Capitolo 20
Il tempo passava, e nonostante momenti di intensa angoscia in cui si trovava ancora a fronteggiare il panico, Gwen si sentiva sempre più forte, giorno dopo giorno. Hugh vagava per la tenuta sul suo triciclo nuovo e Laurence era tornato a essere se stesso. Gwen trascorreva molto tempo a leggere i suoi libri preferiti seduta su una panchina vicino al lago, ascoltando gli uccelli e il dolce gorgoglio dell’acqua, e lasciando che fosse la natura a guarirla. Gradualmente ricominciò a sentirsi se stessa, mentre tutte le preoccupazioni per il disegno e il senso di colpa per non aver rispettato il patto con Dio cominciavano a svanire.
Realizzò definitivamente di stare meglio il giorno in cui per la prima volta dopo mesi mangiò una colazione completa: salsicce leggermente bruciacchiate, come piacevano a lei, un uovo fritto, due fette di pancetta e una fetta di pane abbrustolito. Il tutto accompagnato da due tazze di tè.
I mesi le erano scivolati tra le dita e lei non avrebbe saputo dire come. Quando arrivò ottobre, finalmente poté dire di sentirsi di nuovo felice. , Guardò fuori dalla finestra, in direzione del lago, dove un vento fresco sferzava la superficie dell’acqua. Magari poteva fare una passeggiata con Hugh. Chiamò Spew e Bobbins e trovò Hugh in groppa al suo cavallo a dondolo, che incitava a correre al galoppo.
«Tesoro, vuoi fare una passeggiata con la mamma?»
«Può venire anche Wilf?»
«Certo che può. Ma mettiti gli stivali di gomma. Sarà tutto bagnato».
«Ma non piove più».
Gwen si accigliò e scrutò il cielo. Negli ultimi mesi aveva a malapena percepito i mutamenti del clima. «Forse la tua sciocca mamma non se ne è accorta».
Hugh rise. «La sciocca vecchia mamma. Anche Verity lo dice sempre. Vado a prendere il mio aquilone».
Gwen ripensò a sua cognata. Gli ultimi due mesi erano filati lisci. Verity pareva aver preso sul serio il commento di Laurence ed era sparita per un po’. Ma era tornata.
Né Verity né McGregor avevano più fatto accenni al disegno, e dal momento che McGregor aveva vietato l’uso del calesse per portare messaggi, Naveena aveva pagato il dhobi perché li consegnasse ogni volta che poteva. Tuttavia adesso l’arrivo dei disegni non le permettevano di capire che c’era qualcosa che non andasse, perché questi arrivavano a intervalli irregolari e non più a ogni luna piena. Inoltre non c’era alcuna garanzia che il dhobi tenesse la bocca chiusa. Ma era un uomo avido, perciò Gwen sperava che il denaro fosse un deterrente sufficiente.
Quando Gwen e Hugh arrivarono al lago, constatarono che il sentiero era ancora fangoso. Gwen non si era legata i capelli e si godeva la sensazione del vento che li faceva svolazzare mentre costeggiavano la riva, con i cani che correvano avanti a precederli. Sulla sponda opposta del lago un cumulo di nuvole violacee scuriva l’acqua. Hugh era ancora nell’età in cui trovava ogni piccolo dettaglio di enorme interesse. Con un’espressione determinata, che non ammetteva commenti, raccoglieva ed esaminava ogni sassolino o foglia su cui gli capitava di posare lo sguardo, riempiendo le proprie tasche, e quelle della madre, con tesori di ogni sorta, e dimenticandosene nel giro di pochi minuti.
Grata per quel ritorno alla vita dopo un’assenza così lunga, Gwen osservava il figlio e il cuore quasi le scoppiava di amore di fronte al suo sorriso, alle sue gambette legnose, ai capelli scompigliati e ai suoi risolini contagiosi. Il canto degli uccelli e il ronzio degli insetti riempivano l’aria. Quando Gwen rivolse il viso verso il sole e ne percepì il calore si sentì felice, anche se c’era ancora una cosa che la tormentava.
Camminarono un altro po’ e Hugh prese a piagnucolare quando l’aquilone si ingarbugliò e non fu più in grado di volare.
«Che gli succede, mamma? Puoi aggiustarlo?»
«Probabilmente papà lo sa fare, tesoro».
«Ma io voglio farlo volare adesso». Livido di rabbia per le sue aspettative deluse, Hugh gettò l’aquilone per terra.
Gwen lo raccolse. «Forza, dammi la mano e cantiamo una canzoncina mentre torniamo a casa».
Il bambino sorrise. «Può scegliere Wilf quale?».
Lei annuì. «Se sei sicuro che conosca qualche canzone».
Hugh prese a saltellare per l’eccitazione. «Sì, sì, sì, le conosce».
«Allora? Non sento niente».
«Ma sta già cantando, mamma. Sta cantando La pecora nel bosco».
Gwen rise e quando si voltò vide Laurence scendere le scale. «Oh, non mi ero resa conto. Che sciocca vecchia mamma».
«Eccovi», esclamò Laurence. «Adesso è meglio rientrare».
«Abbiamo fatto una passeggiata in riva al lago».
«Hai un aspetto splendido. E hai di nuovo le guance rosa».
«Anche io ho le guance rosa, papà?».
Laurence scoppiò a ridere.
«Mi sento meglio in effetti», disse Gwen. «E tutti e due abbiamo le guance rosa».
A Gwen era rimasta un’ultima cosa da fare per dare definitivamente pace alla sua mente, perciò il giorno dopo si preparò e disse a Naveena che aveva intenzione di fare una lunga passeggiata. Qualcosa in un angolo del suo cervello le diceva che l’anziana ayah avrebbe obiettato se avesse saputo dove stava andando.
Naveena guardò il cielo. «Tra poco pioverà, signora».
«Prenderò un ombrello».
Mentre indossava l’impermeabile, Gwen si sentì ancora più sicura di fare la cosa giusta.
Una volta uscita si incamminò lungo la strada. Mentre camminava inspirava a fondo e faceva dondolare le braccia, e in quel modo le pareva di riuscire a pensare più chiaramente. Quando la superficie argentea del lago non fu più visibile, imboccò un tratto di strada costeggiato da felci che, curve sotto il peso dell’acqua, quasi sfioravano il terreno. Non era lontana dalla svolta, percepiva l’odore dei fuochi accesi dai braccianti per cucinare e sentiva i cani abbaiare in lontananza. Nell’aria aleggiava una sensazione di calma sospesa, la quiete prima della tempesta, pensò osservando le nubi nere attraversate da qualche sporadico raggio di sole.
Aveva sempre pensato di essere una brava persona, una persona in grado di distinguere ciò che era giusto da ciò che era sbagliato. Ma dopo la nascita dei gemelli le sue convinzioni avevano subito un duro scossone, e anche se una delle sue poche certezze era che il suo amore per Hugh e per Laurence fosse giusto, che dire di Liyoni? Ora che il disegno tanto atteso era arrivato, Gwen era sicura che la bambina fosse in salute, ma era anche amata?
Tornò con i ricordi al giorno della nascita di Liyoni e mentre quelle immagini le popolavano la mente, si sentì sempre più certa che andare al villaggio fosse la cosa giusta da fare. Detestava il pensiero che Liyoni, separata dalla sua vera madre, crescesse con un irrisolto senso di abbandono. Tremando al pensiero di rivedere la figlia, immaginò di portarla a casa con sé. Quando la pioggia cominciò a scrosciare, aumentando sempre più di intensità, il cuore di Gwen prese a battere all’impazzata. A Laurence forse non sarebbe importato del colore della pelle di Liyoni come al resto dei coloni europei, ma di sicuro sarebbe stato profondamente ferito dalla sua infedeltà.
Gwen tentò di individuare la svolta lungo la strada, ma la pioggia che cadeva dai rami degli alberi e le colava sugli occhi le rendeva molto difficile vedere davanti a sé. Alla fine vide una pista che si apriva alla sua sinistra, segnalata da una grossa roccia coperta di muschio, e si fermò lì a riprendere fiato prima di proseguire. Grazie all’ombrello riuscì ad aprirsi una via tra i rami pendenti, ma dopo una ventina di metri il groviglio di alberi si fece troppo fitto. L’ombrello si incastrò, Gwen lo strattonò e si ritrovò con i capelli impigliati ai rami. Si divincolò ansimando, me non fece altro che peggiorare la situazione e si lasciò prendere dal panico, finché, ormai quasi in lacrime, non riuscì a liberarsi. La pista adesso sembrava svanita e l’ombrello era rovinato.
Gwen si tolse foglie e rametti dai capelli e nonostante la pioggia continuasse ad aumentare, non si voltò per tornare a casa, ma tornò sulla strada e si sforzò di vedere oltre la densa cappa di nebbia che era calata. Sagome scure apparvero e scomparvero ai lati della strada e Gwen, improvvisamente in preda al panico, alzò una mano per proteggersi. Si udì il verso di un uccello, poi un forte schianto e il rumore di diversi rami che si spezzavano.
Gwen si scostò i capelli bagnati dal collo e tentò di scrollare via un po’ di acqua. Non aveva intenzione di fermarsi ora. Voleva rivedere sua figlia, vedere a chi assomigliava, guardarla negli occhi mentre sorrideva. Voleva prenderle la mano, baciare di nuovo la sua guancia e farla volteggiare in aria come faceva con Hugh. Per qualche istante permise a se stessa di provare le emozioni che si era allenata a reprimere. Aveva sempre saputo che se si fosse permessa di provare sentimenti di amore verso sua figlia non sarebbe più stata in grado di tollerarne l’assenza. Adesso che aveva ceduto a quel desiderio, lasciò entrare nella sua anima un po’ del bisogno di lei e altra sofferenza si aggiunse al dolore che già provava.
Gwen raddrizzò la schiena e si asciugò gli occhi, fece un profondo respiro e si guardò intorno. Non sarebbe mai riuscita a trovare il villaggio. Stordita da quella consapevolezza, si sedette su una roccia sotto la pioggia battente, stringendosi le braccia intorno al corpo e immaginando di abbracciare Liyoni.
Rimase lì finché non fu completamente zuppa, poi ricacciò indietro un singhiozzo e lasciò andare la piccola. Con un macigno nel petto e la sensazione di non riuscire a respirare, si alzò in piedi. Per diversi minuti non si mosse e rimase a guardare le grosse gocce di pioggia che rimbalzavano sul sentiero. Poi si avviò lungo la salita che conduceva verso casa, abbandonando sua figlia ancora una volta.
Laurence non la vide arrivare a casa fradicia e con gli occhi gonfi di pianto. Nonostante fosse sfinita, aveva acceso delle candele e si era fatta un bagno. Durante le tempeste il loro generatore non sempre garantiva energia elettrica, ma l’acqua calda c’era ancora e Gwen si era immersa nella vasca profumata sperando che stanchezza e sofferenza si dissolvessero. Poi aveva bevuto un paio di infusi contro il mal di testa e si era spruzzata dell’acqua fredda sul viso.
Dopo cena, lei e Laurence si erano seduti a leggere alla luce delle lampade a olio. Gwen percepiva il loro odore leggermente affumicato e sperava che la dolce quiete di quella serata lenisse la pena che provava nel cuore.
«Perché te ne sei andata a passeggiare sotto la pioggia?», le chiese Laurence versando del brandy per entrambi.
Lei tremò, improvvisamente colta da un brivido di freddo. «Avevo bisogno di un po’ di aria fresca. Avevo un ombrello».
Lui prese una coperta dal divano, gliela avvolse intorno e le massaggiò la base del collo. «Sei appena guarita. Non voglio che ti ammali di nuovo, tesoro. Abbiamo troppo bisogno di te».
«Starò bene».
La verità era che il bagno le aveva lasciato addosso una sensazione di spossatezza, anche se in effetti si trattava più di un problema emotivo che fisico in senso stretto. Tuttavia doveva continuare a sembrare se stessa, perciò riprese a leggere e poi si mise a scrivere una lettera alla madre. Era rimasta molto delusa quando aveva saputo che a causa delle difficoltà respiratorie di suo padre, i suoi genitori avevano cancellato l’atteso viaggio a Ceylon.
«È umido adesso che ha smesso di piovere», disse.
«Tra poco ricomincerà».
Laurence tornò a sedersi sulla sua poltrona preferita e riprese in mano il giornale.
Il pensiero di Liyoni tornò a ripresentarsi alla mente di Gwen, ma lei lo ricacciò indietro e vi si oppose. Si accomodò sul divano, evitando la pelle di leopardo. Non si era mai sentita a suo agio a distendersi sopra la pelle di un animale morto. Mise un cuscino dietro la testa, appoggiò le gambe su un poggiapiedi foderato e si impose di concentrarsi sul suo libro, ma le parole scritte parevano galleggiare sulla pagina bianca.
«Che stai leggendo?», le chiese Laurence sorseggiando il suo brandy.
«Un giallo di Agatha Christie, Il mistero del treno azzurro. È uscito solo l’anno scorso, sono stata fortunata a trovarne già una copia. Adoro Agatha Christie. Ha una scrittura così vivida ed eccitante, sembra proprio di essere lì».
«È poco realistica però».
«Vero, ma a me piace perdermi dentro una storia. Non sopporterei quei pesanti tomi che hai nella tua libreria. Ad eccezione delle poesie, ovviamente».
Lui sorrise, inarcò le sopracciglia e le mandò un bacio. «Sono contento che abbiamo qualcosa in comune».
«Oh, caro!».
Gwen chiuse gli occhi, ma il bisogno di confessare tutto a Laurence non l’abbandonò. Immaginò di gettarsi ai suoi piedi e implorare la sua misericordia, come una delle eroine dei romanzi che le piacevano tanto. Ma no, sarebbe stato ridicolo. Di certo non si sarebbe inginocchiata. Il suo cuore accelerò all’impazzata e lei si posò una mano sul petto, mentre ripeteva tra sé le parole che avrebbe voluto dire. Doveva solo aprire la bocca e parlare.
«Tutto bene?», le chiese lui notando il suo gesto.
Gwen annuì, prese un bel respiro e bramò ardentemente il momento in cui non avrebbe più dovuto tenere segreta l’esistenza di Liyoni. Quella notte a Nuwara Eliya aveva gettato al vento l’amore della sua vita in un momento di ebbrezza, ma il prezzo che era stata costretta a pagare per quell’errore era troppo alto; non sarebbe riuscita a sostenere il peso della colpa ancora a lungo. Ripeté nella sua mente ancora una volta le parole: “Laurence, ho partorito la figlia di un altro uomo e l’ho tenuto nascosto a tutti”. No. Era terribile, ma c’era un altro modo per dirlo?
Quando il campanello della porta suonò, Laurence posò il libro.
«Aspettiamo qualcuno?».
Gwen scosse la testa, nascondendo il senso di sollievo che l’attraversava in quel momento.
«Chi potrebbe essere a quest’ora?»
«Non ne ho idea. Forse quando Verity se ne è andata non si è portata la chiave».
Laurence scosse la testa. «La porta non è chiusa a chiave. Se fosse Verity sarebbe entrata».
Udirono il rumore attutito dei passi del maggiordomo nell’ingresso e poi la voce di una donna. Una donna con l’accento americano. Seguì il ticchettio acuto di tacchi alti sul parquet del corridoio, sempre più alto man mano che si avvicinavano.
«Christina?», chise Gwen a bassa voce.
«Non conosco altre americane, e tu?»
«Ma cosa…».
La porta si aprì e Christina fece il suo ingresso. Come al solito era vestita di nero, ma non portava gioielli. Sembrava che si fosse vestita in fretta e furia, perciò forse li aveva semplicemente dimenticati. Mentre Gwen teneva a bada i suoi timori nel rivedere la donna, Laurence si avvicinò e le offrì un cocktail con un gran sorriso. Lei non ricambiò.
«No. Un whisky doppio. Liscio».
Gwen osservò Christina sedersi su una sedia rigida davanti al tavolo da gioco. Al posto della solita acconciatura elaborata aveva i capelli sciolti sulle spalle, e dalla ricrescita Gwen dedusse che se li fosse tinti. C’era qualcosa in lei che trasmetteva un’aria di vulnerabilità.
Christina tirò fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette e un accendino. Infilò una sigaretta in un bocchino argentato, ma quando tentò di accenderla non ci riuscì per via della mano tremante. Intervenne Laurence, che le prese l’accendino e le offrì la fiamma. Lei aspirò una lunga boccata con cui accese la sigaretta, poi appoggiò la testa allo schienale ed esalò il fumo in piccoli cerchi che salirono fino al soffitto.
«C’è qualcosa che non va?», le chiese Laurence con uno sguardo preoccupato, sfiorandole il braccio. Non era una carezza, ma era comunque un gesto gentile.
Christina chinò il capo senza rispondere. Gwen notò che senza trucco il suo viso era incredibilmente pallido e forse per quel motivo la loro ospite dimostrava almeno una decina d’anni in più. In ogni caso, non sembrava una donna sulla trentina. E non era curata come al solito. Ma pareva così sfinita che quel pensiero non confortò affatto Gwen.
«Meglio che tu ti sieda, Laurence».
Gwen e Laurence si scambiarono un’occhiata confusa.
«Molto bene», disse lui avvicinando una sedia.
«Anche tu, Gwen».
«Oh, sono sicuro che Gwen preferisce non essere disturbata se si tratta di questioni di affari. È stata male di recente».
Christina alzò lo sguardo su di lei. «Ho saputo. Adesso ti sei ripresa?»
«Sì, grazie», disse, offesa all’idea che Laurence volesse escluderla. «Ma preferisco rimanere, Laurence, se non ti dispiace».
«Ma certo».
«Temo che non ci sia un modo semplice per dirlo». Christina si interruppe e, quando tentò di parlare incespicando sulle parole, la voce le uscì strozzata. Gwen e Laurence aspettarono che si ricomponesse.
«Si tratta di Verity? Le è successo qualcosa?», chiese Laurence allarmato.
Lei scosse la testa ma non rialzò lo sguardo. «No, niente del genere».
«E allora cosa?».
Un’altra pausa.
Poi Christina corrugò la fronte, prese un profondo respiro e fissò il pavimento ancora per qualche istante, mentre Gwen sentiva il cuore balzarle in gola. Se non si trattava di Verity, allora cosa poteva essere? Era qualcosa che riguardava Fran? O Savi Ravasinghe? Doveva essere qualcosa di serio per sconvolgere Christina in quel modo.
Lei alzò lo sguardo e guardò prima l’uno e poi l’altra, mordendosi il labbro.
«Diccelo e basta», disse Laurence tamburellando con le dita sul tavolo.
Christina prese un altro profondo respiro. «La verità nuda e cruda è che la borsa di New York è crollata».
Laurence non disse nulla, ma rimase a fissarla impietrito.
«E per noi cosa comporta tutto questo, Christina?», disse Gwen accigliandosi.
«Dietro mio consiglio, Laurence ha investito parecchio sulle miniere di rame del Cile».
Gwen aggrottò di nuovo la fronte. «Rame del Cile?».
Sul volto di Christina si delineò un mezzo sorriso. Ma non era un sorriso di gioia. «Le azioni non valgono più nulla. E qualsiasi residuo valore potessero ancora avere, domani sarà ancora minore. È una certezza».
«E allora vendiamole», disse Gwen.
«Non si possono vendere. Come vi ho appena detto. Non hanno più valore».
Laurence si alzò, si allontanò di qualche passo e giunse le mani dietro la schiena. Calò uno spiacevole silenzio, durante il quale Gwen avrebbe voluto fare delle domande, ma tenne a freno la lingua limitandosi a guardare Laurence.
«Come è potuto succedere?», chiese infine. «Com’è possibile? Avevi detto che l’aumento del fabbisogno di energia elettrica rendeva il rame un investimento a prova di bomba. Hai detto che presto l’elettricità avrebbe raggiunto ogni casa. Che il valore del rame sarebbe salito oltre ogni nostra possibile previsione».
«Sembrava davvero che fosse così, te lo giuro. Era così».
«Ma come è potuto accadere?», chiese Gwen.
Christina scosse la testa. «È partito tutto da un raccolto più proficuo del normale. Un surplus».
«Ma non dovrebbe essere una cosa positiva?», domandò Gwen.
«I prezzi sono calati troppo, i contadini non sono riusciti a pagare i fornitori, i braccianti e tutti gli altri. Non hanno ottenuto i soliti profitti, perciò hanno dovuto prelevare denaro in banca per pagare i debiti».
Laurence aggrottò la fronte. «Mi stai dicendo che c’è stata una corsa agli sportelli?».
La donna annuì.
«Anche alla tua?».
Christina si alzò torcendosi le mani. «Molta più gente di quanta ce ne aspettassimo ha voluto ritirare i propri soldi. Nessuna banca ha tutti quei liquidi in deposito. Non avevamo abbastanza denaro per soddisfare tutte le richieste».
«Continuo a non capire», disse Gwen guardando Laurence. «Noi non volevamo prelevare denaro, giusto?»
«Non è questo il punto», rispose lui.
«È una specie di reazione a catena. Se non ci sono liquidi gli interessi schizzano alle stelle. E la gente finisce rovinata».
«E uno dei settori che ha sofferto di più della crisi è stato quello del rame, giusto?», disse Laurence.
Christina annuì.
«Perciò il boom dell’elettricità di cui parlavi non si verificherà».
L’americana si accostò a Laurence e gli posò entrambe le mani sulle spalle. «Ho sempre agito in buona fede. Succederà, te lo prometto, ma non subito. Prima l’economia deve riprendersi».
«Potrebbero volerci dei mesi», disse Laurence guardandola negli occhi.
Christina abbassò lo sguardo per un istante, poi sollevò una mano per carezzare il viso di Laurence e rimase con il palmo sinistro sulla sua guancia.
«Mi dispiace, mio caro, carissimo amico. Ci vorranno degli anni. E nessuno sa dire quanti».
«Perciò cosa dovrei fare?».
Christina si allontanò. «Tenere duro e aspettare. Non ci sono alternative».
«Ma io puntavo su quei profitti per avviare un’altra piantagione. La terza. Ho già firmato il contratto».
Gwen tenne a freno la sua irritazione nel vederli così vicini. Christina singhiozzò e tirò fuori un fazzoletto dalla borsa.
«E tu», le chiese Gwen, ricacciando indietro la rabbia. «Che mi dici di te?».
Christina si asciugò gli occhi. «Io? Io sopravvivrò. Quelli come me ci riescono sempre. Sto per tornare negli Stati Uniti. Mi dispiace, davvero».
«Ti accompagno alla porta», disse Gwen.
«Non è necessario», rispose lei abbassando la maniglia.
Gwen si voltò a guardare Laurence. «Insisto».
Suo marito si era seduto a un piccolo tavolo da gioco e si teneva la testa tra le mani. Gwen trovò la situazione davvero ironica. Solo che in questo caso non si trattava di qualche dollaro perso a poker.
Giunta all’ingresso Gwen rimase in piedi davanti alla porta aperta, sentendo di esser giunta al limite; provò il fortissimo impulso di buttare fuori l’americana. Si trattenne, ma le parlò in tono duro.
«D’ora in poi, Christina, voglio che tu stia alla larga da mio marito, è chiaro? Basta consigli finanziari e basta eventi mondani».
«Mi stai minacciando?»
«Credo proprio di sì».
Christina sbuffò e scosse la testa. «Tu non sei mai riuscita a capire davvero Laurence».
Al sopraggiungere dell’alba l’umidità era aumentata e Gwen si sistemò lo scialle di lana sulle spalle. Dopo la tempesta il terreno era ricoperto di detriti: rami e ramoscelli spezzati, fiori e foglie. Il calo della temperatura e l’aria così umida preannunciavano che le piogge non avevano ancora finito con loro. Gwen lanciò un’occhiata in direzione della fabbrica del tè mentre saliva sulla collina insieme a Laurence. Dopo lo scioccante annuncio di Christina della sera prima, erano rimasti svegli, Laurence a bere tè con aria cupa e Gwen a interrogarsi sul significato dell’ultima frase della donna. Come osava insinuare che lei non capisse suo marito e cosa sapeva Christina che lei invece ignorava? Nessuno dei due aveva dormito quella notte.
Mentre camminavano il silenzio tra loro si appesantiva. Gwen riempì d’aria i polmoni ed espirò lentamente dalla bocca. Sopraffatta da un impeto di gratitudine ringraziò Dio di non aver fatto la sua confessione a Laurence. Le novità portate da Christina e la verità su Liyoni sarebbero stati troppo per lui. A metà della salita si fermarono e si guardarono l’un l’altro in cerca di risposte, o quantomeno di un barlume di speranza che li aiutasse a trovare una soluzione. Laurence fu il primo a distogliere lo sguardo.
Gwen guardò le nubi che si ammassavano e sentì il cuore batterle all’impazzata.
«Non so davvero cosa ne sarà di noi», disse Laurence.
Il silenzio si protrasse un po’ troppo a lungo e Gwen si morse un labbro, spaventata al pensiero di dar voce alle sue preoccupazioni.
Lui le prese le mani e le strinse tra le sue. «Hai le mani fredde».
Lei annuì e continuarono a camminare ancora per un po’. Giunti in cima alla collina si voltarono per guardare il panorama. Gwen osservò le sporadiche macchie di verde brillante sui cespugli di tè dai colori tenui, le raccoglitrici che indossavano sari arancioni, viola o color ciliegia, il giardino ben curato e la loro splendida casa. Ogni cosa era tenuta amorevolmente in perfetto ordine, Laurence le aveva spiegato che se i cespugli non venivano potati sarebbero diventati alberi. Gwen provò a immaginare come sarebbe stato quel posto abbandonato alla natura selvaggia.
Suo marito raccolse qualche calendula arancione e gliela porse.
Lei annusò i fiori e pensò alla loro casa e alla loro vita insieme. Alle volte in cui erano andati alla rimessa, alle mosche che ronzavano nei mesi caldi, alle falene bruciate alla fiamma di una candela. Una vita piena di allegria e di risate. Ascoltò il suono di un flauto proveniente da una finestra aperta della casa.
Un vento fresco faceva stormire gli alberi, che si stagliavano muti contro il cielo sempre più scuro. Quando non riuscì più a sopportare quella vista, Gwen mandò giù il groppo che aveva in gola e le parole che non avrebbe voluto dire le salirono alle labbra.
«Christina ha detto che non ti ho mai capito. Perché?»
«Non ne ho idea».
«Si riferiva all’affetto che provi per lei o alla piantagione? Dovremo venderla?»
«Nei suoi confronti non provo nessun affetto che vada oltre l’amicizia». Si fermò un istante prima di riprendere a parlare, con la voce leggermente incrinata. «E di vendere non se ne parla».
«Non perderemo la nostra casa?»
«Non è la prima volta che ci troviamo con le spalle al muro. Nel 1900, quando la domanda di tè non teneva il passo con la produzione, i prezzi di Londra passarono da otto centesimi la libbra a meno di sette. Alcune piantagioni fallirono. Mio padre scoprì il modo di migliorare i metodi di coltivazione e abbassò i costi di produzione. Ma trovò anche altri mercati all’estero. La Russia per esempio, e, che tu ci creda o no, anche la Cina. Tre anni dopo le esportazioni erano cresciute».
«Quindi dovremmo rifare una cosa del genere?».
Laurence scrollò le spalle. «Non per forza».
«Potremmo tagliare qualche spesa», suggerì Gwen. «Tirare un po’ la cinghia».
«Questo è certo. Se puoi tagliare qualche spesa di casa ti prego di farlo».
Probabilmente sarebbe stato l’equivalente di una goccia nell’oceano, anche se avesse ridotto drasticamente le spese, ma visto che si trattava di risparmiare il più possibile non avrebbe deluso Laurence.
«Dovremo vendere la macchina di Verity», disse lui.
«Oh, caro, lei adora quella Morris Cowley», replicò Gwen, ma ciò che pensava veramente era che era solo grazie a quella macchina se Verity si teneva fuori dai piedi.
«Può darsi. E dovrò anche ridurre la sua rendita temo, ma proverò a farlo senza essere troppo brusco».
Gwen sospirò.
«Il mio progetto di espandere la scuola per i bambini della piantagione dovrà aspettare. Al momento è frequentata da meno della metà dei bambini. Volevo migliorare la situazione».
Oltre al suono dei loro passi e al canto degli uccelli si sentiva solo un silenzio sofferente, come se anche la natura fosse sulle spine. Nonostante i numerosi pensieri che le affollavano la mente, senza dubbio uguali a quelli di Laurence, nessuno aggiunse altro per diversi minuti.
«Il punto è, Gwen», disse lui infine, «che dovrò partire».
Lei rimase immobile. «Devi proprio?»
«Credo di sì. Prima per Londra, poi per l’America. Possiamo sorvolare sulle azioni del rame, ma devo prendermi un po’ di tempo per capire come finanziare la nuova piantagione. E se in tutto questo il prezzo del tè crolla…».
«Succederà?»
«Potrebbe. In ogni caso vorrei partecipare di persona alla prossima asta a Londra, per quanto odi quelle occasioni così chiassose. Ma credo ci aspettino tempi duri».
Quelle parole procurarono a Gwen un brivido lungo la schiena mentre percorreva gli ultimi metri fino alla fabbrica.
«E Hugh?».
«Be’, non ha ancora quattro anni. Sono sicuro che per quando lo manderemo a studiare in Inghilterra le cose si saranno sistemate».
Gwen si mise in punta di piedi e baciò suo marito su una guancia. «Ce la faremo, Laurence, ce la faremo insieme».
Lui annuì.
«Quando partirai?»
«Dopodomani»
«Così presto?».
Lui prese un bel respiro. «Tu stai bene, vero? Lascio tutto nelle tue mani. Ma se non ti senti in condizione di farcela, devi dirmelo. Posso anche affidare tutto a Verity».
«Posso farcela».
«Bene. Speravo che lo dicessi. Collaborerai con Nick McGregor ovviamente».
Mentre si allontanava, Gwen pensò all’idea di mandare via Hugh all’età di otto anni, per studiare. Le pareva una cosa inumana da imporre a un bambino così piccolo. Ma una vocina in fondo alla mente le dava dell’ipocrita. Poi pensò alla sfida di gestire la tenuta. Adesso stava bene, ma avrebbe dovuto interagire tutti i giorni con McGregor e tenere a bada sua cognata.
Quando giunse a casa trovò Verity che stava parcheggiando la Morris. Non appena scese dall’auto Gwen le fece segno di avvicinarsi.
«Vorrei parlarti se hai un momento».
«Certo. È per il crollo della borsa? A Nuwara Eliya non si parla d’altro».
«Non ne dubito. Laurence mi ha affidato la tenuta per il periodo in cui sarà via. Credo sia meglio se collaboriamo tutti in questo momento difficile».
«Dove va?»
«A Londra e poi in America».
«Santo cielo! Quindi starà fuori per mesi».
Gwen raddrizzò la schiena. «Ci sono novità anche per te. Laurence ha detto che dovrai rinunciare alla macchina. Io, te e McGregor useremo a turno la Daimler».
«Non è giusto. E comunque tu non guidi».
«Dovrò imparare».
«E come?»
«Mi insegnerai tu. Laurence ha perso tutto. Tutti i suoi investimenti. Dovremo tagliare la tua rendita e cominciare tutti a stringere la cinghia se vogliamo sopravvivere».
Gwen lasciò Verity da sola sul vialetto e si allontanò senza aggiungere altro. Non appena fu entrata, udì il boato di un tuono. Si voltò a guardare fuori dalla porta ancora aperta. La pioggia scrosciava sul terreno secco e scorreva via in mille piccoli rivoli. Gwen vide Verity risalire in macchina, accendere il motore e avviarsi di nuovo su per la collina.