Capitolo 34
Febbraio 1934
Ora che la stagione delle piogge era finita, le giornate erano più luminose. Laurence era stato parecchio in viaggio negli ultimi due mesi, ma ogni volta che Gwen lo vedeva continuava ad avere la sensazione che soffrisse per qualche motivo. McGregor continuava a essere il responsabile di tutto, ma Gwen aveva molto poco a che fare con lui. Laurence le aveva detto che molte piantagioni erano state abbandonate a causa del crollo del prezzo del tè, e che il problema principale non erano i tumulti, ma la diffusione della zanzara anofele che stava facendo crescere il timore di un’epidemia di malaria.
Fran e Savi per il momento erano a Colombo, ma stavano decidendo dove risiedere stabilmente, mentre Verity, felice di aver riavuto la sua rendita, sarebbe rimasta da amici a Kandy finché il contratto di affitto della casa in Inghilterra non fosse scaduto. Gwen aveva posto come condizione per il ripristino della rendita che la ragazza risiedesse nello Yorkshire. Questo non le assicurava che non si sarebbe fatta avanti con altre richieste, ma almeno Gwen avrebbe avuto un attimo di respiro. Fran aveva parlato con Savi mentre Laurence non c’era e Gwen accettò di incontrare entrambi a Nuwara Eliya. Savi chiese di parlarle in privato, perciò avevano deciso di fare una passeggiata lungo il lago della città. Gwen non aveva molta voglia di incontrarlo, ma sapeva di doverlo fare.
Lui le venne incontro e le porse una mano.
Gwen abbassò lo sguardo e non gliela strinse.
«Come vanno le cose a Colombo?», riuscì a chiedergli, sempre senza guardarlo. «Abbiamo visto l’inizio dei tumulti».
Seguì un istante di silenzio e lei lo sentì sospirare. Quando alzò lo sguardo notò delle rughe di tensione intorno ai suoi occhi.
«Mi dispiace», disse.
Savi dilatò le narici e Gwen percepì la sua rabbia tenuta a malapena a freno. «Quando Fran me l’ha detto sono rimasto sbalordito. Pensavo fossimo amici, Gwen».
Lei sentì le lacrime bruciare dietro le palpebre.
«Come hai potuto pensare che ti avessi fatto del male?»
«Non sapevo cosa pensare».
«Ma hai pensato che l’avessi fatto».
Lei chinò il capo.
«Per l’amor del cielo, Gwen!».
Quando lei alzò lo sguardo, vide la sofferenza nei suoi occhi. «Non volevo. Il pensiero mi faceva star male ma non sapevo come altro spiegarmi il fatto di aver partorito un bambino di colore. Mi dispiace tanto».
Lui fece scrocchiare le nocche, ma non disse nulla.
Gwen provò un impeto di rabbia. «Sto cominciando a volerle bene. Lo sai? Ma tutto quello che ho fatto per lei è stato voltarle le spalle. Riesci a immaginare come ci si sente? Riesci almeno a capire?»
«Però se fosse stata bianca, anche se avessi davvero fatto quella cosa terribile, non ci avresti pensato due volte».
«Non è giusto. Se fosse stata bianca non avrei mai dubitato che fosse figlia di Laurence».
«A lui non sono mai piaciuto. Non so perché».
«Laurence è un uomo ragionevole».
«Non quando si tratta di me».
Gwen gli porse la mano. Lui non la prese e si avvicinò alla riva. Gwen deglutì e osservò gli uccelli che si radunavano poco lontano. Poi Savi si voltò di colpo e gli uccelli spiccarono il volo sull’acqua.
«Devi aver passato l’inferno in tutti questi anni. Perché non me ne hai mai parlato?»
«All’epoca ero molto giovane e molto spaventata. Non sapevo cosa fare. Ero arrivata da poco e non ti conoscevo».
Una vena sul collo di Savi cominciò a pulsare.
«Pensavo che fossi un uomo affascinante». Gwen si sentì avvampare in volto e girò la testa per nasconderlo. «In quel periodo Laurence era distante. E io mi sentivo sola. Poi, dopo la nascita di Liyoni ti ho odiato».
Quando lui parlò di nuovo, nella sua voce si percepiva una profonda tristezza. «Se mai ti ho dato motivo di farlo, mi dispiace».
Gwen tornò a guardarlo. La sua sincerità era assolutamente indiscutibile, ma lei non sapeva come gestire i suoi sentimenti contrastanti. Era così felice di sapere che non fosse Savi il padre di Liyoni, ma allo stesso tempo si sentiva in colpa per aver pensato male di lui.
Savi aveva gli occhi lucidi, ma quando parlò di nuovo lo fece sorridendo. «Possiamo metterci una pietra sopra? Ho sposato tua cugina, sono praticamente tuo cognato. Possiamo tornare a essere amici?»
«Mi piace l’idea».
Savi spalancò le braccia e lei vi si gettò, tremando di sollievo mentre piangeva. Quando si separarono, si asciugò gli occhi. Lui le prese una mano e la baciò con dolcezza.
«Se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti, dimmelo. Cercare tra le memorie conservate negli archivi di Colombo. Vedere se c’è qualcosa che possa darci un indizio sulle origini di Liyoni. O meglio, di tuo marito».
Lei sorrise. «Grazie. Grazie mille. Non sai quanto conta questo per me. Mi dispiace così tanto».
«Le poche volte in cui ci siamo incontrati di nuovo mi ero fatto qualche domanda, per esempio quando venni a casa tua insieme a Verity».
«Verity ti aveva fatto venire solo per farmi crollare».
«Credo che dovresti parlare con l’ayah. Spesso i domestici così anziani conoscono più segreti di famiglia degli stessi membri».
«Capisco. Be’, le ricerche potrebbero richiedere tempo. Cose del genere spesso vengono tenute ben nascoste, ma sono in buoni rapporti con lei e se c’è qualcosa da scoprire, e sono sicura che ci sia, la scoprirò. Ti farò sapere non appena avrò in mano qualcosa di concreto».
«Grazie».
«E adesso che facciamo? Andiamo a pranzo? Fran ci sta aspettando».
«Grazie, ma credo che me ne starò seduta qui per un po’. Ho molte cose a cui pensare».
Lui giunse le mani e se le portò al petto, con la punta delle dita rivolta verso l’alto, e fece un piccolo inchino, proprio come aveva fatto il giorno del loro primo incontro.
Quando se ne andò, Gwen si sentì prima di tutto sollevata. Che caso fortunato! Se Fran non avesse conosciuto Savi e non l’avesse sposato, lei non avrebbe mai scoperto di non essere stata infedele. Adesso che ne era sicura però, doveva ancora trovare un modo per affrontare il discorso con Laurence. Lui doveva sapere che Liyoni era sua figlia e l’unico dubbio era se dirglielo subito o aspettare che Savi tirasse fuori qualche prova che nella sua famiglia scorreva sangue singalese.
Rimuginò sulla questione e decise che sarebbe stato meglio aspettare. Si strinse le braccia intorno al corpo mentre il vento cominciava a soffiare. Ancora non riusciva a credere che quel giorno fosse arrivato. Ma nonostante la gioia di non dover più serbare tutto quell’odio per Savi, restava il fatto che aveva dato via la figlia. Gwen si sedette su una panchina e osservò il vento curvare i tronchi degli alberi sul lato opposto del lago di Nuwara Eliya. Non si era mai sentita così sola.
Quando sia Gwen che Laurence tornarono a casa, ricevettero la notizia che dopo il lancio pubblicitario di dicembre, e nonostante il prezzo del tè fosse ancora basso, le previsioni di vendita erano piuttosto buone. Anche Christina gli aveva scritto un telegramma dall’America la sera prima, incoraggiandoli a essere ottimisti perché le cose non potevano fare altro che migliorare. Per la prima volta Gwen non sussultò nel sentire il nome di Christina.
Anche Hugh era tornato per il weekend. Si era abituato al fatto che Liyoni non potesse più giocare fuori con lui, o nuotare nel lago, e passava ore al suo fianco a leggerle qualcosa o a insegnarle a fare i cruciverba.
Gwen trovò entrambi abbracciati in un angolo della nursery. Ridacchiavano e sembravano così felici di stare insieme che il suo cuore perse un battito. Avevano entrambi otto anni, ma erano diversissimi. Hugh era alto e robusto come Laurence, mentre Liyoni era delicata e graziosa. Ogni messe che passava sembrava assomigliare sempre più a Gwen. Aveva fatto progressi in inglese e aveva acquisito persino un po’ di accento. Adesso che Verity se ne era andata, Gwen poteva passare un po’ più di tempo con i suoi bambini.
Sorrise e si decise a parlare. «Che state facendo?»
«Disegniamo, mamma».
«Posso vedere?».
Hugh le porse due fogli di carta e lei si accovacciò per guardarli. Hugh aveva disegnato un bell’aeroplano, un modello usato durante la Grande Guerra.
«È un aeroplano tedesco», disse.
«Molto carino».
Quando guardò l’altro disegno vide che Liyoni aveva rappresentato di nuovo una cascata.
«Lei disegna solo cascate, mamma».
«Sì, lo so».
«Non possiamo portarla a vederle? Solo una volta», disse Hugh con voce lamentosa.
«Non sono venuta per parlare di cascate, tesoro. Sono venuta per dirti che è ora di lavarti le mani. Il pranzo è pronto».
«Liyoni può mangiare con noi?»
«Lo sai che Liyoni mangia insieme a Naveena».
«Non mi sembra carino».
«Ah, no, eh? Be’, magari puoi discuterne con tuo padre a pranzo».
Il bambino le sorrise. «Okay, mamma, hai vinto tu».
Gwen non si era mai abituata a dormire in camera di Laurence, perciò quando tornava, la maggior parte delle volte era lui a dormire con lei in camera sua. Durante l’ultima notte che aveva trascorso in casa, si era commossa per quanto era stato dolce e amorevole. Dopo aver fatto l’amore, l’aveva baciata sulla bocca e le aveva accarezzato una guancia con le lacrime agli occhi.
«Sai che puoi dirmi qualsiasi cosa, vero, Gwen?»
«Certo. E tu a me».
Laurence aveva chiuso gli occhi, ma le labbra gli tremavano leggermente.
Avevano deciso di lasciar consumare la candela, perciò Gwen rimase a fissare la luce tremolante sul soffitto, pensando a quello che lui le aveva detto. Dopotutto forse invece la cosa migliore era dirgli subito di Liyoni, anche se Savi non aveva ancora trovato nulla. Cominciò dicendo qualcosa a proposito di Hugh. Laurence mormorò una risposta, ma poco dopo si addormentò. Gwen rimase ad ascoltare il suo respiro e si rannicchiò su se stessa.
Furono svegliati da un singhiozzo soffocato proveniente dalla nursery. Gwen si precipitò ad accendere la lampada sul comodino, poi scostò di lato le coperte e appoggiò i piedi sulla moquette. Guardò l’orologio. Le tre del mattino. Si infilò la vestaglia e dei calzini pesanti, contenta che Hugh fosse a scuola.
Poi sfiorò il volto di Laurence. «Vado io. Tu hai un lungo viaggio che ti aspetta domani».
Lui brontolò qualcosa e si voltò.
Nella nursery trovò Naveena china sul letto di Liyoni. «Dice che le fanno male le gambe, signora».
Gwen si chinò su sua figlia.
«Prendi una sedia, Naveena. La prendo in braccio. So che il dottore ti ha detto di massaggiarle le gambe quando le fanno male, ma stanotte lo farò io».
Naveena le avvicinò una sedia e mentre Gwen si accomodava con la piccola andò alla credenza e tirò fuori una bottiglia di olio profumato. Infine ne versò un po’ nel palmo di Gwen.
«Massaggi piano, signora. Come farfalla».
«Lo farò, non preoccuparti». Gwen aveva visto Naveena farlo e sapeva esattamente quanta pressione applicare.
Liyoni continuava a lamentarsi e a tossire, e Gwen prese a cantare dolcemente mentre massaggiava. Piano piano Liyoni chiuse gli occhi e si addormentò, Gwen non voleva svegliarla, perciò rimase dov’era per il resto della nottata, realizzando quanto fosse indolenzita solo quando Laurence entrò alle prime luci dell’alba.
«Ti ho portato del tè», disse posando tazza e piattino sul comodino. «Devi essere esausta».
«Ho solo un po’ di freddo».
«Fammi mettere a letto la bambina. Posso?». Laurence la guardò con una tale preoccupazione negli occhi che Gwen fu capace solo di annuire.
Quando Liyoni fu di nuovo tra le lenzuola, Laurence chiese a Naveena di portare una coperta per Gwen.
Quando lei si alzò, sentì tuti i muscoli del corpo che le dolevano. Si stiracchiò e si portò un dito alle labbra. «Lasciamola dormire».
«Se vuoi chiamo il dottore».
«Va bene così. Non c’è molto che possa fare. Mi ha dato degli antidolorifici. Ha detto di usarli con parsimonia finché…». Mandò giù il groppo che aveva in gola. «Era una fantastica nuotatrice».
Laurence le mise un braccio intono alle spalle e la guidò fino in camera. «Credo che chiamerò lo stesso il dottore, se non ti dispiace. Ma temo di dover andare tra poco, se non voglio perdere il treno. Prima però devo mostrarti una cosa».
«Tesoro, non può aspettare? Sono così stanca che vorrei tentare di dormire almeno per un paio d’ore».
Quando il dottore arrivò, suggerì di aumentare la dose di antidolorifici. «Non di colpo», disse, «ma se credete che siano necessari non trattenetevi».
«Non c’è speranza che migliori, vero?».
Lui scosse la testa.
«Quanto le resta?», chiese Gwen sostenendo il suo sguardo.
«È impossibile dirlo. Potrebbe ancora resistere per un po’… d’altra parte…». Partridge fece un gesto vago con la mano. «Riesce ancora a stare in piedi?»
«Sì».
Realizzare che non c’era molto tempo a disposizione fugò finalmente tutte le indecisioni di Gwen. Avrebbe parlato a Laurence non appena fosse tornato. Ma prima c’era una cosa che doveva fare per Liyoni.
Quando il dottore se ne andò la portò nella sua stanza da letto, la fece sedere su una poltrona accanto alla finestra e andò a prendere dei vestiti puliti dalla nursery. Liyoni batté le mani quando vide l’abito che Gwen riportò in camera. Era uno di quelli appartenuti a Gwen, che Naveena aveva riadattato per la bambina: un abito broderieanglais rosso squillante, quasi scarlatto. C’erano anche uno scialle rosso e calze dello stesso colore da indossare sotto gli stivali. Hugh le diceva sempre che vestita in quel modo sembrava Cappuccetto Rosso.
Quando Liyoni fu vestita, Gwen uscì a controllare che McGregor avesse già riportato la Daimler dopo aver lasciato Laurence alla stazione. Sorrise quando vide la macchina parcheggiata fuori con le chiavi ancora inserite. Se le mise in tasca. Non aveva la minima intenzione di dire che avrebbe preso la macchina.
Quando tornò in camera, trovò Naveena insieme a Liyoni.
«Sto facendo la cosa giusta?», chiese all’ayah.
Naveena annuì lentamente. «Fare vedere l’acqua».
Quando partirono Gwen sperò di ritrovare la svolta che Verity le aveva indicato tempo prima, durante le loro lezioni di guida.
Gwen aveva agito d’istinto, ma non ripiangeva di aver portato fuori Liyoni. La piccola l’aveva chiesto tante volte e, se fosse stata attenta, sarebbe andato tutto bene. Mentre guidava, pensò al periodo che Liyoni aveva trascorso alla piantagione, al modo in cui gridava: «Sto volando» quando si tuffava in acqua e al modo in cui piroettava in preda alla gioia quando qualcosa le piaceva. Immersa nei propri pensieri, Gwen oltrepassò la svolta e proseguì per qualche miglio prima di accorgersi dell’errore. Quando capì di essere andata troppo oltre scese a dare un’occhiata. Il cielo azzurro pallido era punteggiato di nuvole, c’era una brezza leggera e il ronzio degli insetti riempiva l’aria. Rimase immobile per un istante e inspirò a fondo l’odore di menta ed eucalipto. Non c’era abbastanza spazio per fare inversione, perciò proseguì finché la strada non si allargò.
Riuscì a cambiare direzione, ma tornando indietro per poco non mancò di nuovo la svolta. Si fermò appena in tempo. La vegetazione era fitta e pochi minuti dopo, sentendo la macchina sobbalzare su buche e sassi, dovette rallentare per non sballottare troppo la bambina. Abbassò il finestrino.
«Sporgiti un po’ fuori, Liyoni», disse. «Senti il profumo dei fiori».
La bambina mise la testa fuori dal finestrino e guardandola con la coda dell’occhio, Gwen vide i suoi capelli scuri danzare nella brezza. Continuò a guidare, concentrandosi sulla strada, e quando sentì il suono dell’acqua che scrosciava, seppe che erano quasi arrivate.
«Lo senti?», le chiese a voce alta, voltandosi di nuovo a guardare la figlia.
Dopo aver parcheggiato scese dall’auto e andò ad aprire la portiera del passeggero.
«Non possiamo andare oltre con la macchina».
Gwen si appoggiò alla fiancata mentre Liyoni sedeva sul bordo del sedile e si godeva il rumore della cascata. Dopo un po’ la bimba toccò la mano di Gwen, distogliendola dai suoi pensieri. Lei si chinò per sentire cosa volesse dirle.
«Non riesco a vedere. Usciamo?».
Gwen aggrottò la fronte. Il dottore aveva detto che anche se la bambina riusciva a camminare o a stare in piedi per una decina di minuti, sforzare le gambe poteva causarle dolore.
«No», disse. «È pericoloso».
«Per favore. Un poco vicino. Per favore». Liyoni alzò lo sguardo con gli occhi supplicanti.
«Non è una buona idea. Guardiamo da qui».
«Io attenta».
Quando vide il desiderio negli occhi della bambina, Gwen cedette. Se la malattia progrediva come si aspettava il dottore, quella poteva essere l’unica occasione per lei di vedere la cascata.
«Va bene. Ma devi tenerti a me per tutto il tempo. Ti porto dove potrai vedere un po’ meglio».
La forza dell’acqua aveva consumato la roccia fino a formare un’insenatura a forma di ferro di cavallo, perciò Gwen portò la bambina fino al punto in cui cominciava la curva. Rimasero lontane della riva per sicurezza, ma erano abbastanza vicine per vedere bene l’acqua che alimentava la cascata sulla sponda opposta.
«Non ti muovere. Tieniti a me. Guarda», disse indicando un punto diversi metri più avanti, sulla destra. «Guarda lì dove il terreno si fa più friabile».
«Io attenta».
Gwen alzò lo sguardo.
Le nuvole si erano addensate e il sole era scomparso. Adesso l’aria sapeva di erba e terriccio umido, insieme a un altro odore indefinibile che proveniva direttamente dall’acqua. “Minerali”, pensò Gwen, o qualcos’altro che l’acqua poteva aver trascinato fin lì. Udì un rumore alle loro spalle e si voltò a guardare, ma erano solo un paio di scimmie che saltavano da un albero all’altro.
«Ti piace l’acqua, vero?», disse Gwen ad alta voce, rafforzando la presa intorno alla vita della bambina.
Quando Liyoni alzò lo sguardo, il suo viso era arrossito di piacere ed eccitazione.
Passò qualche minuto e Gwen scrutò gli spuntoni di roccia sul lato opposto, dove l’acqua piombava giù per poi precipitare nella laguna sottostante, che loro non potevano vedere. Gwen riusciva solo a immaginare la schiuma bianca.
Liyoni gettò indietro il capo e ridacchiò, poi alzò le braccia. Una folata di vento le strappò via lo scialle. Gwen si chinò per raccoglierlo, allentando la presa intorno alla vita di Liyoni solo per un secondo, e quando si tirò su, un raggio di sole spuntato fuori da una nuvola l’abbagliò. Mentre un’altra improvvisa folata di vento le soffiava della polvere in faccia, Gwen divenne vagamente consapevole del suono di un motore che si fermava a poca distanza. Con gli occhi che le lacrimavano, tentò di riprendere saldamente la presa su Liyoni, ma la bambina si era spostata.
Nei pochi istanti che le occorsero per ricominciare a vedere chiaramente, l’acqua trasparente si era trasformata in un torrente di cristallo liquido. Il sole illuminò il viso di Liyoni mentre si voltava, poi ci fu un’ennesima folata di vento e la bambina barcollò. Con le spalle rivolte verso la cascata, la piccola parve confusa e fece un passo indietro invece che in avanti. Inciampò mentre Gwen le tendeva una mano, e il vestito rosso sventolò alle sue spalle, mosso dal vento che la spingeva all’indietro.
In quella frazione di secondo, Gwen percepì tutta la forza dell’amore che provava per sua figlia. Un amore assoluto, capace di fermarle il cuore. Non stava più “cominciando” ad amare sua figlia. Non aveva mai “cominciato”. Quell’amore era sempre stato lì.
Liyoni crollò in avanti in ginocchio.
«Sta’ giù», disse Gwen, avvicinandosi per riprendere la bambina, anche lei a quattro zampe.
Poi all’improvviso comparve Laurence. Prese Liyoni in braccio e la riportò con tenerezza alla macchina. Gwen, ancora china sulle ginocchia, abbassò gli occhi e guardò giù, in preda allo shock. Si era avvicinata troppo. Il vento si placò, lei si alzò e corse verso Laurence.
«Dammela», gridò abbracciando la bambina tremante, provando un dolore fisico, come se le avessero dato un pugno. Nessuno le aveva mai detto che essere madre significava convivere con un amore così sconfinato da lasciare senza fiato, e con una paura così terribile da scuotere l’anima. Solo in quel momento capiva quanto quei due sentimenti fossero simili. Un orribile pensiero si insinuò strisciando in un angolo della mente di Gwen. Se solo avesse avuto il coraggio di fare un passo oltre l’orlo, sarebbe tutto finito. Gli anni di sensi di colpa. La paura. Il disprezzo di se stessa. Poi quel pensiero sparì.
Ma Laurence doveva aver visto qualcosa sul suo volto.
«No, Gwen. Hai anche un altro figlio a cui pensare».
Si stava ancora riprendendo dallo shock di ciò che era accaduto e registrò la sua voce con una sorta di distacco.
«Cosa hai detto?»
«Ho detto che hai anche un altro figlio a cui pensare».
Lei lo fissò. Calò il silenzio. Per un singolo istante tutto ciò che Gwen percepì fu il vento che le sfiorava la pelle. Si guardò intorno, le pareva di riuscire a vedere ogni singolo dettaglio di ciò che accadeva vicino a lei. L’erba sembrava diversa, come se il vento la facesse oscillare più lentamente del solito. E poi gli insetti, tutti quegli insetti che a malapena si muovevano, e gli uccelli che volavano a rallentatore di albero in albero. Udì un rumore in lontananza. Un richiamo. Che cos’era? Una capra? Una campana? Per un attimo la sua mente fu innaturalmente serena, come se il mondo avesse deciso di salvarla dal dolore che provava per ciò che aveva fatto. Ma il dolore c’era ancora. E alla fine riemerse, insieme allo scrosciare della cascata.
Gwen fissò Laurence. «Lo sai?».
Lui annuì.
«Da quanto?»
«Non da molto».
«Pensavo che fossi andato a Colombo».
Laurence scosse la testa con aria severa e preoccupata. «Non potevo andarmene senza parlarti. Siamo tornati indietro. Ci sono delle coperte nel bagagliaio. Vi riporto a casa adesso. Nick e io possiamo tornare a riprendere la macchina più tardi».
Gwen si voltò a guardare il punto in cui lei e Liyoni erano state poco prima, e rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere. Mentre Laurence tirava fuori le coperte, strinse a sé Liyoni e le accarezzò le guance, sussurrandole tutto ciò che non aveva mai osato dirle. Le disse che le dispiaceva e le chiese di perdonarla, ancora e ancora. Anche se la piccola non capiva tutte le parole, guardò Gwen negli occhi e sorrise.
Quando Laurence tornò, Gwen alzò gli occhi su di lui. «Sono stata troppo avventata. Non avrei dovuto portarla qui, ma desiderava così tanto vedere la cascata».
«È solo lo shock. Starà bene. Ti sei tenuta abbastanza lontana dall’orlo. Il vento forse ti ha fatto sembrare le cose peggiori di quel che erano, ma non siete mai state davvero in pericolo. Vieni, salite in macchina».
Prese Liyoni e la tenne stretta a sé. Poi l’adagiò sul sedile posteriore dell’auto e le accarezzò con dolcezza i capelli.
«Adesso va tutto bene, piccola», disse.
Il verso di un uccello risuonò nell’aria e Gwen si accorse di stringere ancora qualcosa nella mano. Sollevò in aria lo scialle di Liyoni e lo lasciò andare. Lo vide fluttuare, roteare su se stesso e infine precipitare giù.