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L’impasto era soffice ed elastico come il corpo di una donna. Le grandi mani callose e segnate dal tempo di George Zachareas lo lavoravano con un tocco premuroso. Spingeva e tirava, piegava e girava. Poco a poco i suoi movimenti acquisirono un certo ritmo, mentre braccia e spalle lavoravano insieme al tronco, dando vita a una danza lenta e cadenzata.

Zachareas (Zack per i conoscenti, proprietario del negozio di ciambelle Zack’s Donut Shack) si ritrovò a sorridere mentre si godeva il piacere sensuale di quel lavoro.

«Grazie per esserti fermato dopo il tuo turno, lo apprezzo molto» disse all’uomo alto al suo fianco. Indossava grembiule e cappello rossi e stava lavorando allo stesso impasto.

«Nessun problema» disse Raymond Hickle.

Zack era da solo in cucina con Hickle, dato che aveva lasciato alla cassa Susie Parker, una ragazza semianalfabeta e incapace che aveva abbandonato la scuola. Aveva pensato che fosse meglio lasciarla da sola in quel momento della giornata. Il pomeriggio era tranquillo; i clienti si riversavano nel negozio soprattutto alla mattina e a notte fonda. Solitamente Zack non c’era mai di giorno, ma Hickle l’aveva chiamato una mezz’ora prima dicendogli che i novanta chili di pasta preparata dal fornaio durante la notte erano finiti. Zack alla fine aveva deciso di andare in negozio personalmente e prepararne altri venti chili. Il preparato poteva essere impastato anche da una macchina, inserendo un utensile apposito in uno dei mixer elettrici, ma Zack preferiva farlo a mano. Hickle si era offerto di aiutarlo.

«Sei un gran lavoratore, Ray» disse Zack con un tono di voce che avrebbe sovrastato una tromba bitonale. Da un po’ di anni era diventato sordo e si rifiutava di ammetterlo. «Sei rimasto anche se non dovevi. Dopo otto ore di lavoro non ne potrai più di stare rinchiuso qui dentro.»

«Veramente no.»

«Fai qualcosa stasera?»

«No.»

«E nel weekend? Ormai ci siamo. Qualche programma?»

«Sabato lavoro, sostituisco Emilio.»

«Di nuovo?»

«Fa lo stesso. Qualche soldo in più.»

«C’è altro nella vita oltre il lavoro, Ray, soprattutto se lavori in un posto come questo.»

«Ieri avevo la giornata libera.»

«Già, è vero. Hai fatto qualcosa di divertente?»

«Sono andato in spiaggia.»

«Bella idea. Senti, non fraintendermi. Tu lavori bene, sei il migliore, ma non ti ci vedo a impastare ciambelle per tutta la vita. Non pensi al futuro?»

«A me va bene così.»

Zack scosse la testa. A sessantaquattro anni era un uomo alto ed energico, ma Hickle, più giovane di trent’anni, era persino più alto di lui, un metro e ottantacinque, con un fisico che gli avrebbe permesso di diventare un pugile, se si fosse applicato. Aveva una faccia giallognola, uno sguardo intenso, occhi pensierosi e una gran testa di capelli neri, voluminosi in alto e rasati all’altezza della nuca. Sarebbe potuto essere un bell’uomo, pensò Zack, ma c’era qualcosa in lui che non andava. Aveva una carnagione troppo chiara e gli occhi troppo piccoli, infossati sotto le sopracciglia pesanti. I tratti del viso erano leggermente sproporzionati, in un modo difficile da spiegare.

«Non dovresti accontentarti» gli disse Zack. «Che cavolo, sei un ragazzo intelligente.» Abbassò il tono della voce in un grido cospiratorio. «Molto più in gamba di quei buffoni con cui lavoro a volte. Forse tra un paio di mesi si potrebbe parlare di passarti a supervisore…»

«No, grazie.»

Zack fece una pausa, smettendo di impastare. «Non vuoi una promozione?»

«Mi piace quello che faccio.»

Zack tornò ad affondare le grandi mani nella pasta. Non riusciva a capirlo, quel Raymond Hickle. Il ragazzo diceva di essere contento, ma com’era possibile? Non aveva ambizioni né una vita personale. Non aveva niente eccetto otto ore al giorno trascorse a lavorare come uno schiavo per clienti menefreghisti.

A volte stava alla cassa o a fare caffè, a scaldare muffin e a tostare panini. Altre in cucina tra lavandini di acciaio inossidabile e ingombranti elettrodomestici, oppure di fronte al recipiente in cui grossi blocchi di strutto venivano sciolti per formare una densa massa di grasso con cui friggere le ciambelle. Hickle aveva imparato a usare il filtro, un utensile dalla forma conica, con il quale si inserisce la marmellata nella ciambella fritta. Un altro dei suoi compiti era lavare le pale del mixer che mischiavano il latte e lo zucchero a velo, per ottenere la glassa per i dolci. Un lavoro del genere non era il sogno di nessuno. Eppure Hickle non si era mai lamentato, non aveva mai battuto la fiacca o mostrato segni di cedimento. Non era una cosa normale.

Ray Hickle gli piaceva, per davvero, e voleva che quel giovane uomo fosse ottimista nei confronti della vita. «Lo sai, Ray» disse d’impulso, «sei il miglior dipendente del mese.»

Hickle non alzò neppure lo sguardo. «Non sapevo che nominassi il dipendente migliore del mese.»

«Infatti è così, ma diciamo che lo sei lo stesso, ok?» Diede a Hickle una vigorosa manata sulle spalle e una nuvoletta di farina bianca fluttuò in aria. «Ti sei guadagnato cinquanta dollari extra.»

«Non è necessario.»

«Con tutti gli straordinari non pagati che ti fai, Ray, meriteresti dieci volte tanto. Te li aggiungo in busta paga venerdì. Non fare storie.»

«Ok, grazie, Zack.» Nella sua voce non c’era entusiasmo, solo vuota accettazione.

«Come pensi di spenderli?» domandò Zack risoluto, sperando di suscitare in Ray un atteggiamento positivo.

Hickle alzò le spalle. «Non saprei.»

«Non hai qualcuno di speciale a cui comprare un regalo?»

«Sì.»

Zack non si era reso conto di essersi aspettato che Hickle dicesse di no finché non udì la risposta contraria. Con un sorriso nascose la sorpresa. «È fantastico, Ray. La frequenti da molto?»

«Qualche mese.» Hickle lavorava la pasta con le lunga dita ossute. «È una donna bellissima. Abbiamo un legame spirituale. È destino.»

La cosa strana di quella frase era che l’aveva detta con tutta la naturalezza di questo mondo, come se la pronunciasse ogni giorno.

«Be’, è davvero fantastico» disse Zack con minor convinzione. «Come si chiama?»

«Kris.»

«Come l’hai conosciuta?»

«Veramente non è che l’ho conosciuta. L’ho incontrata. Un giorno ero a Beverly Hills a farmi un giro e l’ho vista uscire da un negozio. Lei non mi ha visto, ha continuato a camminare, e mi è passata accanto. Ma io non le ho mai tolto gli occhi di dosso perché in quel momento ho capito… sì, l’ho capito e basta… che lei era l’unica per me. Sapevo che eravamo fatti l’uno per l’altra.»

«Quindi l’hai seguita?»

«Sì, l’ho seguita. E adesso la vedo sempre.»

«Buon per te. Ci vuole del fegato a correre dietro a una ragazza che ti piace. Ehi, la prossima volta che Kris è nei paraggi, invitala qui per un caffè e qualche dolcetto.»

«Va bene.»

Scese il silenzio mentre i due finivano di impastare. Una volta che la pasta non fu più appiccicosa e friabile, Zack disse: «Da qua in poi ci penso io. Perché non torni a casa dalla tua Kris? Scommetto che ti sta aspettando».

«Oh, sì. Viene da me tutte le sere. Cioè, le sere dei giorni feriali.» Hickle si lavò la farina dalle mani e si asciugò con un panno. Stava aprendo la porta della cucina quando Zack lo chiamò.

«Ehi, Ray, non dire a Kris del bonus. Comprale qualcosina e falle una sorpresa. Le donne adorano le sorprese.»

«È strano che tu me lo dica. Stavo proprio pensando di farle una sorpresa» disse Hickle più rivolto a se stesso. «Una sorpresa bellissima.»

Sparì dalla cucina, entrando nella sala principale. Zack lo fissò a lungo. Un tipo strano, Raymond Hickle. Ma se avesse trovato una donna che lo avrebbe amato, allora sarebbe stato più fortunato di molti altri.

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Hickle uscì dal negozio alle tre meno un quarto. Come d’abitudine, iniziò a scrutare il parcheggio accanto alla ricerca di veicoli sospetti. Era possibile che qualcuno lo stesse tenendo d’occhio. Kris aveva degli agenti di sicurezza a sua disposizione, che forse monitoravano i suoi movimenti.

Anche se non vide nulla, alzò il dito medio in aria, in segno di sfida, e iniziò a farlo roteare per mostrare il suo disprezzo a eventuali osservatori nascosti.

Poi entrò nella sua Volkswagen e si immise su Pico Boulevard, in direzione est. Dopo cinque isolati cambiò corsia, e poi cambiò ancora, velocemente, osservando lo specchietto retrovisore per controllare che nessuna macchina facesse le stesse manovre. Nessuna vettura lo aveva imitato. Fu piuttosto sicuro che nessuno lo stesse seguendo.

A una stazione di rifornimento fermò la macchina e usò un telefono pubblico; digitò uno dei tanti numeri che aveva memorizzato. Rispose la segreteria telefonica, come sempre. La segreteria non l’avrebbe poi disturbato così tanto se la voce registrata fosse stata quella di Kris. Ma la voce del nastro apparteneva a un uomo, presumibilmente suo marito.

Dopo il segnale acustico Hickle disse: «Ciao Kris, sono io. So che sei al lavoro. Ti volevo solo dire che ti penso. E che quella camicetta gialla che indossavi ieri… be’, non ti offendere ma sinceramente non credo ti stia bene. Il tuo colore è il blu. Mi è piaciuto il botta e risposta con Phil, il tipo delle notizie sportive, soprattutto la parte sui Dodgers. Non sapevo che fossi una fan del baseball. Spero davvero che non vorrai mangiare uno dei loro hot dog. Quella robaccia ti ucciderebbe. Ci tengo molto alla tua salute. Ciao».

Tornò in macchina. Due isolati dopo fece una sosta in un minimarket e fece una chiamata da un altro telefono. Aveva il presentimento che fosse importante telefonare da posti diversi. Rimanere in linea troppo a lungo nello stesso luogo poteva essere pericoloso. Non sapeva il perché. Sapeva solo che doveva continuare a muoversi.

Questa volta la chiamò al lavoro. Anche lì c’era la segreteria telefonica. «Ciao Kris. Immagino ti stia preparando per il notiziario delle 18. Ti volevo chiedere se hai ricevuto i fiori che ti ho spedito la scorsa settimana. Spero ti siano piaciuti. Ho fatto confezionare il bouquet come il mazzo di fiori della tua scrivania, l’ho visto su Los Angeles Magazine. Non è stato facile. Dovresti tagliare le punte degli steli ogni due o tre giorni, così i fiori rimangono freschi. Ah, sono Raymond, nel caso non l’avessi capito. In bocca al lupo per dopo.»

Guidò per un altro chilometro circa, si fermò nel parcheggio di un piccolo centro commerciale e chiamò da una cabina davanti a una paninoteca. Digitò il numero del centralino della KPTI. «Kris Barwood, per favore.»

L’operatrice disse che la signora Barwood non era disponibile. Poteva anche essere vero, ma era più probabile che la donna avesse riconosciuto la sua voce. Dopotutto, chiamava il centralino quasi ogni giorno. «Vuole lasciare un messaggio?» gli domandò.

«Sì, le dica che ha chiamato Raymond Hickle, per cortesia. Devo darle alcune informazioni importanti, ma devo parlare direttamente con lei, non tramite un intermediario. Devo parlare con Kris.»

«Glielo dirò» disse l’operatrice in tono annoiato.

Hickle si accorse che la donna non gli aveva chiesto a quale numero avrebbe potuto richiamare.

Riattaccò e guidò per altri tre isolati. Parcheggiò davanti a un fast-food e utilizzò il telefono a pagamento, digitando il numero di casa di Kris e muovendosi irrequieto finché non sentì il bip della segreteria telefonica. «Kris, ciao, sono Raymond. Senti, volevo dirtelo personalmente ma sembra che non riusciamo a trovare un momento per parlarci, quindi devo lasciarti un messaggio. L’altra notte ti ho sognata e forse si tratta di un sogno premonitore. Ti guardavo mentre eri in onda e parlavi di un omicidio, una di quelle sparatorie da una macchina in movimento, e poi un’auto all’improvviso è piombata dentro lo studio fracassando la parete. Poi qualcuno ha sparato e tu sei stata colpita, Kris. Ti hanno colpito e c’era sangue dappertutto. Eri coperta di sangue. Non credo che abbiano beccato i responsabili però. Ecco, mi sembrava il caso di dirtelo. A volte i sogni predicono il futuro, o così dice la gente. Devo andare adesso, ciao.»

Guidò per mezzo isolato e parcheggiò accanto al marciapiede. Decise di correre il rischio di telefonare dallo stesso apparecchio che aveva appena usato. Gli era venuta in mente una cosa. «A proposito» disse, «hai presente il bouquet che ti ho mandato? Sarebbe perfetto per un funerale, non credi? Ci sentiamo presto.»

Pensava di averle detto tutto, ma tre isolati più avanti si fermò nel parcheggio di un supermarket e inserì gli ultimi 35 centesimi nel telefono pubblico e chiamò di nuovo il centralino della KPTI. Rispose la stessa operatrice.

«Kris Barwood, per favore» disse.

La donna sospirò. «Mi dispiace, ma la signora Barwood…»

«Non è disponibile. È quello che stava per dire, vero?»

«Sì, signore. Se vuole può lasciare un messaggio.»

«Volentieri. Mmh, le dica che ha chiamato Raymond. Solo Raymond, non il cognome. Mi conosce.»

«Va bene, signore.»

«E un’altra cosa. Pronto?»

«Sono ancora qui. Mi dica.»

«Le dica questo: spero che uno schifoso ratto le si infili tra le gambe e le divori quella fottuta fica

Riattaccò. Alla fine aveva alzato il tono della voce. Una donna con il suo bambino lo stava fissando dall’altro lato del parcheggio. Mentre tornava alla macchina, Hickle le sputò addosso. La donna scappò via, mentre suo figlio scoppiò a piangere.