31
La prima cosa di cui si rese conto fu il dolore.
Abby batté le palpebre e alzò la testa. Poi, di fronte alla nuova sofferenza, richiuse gli occhi. Qualcosa la schiacciava dal retro del cranio fino al ponte del naso. Le pulsava dietro gli occhi.
«Cavolo» mormorò, «gran brutta sbronza.» Le parole le uscirono di bocca roche e confuse. La lingua era un gigantesco rotolo di ovatta che le bloccava la gola.
Era sdraiata sul pavimento di camera sua e nell’aria c’era una puzza terribile. Un odore simile a quello di dozzine di sacchi della spazzatura mischiati insieme in un giorno di caldo torrido, un tanfo di acquitrino.
Aveva perso i sensi, non riusciva a ricordarsi come. L’ultimo ricordo era la faccia di Hickle.
Si era sporto minaccioso sopra di lei, il fucile in mano.
Le aveva sparato? Le sembrava di no. Non le parve di avere buchi nel corpo, ma in qualche modo le aveva fatto perdere conoscenza e l’aveva lasciata lì. E quell’odore acido, salmastro…
Gas. L’appartamento si stava riempiendo di gas.
Il gas naturale era inodore, ma le compagnie aggiungevano un additivo in caso di perdite. Le perdite di gas potevano essere pericolose, fatali. Una scintilla avrebbe potuto innescare un’esplosione.
Una fiamma libera, la fiamma pilota della caldaia.
In quell’istante capì con precisione quale fosse il piano di Hickle.
Quello che doveva fare era chiaro: aprire le finestre e chiudere il gas. Facile, peccato che non riuscisse a muoversi. Ogni muscolo del suo corpo era privo di energia. Il polso era rapido e debole. Avvertì un’ondata di vertigini in testa.
Cercò di alzarsi ma le braccia non riuscivano a sostenerla. Collassò ansimando. Non c’era aria per respirare. Sentiva solo il tanfo di acquitrino. Il gas naturale era nemico della respirazione. Inibiva la capacità del sangue di trasportare l’ossigeno. Più gas avesse inalato, più affannato e irregolare sarebbe diventato il suo respiro. I muscoli, affamati d’ossigeno, avrebbero perso tutta la forza rimanente. Sarebbe rimasta lucida per un momento, poi sarebbe svenuta. Be’, no. Dubitava che avrebbe resistito così a lungo. L’esplosione l’avrebbe uccisa prima.
«Sei la solita Abby» gemette. «Guardi sempre il lato positivo.»
Più l’attesa si prolungava, più si indeboliva. Doveva fare qualcosa, adesso, doveva aprire la finestra della stanza e far entrare un po’ di aria in quella trappola mortale. Ma non riusciva ad alzarsi. Va bene, striscia. La finestra era solo a due metri di distanza. Anche un bambino avrebbe potuto gattonare fin là.
Si girò sulla pancia. Qualcosa la frenava, percepì un ostacolo. La caviglia sinistra era legata a un piede del cassettone da una catena e dal lucchetto dell’armadio della camera di Hickle. Il cassettone, come tutti i mobili di quella topaia, era saldato al muro. Impossibile sollevarlo. L’aveva legata lì per impedirle di scappare nel caso avesse ripreso conoscenza.
Bella mossa, ma Hickle era stato uno sciocco. Abby conosceva la combinazione. Si piegò e afferrò il lucchetto, allineò i numeri e diede uno strattone alla catena.
Il lucchetto non si aprì.
Ma come, impossibile. A meno che…
Hickle aveva cambiato la combinazione.
Abby chiuse gli occhi. «Devo ricredermi, Raymond, a quanto pare la sciocca sono io.»
Hickle sapeva benissimo che il rischio maggiore che correva era che i poliziotti avessero rilevato la sua targa durante l’inseguimento. In quel caso, la targa e la descrizione della sua Volkswagen sarebbero state segnalate ad altre unità, alla polizia di Los Angeles e alle vetture di pattuglia di Santa Monica. Poteva seminare una macchina, non una dozzina.
Raggiunse Ocean Avenue e si diresse verso nord guidando nel traffico frenetico, tipico del venerdì sera. Motociclisti e tamarri con auto truccate lo circondavano. Un ammasso di gente rozza, quella che attirava l’attenzione di un sacco di pattuglie. Passò in rassegna il mare di tettucci in cerca di una barra luminosa. Non ne vide neanche una, ma ciò non significava che non ci fosse una pattuglia nelle vicinanze. Forse erano dietro di lui, forse si stavano avvicinando.
Il panico lo assalì. Stava per vomitare.
Il traffico diminuì un po’ quando entrò in un quartiere più bello. A sinistra, il Palisades Park gremito di turisti e ragazzini. Alberghi, ristoranti e alti condomini riempivano il lato destro. Gli venne in mente che presto, anche se le cose non fossero andate esattamente come da programma, sarebbe morto o finito in prigione. Non avrebbe mai più camminato in un parco né mangiato in un ristorante. Non avrebbe mai più visto la luna che, in quel momento, si stagliava sull’oceano. Al massimo avrebbe potuto vederla attraverso le sbarre di una cella.
Ma se fosse rimasto in vita, Kris avrebbe tormentato i suoi pensieri per l’eternità, sarebbe stata con lui ogni giorno, il corpo insanguinato e dilaniato, la sua vittima sacrificale. Ogni volta che avrebbe chiuso gli occhi avrebbe visto solo lei. Avrebbe rinunciato alla luna per tutto quello. E se non fosse sopravvissuto…
Con la morte giungeva l’immortalità. Sarebbe stato ricordato. Il suo nome e la sua faccia sarebbero diventati famosi. Lui, non Kris, sarebbe stato su tutte le prime pagine dei giornali. Lui, non Kris, avrebbe guardato il mondo di spettatori dalla televisione. E chi poteva dirlo? Forse c’era una seconda vita dopo la morte, dove tutti i destini compivano il loro corso. Se così fosse stato, sarebbe rimasto con lei per sempre, come si meritava.
Ma solo se prima l’avesse uccisa. Per farlo doveva arrivare a Malibu e il tempo stringeva.
Davanti a lui c’era la deviazione per l’autostrada costiera. Si immise nella corsia di uscita, ma rimase imbottigliato in una fila di macchine a un semaforo rosso. Attese per un minuto. Era disperato. Se una pattuglia l’avesse avvistato in quel momento non ci sarebbe stato niente da fare a parte sparare. Finalmente il semaforo divenne verde. Seguì il traffico che si dirigeva a valle, respirando affannosamente, il petto che si gonfiava con uno sforzo indicibile. Aveva la faccia, le ascelle e l’inguine bagnati di sudore. Puzzava. Ma fino a lì era riuscito ad arrivare.
Si immise nella corsia di sorpasso sfrecciando tra le candide scogliere e il mare. La paura di attirare l’attenzione gareggiava con il bisogno di recuperare il tempo perduto. Vinse l’urgenza.
Hickle accelerò, 120 chilometri all’ora, 125, 130, superando i limiti di velocità mentre costeggiava la costa ondulata della Santa Monica Bay diretto a Malibu.
D’accordo, Abby, rifletti. Pensa.
Il piano A si era rivelato un fiasco. Era tempo di passare al piano B, sempre che ci fosse un piano B, diverso dal rimanersene sdraiata ad aspettare che tutto saltasse in aria.
Scosse la testa. Respinse quella visione pessimistica. C’era sempre un piano B, e se anche quello avesse fallito ci sarebbe stato un piano C e un piano D, e così via fino alla fine dell’alfabeto. Mai arrendersi, quello era lo spirito.
Il piano B era tentare diverse combinazioni basate sul compleanno di Kris, 18 agosto 1959.
Abby mosse le quattro camme su 0859, 1859, 5918, 5908. Niente da fare. Qual era il compleanno di Hickle? Travis glielo aveva detto. 27 ottobre 1965.
A un certo punto sembrò che le camme cominciassero a diventare scivolose. No, erano le sue dita a essere bagnate di sudore. Si asciugò le mani tremanti sulla camicia e girò i dischi. 1007, 1065, 0765 e tutte le combinazioni opposte di tutte quelle sequenze. Non successe nulla.
La puzza di gas continuava ad aumentare. Avvertì un conato di vomito e un forte senso di nausea. D’accordo. Piano C. Si sfilò le scarpe e cercò di far scivolare il piede attraverso la catena. Inutile. Il cerchio dei dentini di acciaio le perforava la pelle del tallone. O la catena era troppo stretta o il suo dannato piede era troppo grosso.
Qualcosa di simile al panico divampò dentro di lei. Lo respinse. Non doveva perdere il controllo. Farsi prendere dal panico non era una buona tattica di sopravvivenza.
Era ora di tentare il piano D. Ma qual era? Avrebbe potuto dare dei calci al pavimento e gridare aiuto. Il guaio era che non credeva di poter inspirare aria sufficiente a emettere un urlo decente, e se avesse solo calciato il pavimento, i vicini al piano di sotto l’avrebbero ignorata oppure avrebbero chiamato la polizia. E i poliziotti avrebbero impiegato ore a rispondere a una chiamata di bassa priorità in quel distretto, posto che avessero risposto.
Lei non aveva tutto quel tempo. Il gas era sempre più denso. Tra non molto avrebbe raggiunto la massa critica necessaria a innescare l’esplosione e a far scoppiare l’incendio. La temperatura avrebbe raggiunto i settecento gradi. Sarebbe stato talmente caldo da friggerla.
«Dannazione Abby.» Batté le palpebre per togliersi il sudore dagli occhi. «Dovresti essere in gamba, giusto? E altamente addestrata e in grado di padroneggiare un certo tipo di abilità…»
Lei possedeva delle abilità. Tra quelle c’era l’abilità a forzare i lucchetti. Non aveva strumenti ma forse non le servivano. Tese la catena e iniziò a lavorare sulle camme. La seconda si era indurita, girava con difficoltà. Era la prima su cui lavorare. Con molta cura fece girare la camma facendo scorrere tutte e dieci le cifre. Al numero sei si allentò, il secondo numero della combinazione era il sei. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. La vista iniziò ad annebbiarsi. Le sue condizioni generali non erano buone e la prognosi era delicata. Nel menu questa sera abbiamo tagliata di Abby servita ben cotta.
Piantala. Doveva concentrarsi.
Più facile a dirsi che a farsi. La sua testa era schiacciata in una morsa di dolore e la camera da letto aveva iniziato a girare come se lei fosse su una giostra; e poi quell’aria satura di pannolini sporchi le riempiva il naso e la bocca.
Continuando a fare pressione sulla catena, iniziò ad armeggiare con le altre tre camme. Ora era la prima a ruotare con difficoltà. Lentamente iniziò a muovere il disco cercando di non pensare al gas e alla fiamma pilota e ai settecento gradi. Sarebbe stato più caldo che a Phoenix nel mese di luglio, sempre che potesse esistere un posto più caldo di Phoenix.
La camma si allentò quando Abby impostò il disco sul numero otto. Quello era il primo numero della combinazione. Il sei era il secondo. Otto e sei. Fa’ uno sforzo, Abby. Otto e sei.
Channel Eight. Il notiziario delle 18… e delle 22.
Le ultime due cifre erano uno e zero. 8610 era la combinazione. Doveva esserlo per forza. Impostò le camme in quella sequenza, il lucchetto si aprì. Era libera.
Ora apri la finestra. Fa’ in fretta.
Prona, iniziò a strisciare sul pavimento. Il suono del suo respiro era orrendo.
Il petto si abbassava e non riusciva a far entrare ossigeno nei polmoni, la sua testa stava letteralmente sfrigolando e percepì un forte dolore dietro agli occhi, come se qualcuno li stesse schiacciando. A volte, pensò, odio davvero il mio lavoro.
Si appoggiò alla parete della camera da letto. La finestra era sopra di lei, vicina, ma non riusciva a raggiungerla, non riusciva ad alzarsi dal pavimento. Era troppo debole. Andiamo, si rimproverò, davvero non sei in grado di metterti in piedi?
Allungò un braccio e riuscì ad afferrare il davanzale. Usandolo come punto d’appoggio si mise in ginocchio.
La finestra era serrata. Hickle, quel bastardo, si era anche preso la briga di tirare il chiavistello. Cercò di aprirlo ma le dita madide di sudore non riuscivano a trovare una presa. L’intera situazione stava iniziando a darle sui nervi. Non ne andava bene una e il tempo stava per scadere.
Alla fine riuscì ad aprire il chiavistello. Ok, apri la finestra. Mise entrambi le mani sulla barra e fece un enorme sforzo per sollevarla. Non accadde nulla, non aveva forze. Diede un pugno al vetro. Ma i suoi colpi erano deboli come delle piume. Un gattino avrebbe colpito con più forza.
Tentò nuovamente di alzare la finestra ma senza fortuna. La debolezza prese il sopravvento, Abby abbassò la testa e iniziò a tossire. Dio, com’era stanca. Voleva dormire…
Più tardi avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per riposare. Il riposo eterno, se non si fosse inventata qualcosa. Era ancora viva. Non avrebbe sprecato il tempo concessole. L’appartamento avrebbe potuto esplodere in qualsiasi momento. Doveva diluire i fumi del gas con aria pulita oppure sarebbe morta. Apri quella maledetta finestra. Fallo.
Raccolse tutte le forze che le erano rimaste e con uno sforzo finale spinse la finestra verso l’alto. Si aprì di pochi centimetri.
Fatto!
Posò la mano destra sul davanzale e cercò di prendere aria, ma la gola le si era chiusa. L’aria pura stava entrando nella camera, ma lei non riusciva a respirarla. Che cavolo era successo ai suoi polmoni?
La risposta era semplice. La vista le si stava annebbiando e iniziò a sentire un ronzio nelle orecchie, stava per perdere conoscenza. Stava per collassare e anche se aveva aperto la finestra non sarebbe riuscita a salvarsi.
«Ci hai provato, ragazza» mormorò, «ma il primo premio non è per te.»
Finì con la faccia sul pavimento e piombò nell’oscurità.