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Dopo che Hickle fu uscito dall’appartamento, Abby aprì l’armadio della camera da letto. Il videoregistratore e l’impianto audio non avevano smesso di registrare un momento, ma la TV era spenta e il sonoro della console era disattivato.

Accese lo schermo e gli altoparlanti, poi si sedette sul pavimento in un’approssimativa posizione del loto, appoggiando la schiena contro il letto, lo sguardo fisso sul monitor. Vide che Hickle camminava su e giù per il salotto e che poi si dirigeva in cucina per prepararsi qualcosa da mangiare. Si chiese se mangiare fosse una semplice reazione allo stress oppure se avesse fame perché non aveva mangiato a sufficienza.

Divorò il suo pasto in piedi, praticamente fuori portata della telecamera. Quando ebbe finito, lasciò le stoviglie nel lavandino e andò in camera. Abby controllò l’orario. Le 21.40. Il notiziario presentato da Kris sarebbe iniziato tra venti minuti. Suppose che non se lo sarebbe perso per niente al mondo.

Ma Hickle non riapparve dalla camera. Il microfono non registrava alcuna attività, alcun suono. Abby rimase in attesa, mentre un’ansia nuova e pungente si faceva strada dentro di lei.

Lanciò un’altra occhiata all’orologio. Erano quasi le 22. Di Hickle neanche l’ombra. Strano. Un segno funesto. Il rituale di sedersi sul divano e vedere i programmi di Kris era una sacrosanta abitudine quotidiana.

«Che succede, Raymond?» bisbigliò. «Che cos’hai in mente?»

Alzò il volume. Riuscì vagamente a distinguere un suono, basso e costante, difficile da identificare. Un brusio.

Aveva acceso un ventilatore? Non le pareva di averne visto uno, e comunque quel rumore era diverso da quello di un motorino elettrico. Era un suono ondulante, fluttuante.

Si avvicinò agli altoparlanti, impostando il volume al massimo, ma i suoni contingenti (i rumori di sottofondo di qualsiasi ambiente o locale) si trasformarono in un crepitio alto e costante, sovrastando quasi completamente il brusio indistinto.

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«Si è fissato su Kris perché rappresenta il suo ideale di donna, quello che lui chiama la bellezza, l’aspetto esteriore. Nella mente di Hickle esiste sotto forma di una versione più matura e perfezionata di Jill Dahlbeck, anche lei aveva occhi blu e capelli biondi. Ma questa volta ha scelto una donna completamente diversa da Jill in qualsiasi altro aspetto: Kris è una celebrità, è sposata, ricca, famosa e più grande di lui. Vuole una donna che sia inarrivabile. Vuole rincorrerla e fallire nel tentativo, perché sarà proprio questa umiliazione a dargli l’espediente di cui ha bisogno per annientarla e annientare se stesso…»

Supino sul letto, Hickle ascoltava. Aveva i crampi allo stomaco. Lentamente si rotolò su un fianco e si raggomitolò in posizione fetale.

«Ma chi è davvero Kris Barwood per lui? L’amante delle sue fantasie, la moglie dei suoi sogni, e non bisogna essere Freud per capire che Kris incarna anche il suo ideale di madre, una figura autoritaria che ha una casa e un marito. Rappresenta tutti i tratti della natura femminile, la seduttrice sensuale, la compagna dedita alla casa e la madre amorevole. E lei è abbastanza matura da ricoprire tutti questi ruoli, si erge al di sopra di tutto. La sua faccia è su schermi, cartelloni pubblicitari e riviste. È ovunque. È la Donna. Prendendosela con lei, Hickle non colpisce esclusivamente Kris ma l’archetipo del sesso opposto, il sesso che odia e teme. Non è un sostenitore della diversité

La voce di Abby, fredda e analitica, lo stava sezionando. No, vivisezionando, dato che l’operazione veniva svolta su un corpo ancora in vita. A volte veniva effettuato persino senza anestesia, senza nulla che potesse alleviare il dolore.

«Non ha il minimo interesse per Kris come essere umano, poiché, per lui, non è tale, è solo un simbolo. Hickle vive in un mondo fatto di simboli, immagini e fantasie. Rimane legato alla società solo grazie alla TV e alle riviste di gossip. A pensarci bene, non è poi così diverso da molti di noi di questi tempi, e potrei perfino sentirmi dispiaciuta per lui se non rappresentasse una minaccia per…»

Sentirmi dispiaciuta. Dispiaciuta.

Chi si credeva di essere per dire quelle cose, per giudicarlo?

Dovrebbe essere lei a vergognarsi di quello che è e di quello che ha fatto.

Era stata lei a inventarsi tutte quelle storie su una relazione andata a rotoli, era stata lei ad avvicinarlo nella lavanderia e a farlo parlare dei telegiornali. Era lei quella che si faceva largo nelle vite degli altri, sbirciando e frugando alla ricerca di segreti da svelare. Era una bugiarda, un’infiltrata, una spiona, una puttanella infida, e si meritava…. si meritava…

Il fucile.

Ecco quello che si meritava, sì, il fucile. Assolutamente.

Hickle si mise a sedere, ignorando la cassetta che continuava ad andare.

Era una stronza del cazzo. L’aveva ingannato, manipolato, usato come una pedina per aiutare i suoi nemici. L’aveva spiato e aveva riferito tutto a Kris. E l’aveva fatto così magistralmente che se non fosse stato per il suo amico JackBNimble non sarebbe mai venuto a saperlo.

Il suo informatore anonimo era l’unica persona di cui si potesse fidare, l’unica persona che era stata sincera dall’inizio alla fine. Ogni singola informazione fornitagli da Jack si era rilevata veritiera. Gli aveva dato buoni consigli. E gli aveva anche detto cosa doveva fare, vero? Vero?

Prima Abby, poi Kris.

Tutte e due… morte.

Adesso, senza indugiare oltre.

Si alzò dal letto e aprì il lucchetto dell’armadio. Prese il suo borsone e tirò la cerniera, poi estrasse il fucile. Si assicurò che fosse carico.

Bang. Addio Abby.

Bang. Addio Kris.

Tutto sarebbe finito nel migliore dei modi, quella notte. Avrebbe vinto e loro avrebbero perso.

Il nastro continuava a girare, mentre la voce di Abby sussurrava tra le pieghe del copriletto. Non c’era bisogno di ascoltare di più.

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Per isolare quel suono misterioso, Abby inserì un filtro sull’impianto audio per bloccare le frequenze superiori agli 8 kilohertz. In questo modo, il brusio venne parzialmente isolato, ma non era sufficiente. Iniziò quindi ad armeggiare con un equalizzatore grafico a dieci bande, abbassando i cursori su delle frequenze più alte e, allo stesso tempo, incrementando i toni di campo intermedio.

Cercò di ridurre il sibilo che disturbava il brusio. Era difficile. I due suoni erano su frequenze simili, ma dopo qualche piccola modifica, il brusio divenne più definito e Abby riuscì a distinguere una voce.

Era Hickle che borbottava tra sé?

Improbabile. Forse stava ascoltando la radio, ma non le sembrava di averne vista una in camera da letto.

Poi, a un tratto, udì dei suoni nuovi. Si bloccò e si inginocchiò sul pavimento vicino alla console, appiccicando l’orecchio agli altoparlanti.

Cigolio del letto, rumore di passi. Una porta che si apriva. Qualcosa che veniva trascinato rapidamente sul pavimento.

«Che intenzioni hai, Raymond?» Trasse un lungo respiro.

Ancora dei passi. Speranzosa, lanciò un’occhiata allo schermo, ma Hickle non era andato in salotto.

Poi Abby sentì qualcosa sbatacchiare, un tonfo che non era un rumore di passi, e… silenzio, eccetto il sibilo costante che disturbava il brusio che sembrava essere una voce.

La frequenza della voce umana viaggia principalmente tra gli 1,5 e i 2,5 kilohertz. Aumentò la portata, attenuando le frequenze più alte, e il rumore di sottofondo svanì. Abby riuscì a isolare il brusio, che ora era chiaramente udibile.

Era la sua voce.

«… tutto dipende dal fatto se ha i nervi o no per portare a termine quello che ha iniziato; finora si tratta solo della fantasia ben architettata di una vendetta violenta…»

Le riflessioni che lei aveva dettato al registratore.

Hickle doveva averglielo preso, rubato.

Stava ascoltando la registrazione.

Sapeva tutto.

La pistola di Abby era nella borsa, che però era in salotto. Balzò in piedi e si allontanò di scatto dall’armadio…

Troppo tardi.

Incorniciata nel telaio della finestra, c’era la sagoma di Hickle. In piedi sulle scale antincendio, il fucile in mano.

Con un movimento rapido puntò la canna verso di lei. Abby si accucciò dietro il letto, impedendogli di prenderla di mira, ma aveva guadagnato solo un paio di secondi. La finestra era aperta. Hickle non doveva fare altro che dare un colpo alla zanzariera ed entrare.

In una vaga zona del suo cervello le venne in mente l’ultima domanda sulla sua lista personale: la paura l’avrebbe distolto dalle sue intenzioni?

Ora conosceva la risposta. No.

Sdraiata prona sul pavimento, udì lo scricchiolio della rete e il tonfo della zanzariera quando si staccò dal telaio e cadde. Capì da dove provenivano i rumori indefiniti che aveva sentito prima nella stanza di Hickle: la zanzariera che veniva rimossa e cadeva per terra. Era salito sulle scale antincendio passando dalla finestra.

Ora stava scavalcando il suo davanzale. Sentì lo strofinio dei vestiti contro la parete.

Doveva andare in salotto e prendere la sua rivoltella. Ma se fosse emersa dal nascondiglio, lui l’avrebbe uccisa con un solo colpo.

Va bene, allora avrebbe strisciato sotto il letto. Avrebbe potuto avere il tempo di sbucare dall’altro lato prima che lui si rendesse conto che era scappata.

Bel piano, peccato che il letto era troppo basso, non c’era abbastanza spazio.

Era in trappola e lui stava arrivando. Abby sentiva i suoi passi vibrare sulle assi del pavimento.

Le rimaneva un’unica possibilità: combattere. Era stata addestrata a rispondere a un attacco da una posizione sfavorevole e quelle potevano senz’altro essere considerate circostanze sfavorevoli.

Mentre Hickle girava attorno al letto, Abby balzò in piedi, posizionando la testa sotto la canna del fucile, poi sollevò il braccio destro e con la nocca dell’indice mirò alla laringe dell’uomo.

Hickle schivò il colpo, ma lei riuscì comunque a colpirlo su un lato del collo, facendogli perdere l’equilibrio.

Lui alzò il fucile, Abby però gli sferrò un calcio sul braccio destro, vicino al gomito.

Le dita si aprirono e il fucile cadde.

Finiscilo, prima che riesca a riprenderlo.

Emise un grido di rabbia e fece per colpirlo sulla faccia con il palmo della mano, ma Hickle riuscì a scansarsi. Mancato. Ora era lei ad aver perso l’equilibrio.

La prese per i capelli e la lanciò sul letto, poi sparì per un attimo dal suo campo visivo, per riemergere con il fucile in mano.

Abby cercò di rialzarsi, dimenandosi, ma ormai era sopra di lei. La canna del fucile puntata contro la sua faccia.

«Ti sentiranno» disse ansimando. «Un solo colpo e chiunque nel palazzo ti sentirà.»

Quelle parole erano sbucate dal nulla. Non sapeva neppure se Hickle stesse ascoltando.

Una piccola flessione dell’indice e la sua vita sarebbe finita in quell’istante. Si preparò.

Ma lui non sparò.

Allontanò il fucile di qualche centimetro.

Lei attese.

«Ben detto, Abby» disse Hickle con un tono di voce talmente basso che lei riuscì a malapena a sentirlo sotto i battiti assordanti del suo cuore. «Sempre che questo sia il tuo nome. Ti chiami così?»

«Sì.»

«Bene. L’unica cosa su cui non hai mentito.»

«Dobbiamo parlare, Raymond.»

«Allora parla.»

Si passò la lingua sulle labbra. Sentì l’odore del lubrificante sulla bocca del fucile. Sentì un formicolio al naso, come se dovesse starnutire. «Potresti abbassare quel coso? Credo di essere allergica.»

Lui si allontanò di un passo dal letto, spostando la presa sul fucile dal calcio alla canna.

«D’accordo» disse. «Sembra che tu mi abbia scoperto.»

«Così pare.»

«Sei in gamba, Raymond. Ti avevo sottovalutato.»

«Sì.»

«Ora che so quanto sei intelligente, le cose cambieranno. Posso essere sincera con te.»

«Continua, dimmi cosa sta succedendo.»

«Certo. Ti dirò tutto.» Stava recuperando il controllo della situazione. Se l’era vista male pochi minuti prima, ma adesso aveva delle opzioni davanti a sé, delle possibilità.

Si mise a sedere, selezionando con cura le parole da dire, ma col fucile Hickle le sferrò un colpo violento sulla nuca.