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Il Wilshire Royal era uno dei palazzi più costosi di Westwood e il mutuo di Abby era follemente alto, considerando soprattutto quanto poco tempo trascorreva in casa. Ma quel posto offriva due vantaggi che lei apprezzava particolarmente: lusso e sicurezza.

Una grande fontana zampillante ornava il viale, pregiato marmo grigio decorava l’atrio. Un’eccellente riproduzione dell’Eva di Rodin impreziosiva l’ala che ospitava gli ascensori. La sicurezza era meno evidente. Il portiere che la salutò mentre si dirigeva verso il vialetto principale e che le prese il trolley non aveva l’aspetto di una guardia, ma sotto il blazer rosso un occhio esperto sarebbe stato in grado di individuare il rigonfiamento di una fondina da spalla. I due uomini in uniforme seduti al tavolo in mogano della reception tenevano le pistole in piena vista, ma la serie di schermi delle telecamere a circuito chiuso era nascosta sotto il tavolo.

«Ehi, Abby» disse uno dei due.

Lei sorrise. «Vince, Gerry, come andiamo?»

«Giornata fiacca. Com’è andata la trasferta?» Credevano che Abby facesse la rappresentante di un’azienda di software e per questo fosse spesso in viaggio.

«Redditizia.»

Chiese se c’era una pacco FedEx per lei con consegna in giornata e lo trovarono sotto il tavolo. Si mise il pacco sotto braccio. Era bello riavere la pistola. Senza si sentiva nuda.

«Grazie, ragazzi» disse con un sorriso e un cenno della mano. «Ci vediamo.»

L’ascensore che la portò al decimo piano era munito di telecamera nascosta. Il pannello di controllo faceva scattare un allarme silenzioso che avvisava la reception nel caso l’ascensore fosse stato bloccato deliberatamente tra due piani. C’erano delle telecamere nelle scale e nel garage sotterraneo, al quale si poteva accedere solo tramite l’inserimento di una tessera magnetica in un dispositivo che azionava il portone d’acciaio. Anche l’entrata era monitorata da una telecamera di sorveglianza. Mancava solo un fossato pieno di coccodrilli. Avrebbe potuto avanzare l’idea alla prossima riunione condominiale.

Non era sicura che tutte quelle precauzioni fossero effettivamente necessarie. Per gli standard di LA, Westwood era un quartiere tranquillo. Ma correva già troppi rischi sul lavoro. Le piaceva avere un rifugio in cui tornare.

Il suo appartamento era il 1015. Aprì la porta ed entrò nel salotto che occupava metà della metratura di tutto l’alloggio, di novanta metri quadrati. L’aria era stantia visto che era rimasto chiuso per una settimana. A parte quello, tutto era esattamente come l’aveva lasciato.

Posò la valigia e il pacco su una poltrona imbottita. L’arredamento era stato scelto per privilegiare la comodità, senza particolare attenzione allo stile. Amava avere una poltrona in cui poter sprofondare e un divano più soffice di un letto. Cuscini decorativi e trapunte colorate erano sparpagliati qua e là, insieme al classico orsetto polare di peluche e a un pappagallo finto che contribuivano a conferire alla casa un’impressione generale di disordine. Le sue doti di arredatore erano estremamente limitate, anche se era riuscita a trovare due quadri che le piacevano. Entrambi erano stampe pescate da un cesto di offerte speciali. Una era un’opera matura di Joseph Turner, un paesaggio che si dissolveva in un bagno di luce, l’altra una delle tante versioni del Regno della pace di Edward Hicks, predatore e preda alleati. L’opera di Turner possedeva una sfera spirituale capace di toccare una parte di lei che indagava raramente, mentre quella di Hicks, con il suo ingenuo ottimismo, la faceva semplicemente sorridere.

Spalancò le tende e la portafinestra che dava sul balcone per dare aria alla stanza. L’appartamento affacciava su Wilshire Boulevard. Era abbastanza in alto perché il rumore del traffico quasi non arrivasse fin lassù.

In cucina bevve due bicchieri d’acqua. L’aereo le lasciava sempre la gola secca. Nel freezer trovò mirtilli e pesche, li scongelò nel microonde e li mise nel frullatore insieme a un po’ di yogurt alla vaniglia e a del latte scremato scaduto da due giorni. Dopo pochi secondi il frullatore aveva ridotto il contenuto in una poltiglia schiumosa e bluastra che lei versò in un bicchiere e bevve lentamente, interrompendosi per ingerire vitamine varie e integratori minerali.

Uscì dalla cucina, indossò un accappatoio di spugna bianco e fece scorrere l’acqua della vasca. Per un momento pensò di aggiungere degli oli da bagno, poi respinse quella prospettiva appagante. Stava per sfilarsi l’accappatoio quando il citofono suonò.

Rispose, il tono irritato. «Sì?»

«C’è il signor Stevens qui» disse una delle due guardie dell’atrio.

«Ok, Vince. Fallo salire.»

Stevens era il nome che Travis utilizzava quando andava a trovarla. Le guardie non dovevano sapere che Abby aveva dei legami nell’ambiente della sicurezza, e il nome di Travis ultimamente aveva ricevuto parecchia pubblicità.

Lo aspettò, chiedendosi perché fosse tornato.

Quando il campanello trillò, aprì la porta e lui entrò senza dire una parola.

«Ehi, Paul. Dimenticato qualcosa?»

«Non esattamente. Ho cambiato idea.»

«Su cosa?»

«Sull’urgenza di tornare in ufficio.»

Lei sorrise, rilassandosi e allo stesso tempo avvertendo una scarica di piacere. «Ah sì?»

«Sai come dice il proverbio: troppo lavoro e niente spasso, il morale scende in basso.» Diede un’occhiata all’appartamento. «Questo posto non è cambiato per niente.»

«Non è passato poi così tanto tempo dall’ultima volta che sei stato qui» disse Abby, ma subito si rese conto che si sbagliava. Erano passate settimane, e non solo perché era stata in viaggio. Negli ultimi mesi, anche quando era a LA, non vedeva Travis troppo spesso. Insomma… dal caso Devin Corbal.

Lui si diresse verso il balcone. «Vedo che la vista non è migliorata.» L’anno precedente avevano iniziato a costruire un palazzo di uffici dall’altra parte della strada, nero, orrendo e, fino a quel momento, deserto; qualche impedimento finanziario o legale aveva bloccato i lavori nella fase finale.

«Mi ci sono abituata» disse Abby, «anche se devo ammettere che è un peccato per il quartiere. Tutti quei posti vuoti…»

Si interruppe. Per un attimo rimasero entrambi in silenzio e lei sapeva che Travis stava pensando agli uffici vuoti della TPS. Si sarebbe data un ceffone.

Ma quando lui voltò le spalle al balcone, stava sorridendo. «Sento scorrere dell’acqua?»

«Stavo per farmi un bagno.»

«Intrigante.»

«Non credo ci sia abbastanza spazio per due.»

«Hai mai provato?»

«Veramente no.»

«Dovresti. Perché non vai a controllare se l’acqua è calda?»

«Già, perché no?»

Lo lasciò in salotto e s’incamminò verso il bagno. La vasca era mezza piena e la temperatura dell’acqua perfetta. L’aria, densa di vapore, era umida e seducente. Gli oli non sembravano più una brutta idea. Quando li rovesciò nella vasca, bianche bolle emersero dall’acqua, riflettendo la luce del soffitto in un arcobaleno di colori. Si tolse l’accappatoio, lo appese dietro la porta e si distese nella vasca. Lo spazio era esiguo e, da brava pessimista, pensò che aveva ragione: non c’era posto per due.

Poi entrò lui. Era senza vestiti e lei lo intravedeva attraverso il vapore. Si chinò su di lei e la baciò. Abby avvertì un fremito leggero quando lui fece scivolare la mano nell’acqua e le accarezzò il seno. Era una carezza lenta e circolare, il tocco delicato delle dita, la pressione più decisa del palmo, mentre con l’altra mano le accarezzava i capelli, il collo, le massaggiava le spalle perennemente in tensione.

«Mi sa che non ci entri» disse lei in tono malizioso.

«Vedremo.»

Travis allungò la mano dietro di lei e chiuse il rubinetto, poi accarezzò i muscoli tonici e sottili della sua schiena. L’acqua, arricchita dagli oli, era delicata e morbida, un liquido esotico, diverso dalla solita acqua.

«Mi sei mancata.»

Per un attimo rimase sorpresa. Non era mai romantico.

«Io…» Perché era così difficile dirlo? «Anche tu mi sei mancato.»

Il livello dell’acqua si alzò. Era entrato nella vasca, le gambe divaricate contro i suoi fianchi, mentre l’acqua ondeggiava lentamente intorno a loro e bolle vaganti si staccavano dalla massa oleosa esplodendo in piccoli plop. «Temo che le circostanze non permettano troppa eleganza» si scusò Travis.

Lei ridacchiò. «L’eleganza non è sempre necessaria.»

Si dondolarono gentilmente nell’acqua e nel vapore. Lei fece scivolare indietro la testa, una ciocca di capelli le faceva da cuscino contro la parete piastrellata. Sul soffitto l’aspiratore ronzava. Dell’acqua gocciolava dal rubinetto. Le batteva il cuore e sentiva il respiro di Travis.

«Abby» ansimò lui.

Lei chiuse gli occhi.

«Abby.»

Era dentro di lei.

«Abby…»

Travis si muoveva avanti e indietro, sempre più forte, spingendosi in profondità.

Abby inarcò la schiena, emergendo dall’acqua mentre i capelli le danzavano davanti al viso in un turbine nero. A un tratto ebbe la vaga sensazione di aver sbattuto la testa contro quelle maledette piastrelle, ma non importava.

Quando lui uscì da lei si strinsero, avviluppati tra le bolle, mentre i loro corpi emanavano spirali di vapore.

«Te l’ho detto che sarei entrato» disse Travis.

Non poté contraddirlo.

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Nel tardo pomeriggio Abby si svegliò nella familiare penombra di camera sua. Si tirò su, appoggiandosi al gomito, per vedere dove fosse Travis. Ma lui se n’era già andato, ovviamente. Era tornato in ufficio. Pensò che era stato premuroso da parte sua non averla svegliata.

Si ricordò vagamente che avevano lasciato la vasca quando l’acqua era diventata fredda. Si erano asciugati a vicenda e la frizione vigorosa si era trasformata in un contatto più sensuale. Poi erano andati sul letto, avevano fatto saltare via le coperte e avevano ripreso da lì. Stavolta le circostanze avevano favorito una dose notevole di eleganza. Poi lei si era assopita e lui se n’era andato, raccogliendo i vestiti in salotto che sicuramente doveva aver piegato e sistemato con cura. Per lo meno l’aveva inserita nel suo programma della giornata. Aveva trovato un buco per lei tra il pranzo e gli appuntamenti pomeridiani.

Scosse la testa. Non era giusto. Ma cosa si aspettava da lui? Che cancellasse tutti gli impegni e trascorresse l’intera giornata con lei? Stava cercando di salvare la sua attività altamente compromessa e, nel frattempo, di mantenere vive alcune delle personalità più influenti di LA.

Comunque Abby non gli aveva mai chiesto di più. Le piaceva avere i suoi spazi e la sua libertà. Forse le piaceva troppo, per il suo stesso bene.

Si alzò dal letto e indossò una t-shirt e un paio di pantaloncini corti. A piedi nudi, andò in cucina e aprì una scatoletta di tonno. Schiacciato tra spesse fette di pane ai datteri, riusciva persino a diventare un sandwich piuttosto gustoso. Quando mangiava solitamente guardava la TV oppure leggeva, ma a quell’ora in televisione non c’era niente e l’unica lettura disponibile al momento era la relazione di Travis. Stava per estrarla dalla valigia, quando si bloccò. «Tutto lavoro e niente spasso» disse pensosa.

Era stato Travis a dirlo. Aveva ragione. Poteva concedersi una pausa. Eppure, mentre mangiava seduta al tavolo, si ritrovò a lanciare occhiate alla valigia.

«Sei una stacanovista» si rimproverò. «Questo mestiere ti ucciderà se non allenti la presa di tanto in tanto.» Sempre che quel mestiere non la uccidesse nel senso letterale del termine.

All’improvviso l’aria fu invasa da un’ondata di energia negativa. Inserì un CD nell’impianto stereo. Il disco, scelto a caso, era un vecchio album jazz di Kid Ory. Rimase ad ascoltare mentre Kid suonava il suo trombone in Muskrat Ramble. Ma Abby conosceva quella canzone troppo bene per stare ad ascoltare fino in fondo, e i suoi pensieri presero a vagare su altri lidi. L’università. Un temporale a gennaio e lei che, sotto la pioggia battente, rompeva con Greg Daly. Era diventato pressante, non la lasciava respirare. Anche allora aveva bisogno dei suoi spazi. Era sempre stato così per lei.

Una volta ne aveva parlato anche con suo padre. Riusciva a vederlo con chiarezza nei suoi ricordi, mentre strizzava gli occhi al sole dell’Arizona, un reticolo di rughe che gli incorniciava i sereni occhi nocciola. Aveva ereditato quegli occhi, quella esatta sfumatura, e forse il senso di distacco che comunicavano. Suo padre era un uomo riflessivo, incline alla contemplazione e al silenzio. Possedeva un ranch nel disabitato territorio pedemontano a sud di Phoenix. Una sera sedevano insieme davanti alle tonalità rossastre del tramonto nel deserto e osservavano eserciti di cactus trafiggere con i loro grossi rami quel cielo lucente. Gli aveva chiesto perché lei non piacesse ai ragazzi della scuola. Aveva dodici anni.

“Non è che non gli piaci” le aveva detto suo padre. “È che si sentono un po’ scoraggiati. Intimiditi, credo.”

Era rimasta sconcertata. “Cosa c’è che intimidisce in me?”

“Be’, fammi pensare. Cosa c’è che intimidisce in una ragazza capace di arrampicarsi sugli alberi meglio di loro, di ferrare un cavallo o di mirare e sparare con un fucile come un professionista?”

Gli aveva fatto notare che la maggior parte di loro non l’aveva mai vista fare quelle cose.

“Ma loro ti guardano, Abigail.” L’aveva sempre chiamata così, mai Abby o Constance, il suo secondo nome. “Guardano come ti comporti. E comunque non è che tu li incoraggi molto, giusto? Te ne stai per i fatti tuoi. Ti piace la solitudine e vuoi la tua privacy.”

Aveva dovuto ammettere che era così.

“Noi ci somigliamo molto” aveva detto Henry Sinclair. “Tendiamo a sentirci in gabbia più facilmente degli altri.” Lei gli aveva chiesto se fosse una cosa buona. “Sì, lo è” le aveva detto. “Se sai sfruttarla a tuo favore.” Quando gli aveva chiesto come, lui aveva risposto: “Lo capirai da sola”..

L’aveva capito? Erano passati sedici anni da quella conversazione. Suo padre non c’era più, e neanche sua madre. Era più sola adesso di quanto non fosse stata quando era bambina, e tendeva ancora a sentirsi in gabbia più facilmente degli altri.