Stai scrivendo il più grande romanzo di tutti i tempi o qualcosa del genere?»
«Non proprio.»
«Quindi come farai?»
«È… un segreto.»
«Che segreto è se non lo dici a nessuno? Dammi un indizio.»
«Non posso. Davvero.»
«Fai finta che davanti a te non ci sia solo Abby, ma la cara, vecchia Abby. Le persone le raccontano tutto. Le dicono molte più cose di quelle che probabilmente vorrebbe sapere.» Hickle sorrise ma scosse la testa. Voleva andare avanti ma l’istinto le suggerì che non si sarebbe lasciato convincere. «Ok, d’accordo» disse. «Di qualsiasi cosa si tratti, spero che vada in porto.»
«Oh, ma certo. Ne sono sicuro.»
Eccola. La risposta a una delle sue due ultime domande.
Riteneva di poter mettere in atto un’aggressione con successo? Sì.