Capitolo 14

L’intensa fragranza floreale di Florence Shoebotham riempì la stanza. La donna si sedette sul divano e si appoggiò alla pelle di leopardo. Gwen sorrise fra sé e sé per l’improbabile accostamento della pelle di un animale selvaggio alla tipica compostezza britannica di Florence, il cui carattere ombroso non aveva niente da invidiare all’energia oscura di quella pelle di leopardo. Florence si portò la tazza di porcellana alla bocca e mentre beveva un sorso, il mento le tremolava. Povera Florence con quei radi capelli e il doppio mento.

«È così bello rivederti in forma», disse Florence.

Il viso di Gwen assunse un’espressione ben collaudata. Da quando aveva visto Liyoni aveva mentito più volte a se stessa davanti allo specchio, finché non aveva imparato come posizionare la faccia, dove guardare, cosa fare con le mani.

Ora sorrideva, e continuò a sorridere finché non le fece male la mascella. «Come stai, Florence?»

«Non mi posso lamentare. Verity mi ha raccontato tutto del formaggio». Gwen lanciò un’occhiata a Verity. Sua cognata si stava studiando le unghie senza prestare alcun interesse alla conversazione, e quindi sembrava improbabile che fosse stata lei a parlarle del formaggio. Di fatto, a parte quell’unico giorno in cui l’aveva aiutata a ripulire il deposito, Verity non si era mostrata per nulla partecipe.

«Non ho fatto molti progressi. Abbiamo sgomberato il deposito un mese fa. È stato ripulito e imbiancato, e abbiamo preparato i mobili e gli attrezzi. Abbiamo già un po’ di roba sparsa, ma ho dovuto ordinare un termometro per il formaggio e le forme dall’Inghilterra».

«Ma è una buona idea. Sei intelligente».

«Mia madre mi sta mandando una vecchia pressa per il formaggio dalla nostra fattoria a Owl Tree».

«È raro trovare buon formaggio qui».

«Non è difficile da fare, ma bisogna sapere usare il latte».

«Hai intenzione di venderlo?».

Gwen scosse la testa. «No. Non so neanche se la mia impresa funzionerà con questo clima. Veramente pensavo di farlo soltanto per il consumo casalingo, e per gli amici a cui possa far piacere».

«Ti prego di includermi, mia cara».

«Ma certamente. Come ho detto, il formaggio non è difficile da produrre, sono i conti a farmi venire il mal di testa. Temo che i numeri non siano il mio forte. Non riesco a farli quadrare. Probabilmente scoprirò che l’errore è mio».

«Be’», disse Verity. «È elettrizzante che te ne occupi con tanto interesse. Non penso che a Caroline importasse granché».

La voce di Florence si abbassò di un pochino. «Sono contenta che tu ti sia calmata».

«Calmata?»

«Voglio dire ambientata. Ero preoccupata all’inizio. Sembrava che passassi un sacco di tempo con quel pittore».

Gwen trasalì. «Intendi Mr Ravasinghe?»

«Esatto»

«L’ho visto solo due o tre volte».

«Sì, ma non è inglese. Quelli come lui hanno un modo di fare un po’ troppo sfrontato rispetto a ciò che noi consideriamo corretto».

Gwen finse una risata. «Florence, ti assicuro che con me è stato più che corretto».

«Ma certo, non sottintendevo nulla». Si voltò verso Verity. «E tu aiuterai la moglie di tuo fratello a fare il formaggio?».

Verity alzò di nuovo lo sguardo. «Che cosa?»

«Smettila di mangiarti le unghie, cara», fece una pausa. «Parlavo del formaggio. Stai aiutando Gwen?».

Florence era sempre così bramosa di essere resa partecipe di ogni cosa e così avvezza a dare consigli non richiesti. Gwen per un momento provò affetto per sua cognata.

«Oh, sono sicura che Verity abbia progetti suoi», disse.

Verity sospirò.

«È un’idea meravigliosa», continuò a dire Florence. «La tua nuova cognata è proprio intelligente, non credi, Verity cara? Non prendertela a male, ma forse anche tu dovresti pensare a occuparti di qualcosa di utile. Qualcosa che possa aiutarti a renderti attraente agli occhi degli uomini».

«E tu cosa suggeriresti?»

«Agli uomini piace avere una moglie piena di risorse, come Gwen. Lei gestisce le faccende di casa, è una moglie e una madre, e come se non bastasse, indaffarata com’è, si mette a fare il formaggio».

Verity si alzò, rivolse a Florence un’occhiataccia e poi lasciò la stanza in maniera plateale rovesciando un tavolino. La teiera, il bricco del latte e la zuccheriera sbatterono a terra.

Gwen sospirò e chiamò col campanello uno dei garzoni. «Mi dispiace tanto. Non so che le prenda».

«Era una ragazzina difficile».

«Come se la cavava Caroline?»

«La ignorava, per lo più. Non credo che andassero molto d’accordo. Verity era molto più giovane all’epoca, ovviamente, e andava ancora a scuola. Caroline era piuttosto distante. Ma mi sembra di ricordare che una volta Verity arrivò a insinuare che Laurence sospettava che sua moglie avesse una relazione con qualcuno».

«Ma figuriamoci!».

«Verity disse che li aveva sentiti discutere in proposito durante le sue vacanze e che Caroline aveva negato categoricamente. Credo che Verity se lo sia inventato. Sai come sono le ragazze».

Gwen inclinò la testa.

«E poi quando finì la scuola, Verity trascorse un periodo nella loro casa in Inghilterra; quando tornò qui, si appiccicò ancora di più a Laurence. Non è salutare. Questo è quel che so io. Non ho idea di cosa sia successo laggiù, ma di sicuro dev’esserci sotto qualcosa».

«La morte di Caroline ha turbato anche lei?»

«Terribilmente».

Qualche giorno più tardi Gwen assemblò la sua attrezzatura sul lungo tavolo poggiato sui cavalletti nel deposito. La pressa del formaggio, appena arrivata dall’Inghilterra, stava su un tavolo all’altro lato della stanza. Colatoi di diverse misure, molti bricchetti del latte, alcuni cucchiai di legno, una spatola e un grande mestolo occupavano un altro piccolo tavolo. Le forme del formaggio erano state lavate, asciugate e ordinatamente impilate, e le stamigne erano stese sul filo al sole.

La scorta di latte di bufala, più grossa del solito, era arrivata poco dopo l’alba, e Gwen si era alzata alle sei e mezza, pronta per riceverla. Si era legata i capelli con una retina e indossava un lungo grembiule bianco che era stato passato nella candeggina e smacchiato. Era in piedi in mezzo al deposito a osservare il suo regno quando Laurence fece capolino nella stanza.

«Pensavo fossi già uscito», disse lei.

«Non potevo andarmene senza dare un’occhiata alla nostra nuova produttrice di formaggio». Si avvicinò e studiò il suo volto. «Ed è anche un bel bocconcino. Potrei farla subito cadere ai miei piedi, rapirla e portarla nel fienile».

Felice di vederlo contento, Gwen sorrise. «Non abbiamo un fienile».

«Peccato».

La attirò a sé, la abbracciò e poi allentò la presa. «Tanti auguri per il tuo primo giorno, tesoro».

Lei sorrise. «Grazie. Ora vattene, ho da fare».

«Sì signora».

Lo guardò andarsene. Quando lo vedeva così, senza preavviso, le veniva un tuffo al cuore, come la primissima volta che l’aveva visto. Dopo aver delicatamente scartato la coltura iniziale appositamente mandata da Kandy, versò il latte in una grande terrina da portare in cucina e cuocere. Fece un paio di passi, usando entrambe le mani per portare la terrina, ma alla porta si rese conto di non avere una mano libera per aprirla. Mantenne in equilibrio la terrina poggiandola contro un lato della porta, e quando stava per aprirla con l’altra mano la terrina scivolò sul pavimento di cemento, inzuppandola di latte.

Dopo quel disastro, doveva perdere tempo a cambiarsi i vestiti.

Una volta tornata nel deposito, pulita e pronta a ricominciare tutto daccapo, vide arrivare Naveena con Hugh che era sveglissimo e stava urlando.

L’appu era sulla porta della cucina e osservava tutta la scenetta con un sorriso sardonico. Non poteva dirsi apertamente contrario a quello che lei stava facendo, ma quando gli aveva detto dei suoi progetti, la sua disapprovazione era stata più che palese. Il loro accordo era che lei avrebbe scombussolato il meno possibile la normale routine della cucina, usandola soltanto a orari prestabiliti. Finora le cose non stavano andando come aveva sperato.

Una volta che Hugh fu sistemato, Naveena lo riportò nella nursery e Gwen ricominciò daccapo.

Un garzone portò in cucina la seconda dose di latte, mentre Gwen apriva e richiudeva la porta. L’appu supervisionò il riscaldamento del latte e Gwen attraversò le tre terrazze che portavano al lago mentre aspettava che il latte si raffreddasse. Si sedette su una panchina, alzò lo sguardo verso le nuvole grosse e bianche, e poi guardò le increspature dell’acqua mentre ascoltava gli uccelli. C’era una leggera brezza che rinfrescava la pelle, era una giornata perfetta. Sentì una porta scricchiolare alla sua sinistra, e si voltò in tempo per vedere Laurence emergere dalla rimessa delle barche.

«Cosa stai facendo?» urlò. «Pensavo che saresti andato su alla fabbrica ora che il tempo è migliorato».

«È una sorpresa».

«Per me?»

«No, per la moglie del brigadiere!»

Lei si accigliò.

«Ma certo che è per te. Vieni a vedere». Spalancò la porta della rimessa.

Lei si avvicinò e sbirciò dentro.

Era stata rimessa a nuovo. L’interno era stato ridipinto di fresco e quel posto tetro era stato trasformato da deposito usato di rado a carinissima dépendance. L’ampia finestra che si affacciava sul lago scintillava, le nuove tende svolazzavano e delle calendule arancioni erano state sistemate su un piccolo tavolino da caffè di legno di seta davanti a un grande, anche se piuttosto logoro, divano. Laurence si chinò per baciarle la guancia, poi si sedette sul divano, posò le gambe su un poggiapiedi rivestito a nuovo e guardò fuori verso l’acqua.

«E la barca?» chiese lei.

«Proprio qua sotto, rappezzata, ridipinta e pronta a farci salpare al tramonto. È il mio modo per dirti quanto sono stato sciocco a non rendermi conto di quanto sia stancante avere un bambino. Ti piace?»

«È bellissimo. Ma come hai fatto a fare tutto questo senza che io me ne accorgessi?».

Lui ammiccò e si tamburellò un lato del naso.

«Be’, sono stupefatta».

Si sedette sul divano accanto a lui e Laurence l’abbracciò. Dava serenità guardare l’acqua che risplendeva sotto il sole e ascoltare gli uccellini cantare attraverso la finestra aperta.

«Volevo parlarti, Gwen».

Le si mozzò il fiato e il cuore le fece un balzo.

«Di Caroline».

Lei espirò lentamente, sollevata.

«Ti ho detto che era mentalmente instabile ma credo che nessuno ti abbia raccontato cosa sia successo esattamente».

Lei scosse la testa mentre lui prendeva dalla tasca un foglio di carta da lettere, lo apriva e lo stirava. Poi lo porse a Gwen perché lo leggesse.

Mio caro Laurence,

so che non lo capirai, e che probabilmente non mi perdonerai mai, ma è ormai impossibile per me continuare a sopportare il dolore che provo da quando è nato Thomas. Fin dal momento della sua nascita, ho vissuto come se avessi un diavolo in corpo. Un diavolo che mi oscura i pensieri e mi sconvolge l’equilibrio. È un inferno che non avrei immaginato fosse possibile. Non vedo altra via d’uscita. Mi dispiace tantissimo, amore mio, ma non posso lasciare il povero Thomas senza una madre che lo protegga. Pertanto, e ciò mi addolora terribilmente, ho deciso che deve venire con me, e che insieme potremo trovare la pace. Che Dio possa perdonarmi. Una volta che me ne sarò andata trovati una nuova moglie, migliore di me, Laurence caro, non mi dispiacerà. Anzi, me lo auguro.

Non sentirti in colpa.

Tua, Caroline

Quando ebbe finito di leggere, Gwen ricacciò indietro lacrime e ingoiò il nodo che le aveva stretto la gola. Quella non era la sua tragedia, si disse. Doveva controllare i propri sentimenti e aiutare Laurence.

«Non è stato facile per me», disse, e fece una pausa. «Prima i miei genitori e poi Caroline».

«E il bambino», aggiunse lei.

Lui annuì lentamente ma non la guardò negli occhi. «E poi le trincee, sebbene in un certo senso la guerra sia stata quasi un conforto. Bisognava andare avanti per forza. Non c’era modo di soffermarsi a pensarci su».

«Caroline dev’essere stata molto disturbata per arrivare a suicidarsi».

Lui si schiarì la voce ma poi scosse la testa, sembrando per un momento riluttante a parlare.

Lei attese.

«È stato… complicato. Neanche il dottore sapeva cosa fare. Diceva che alcune donne non si riprendono mai dal parto, mentalmente, intendo. Lei non era più la stessa. A stento riusciva a prendersi cura del bambino. Ho provato a parlarle, a darle conforto, ma era tutto vano. Stava seduta a fissarsi le mani e tremava».

«Oh, Laurence…».

«Mi sentivo così inutile. Non c’era verso di venirne fuori. Allattamento escluso, Naveena si fece carico totalmente del bambino. Alla fine il dottore suggerì una clinica psichiatrica, ma io temevo che potesse finire in qualche orribile manicomio. In seguito non riuscii a perdonarmi di non aver seguito il consiglio del dottore».

Lei si chinò verso di lui. «Non potevi saperlo».

«Avrei potuto salvarle la vita».

Gwen gli accarezzò dolcemente il viso, poi si staccò e gli prese le mani, mentre lo guardava dritto in faccia. «Mi dispiace così tanto, Laurence».

«In teoria un bambino dovrebbe portare gioia, ma per noi…». Fece una pausa.

«Non devi dirmelo per forza».

«Ci sono tante cose che vorrei poter dire».

«Cosa intendeva dire con “lasciare il povero Thomas senza una madre a proteggerlo”? Di sicuro doveva sapere che tu l’avresti protetto».

Lui si limitò a scuotere la testa.

Ci fu un lungo silenzio.

«A volte è meglio piangere e basta, Laurence», disse lei alla fine, vedendo quanto sofferenza ci fosse sul suo volto.

Lui sbatté le palpebre e la mascella gli tremò. Le lacrime scesero lente e silenziose. Gwen gli baciò le labbra bagnate, e gli asciugò le guance con le mani, poi espirò lentamente per calmare il suo cuore. Laurence era orgoglioso e non piangeva facilmente, eppure quella era la seconda volta che lo vedeva singhiozzare.

«Come ci si riprende da una cosa del genere?», chiese lei.

«Il tempo aiuta, e anche tenersi occupati, e ora ci siete tu e Hugh».

«Ma non si supera mai del tutto, no?»

«Sì, immagino di sì».

Il suo sguardo fissava qualcosa alle sue spalle. Poi i suoi occhi si posarono di nuovo su di lei. «Verity ha sofferto molto. Non mi perdeva d’occhio un istante».

«Aveva il terrore che potessi morire anche tu?»

«No. Io… non ne sono sicuro».

Lui socchiuse gli occhi come se stesse pensando, e sembrava sul punto di dire altro, ma non sapeva come. Quel momento intenso passò.

Gwen lo abbracciò e giurò a se stessa che non avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per impedire che fosse ferito ancora. Mentre quel pensiero prendeva forma nella mente di Gwen, lui le slacciò il grembiule e poi glielo sfilò. Lei si sdraiò sul divano, e Laurence delicatamente le sbottonò i bottoncini perlati del vestito. Gwen se lo tolse e si levò le mutandine mentre lui si svestiva.

Dalla nascita di Hugh, a parte una volta soltanto, si erano a malapena sfiorati. Ora che i loro corpi entravano in contatto, comprese appieno la fragilità dell’amore, e ciò che comportava. Era così facile rovinarlo. Così facile, a quanto pare, spezzarlo. Trattenne il respiro, desiderando che quel momento non finisse mai, e mentre si sdraiavano insieme sul divano, le parve che la quotidianità della piantagione appartenesse a un altro universo.

«E se viene qualcuno?» sussurrò.

«Non verrà nessuno».

Le piaceva come la faceva sentire, il modo in cui il suo corpo rispondeva a quello di lui, come le accarezzava le cosce e le baciava le dita dei piedi, finché non poté più resistere e avvinghiò le gambe attorno a lui.

Poi rimase avvolta tra le sue braccia, cingendogli petto. Alzò la mano per seguire i contorni del suo viso con le dita, profondamente cosciente del calore della mano di lui che rimaneva sulla sua coscia.

«Ti amo, Laurence Hooper».

Lui sorrise. «Avrò guastato il formaggio?».

Gwen lo guardò e vide che nei suoi occhi c’era molta meno sofferenza di prima.

«No», disse lei. «Il latte deve raffreddarsi comunque, ma il ragazzo avrà riportato la terrina nel deposito ormai, quindi sarà meglio che torni». Si lisciò i capelli sudati e aggrovigliati. «Devo sembrare un mostro».

«Tu non sembri mai un mostro. Ma ti dico una cosa», disse.

«Sì».

«Questo posto è soltanto per me e per te. È un posto dove dobbiamo venire quando abbiamo bisogno di un rifugio. D’accordo?»

«Assolutamente sì».

«E qui ricominciamo daccapo, tutte le volte che serve».

Gwen gli appoggiò il palmo della mano sul cuore e annuì.

Ritornata al deposito, aggiunse la coltura iniziale al latte e lo lasciò così per un’ora circa mentre allattava Hugh. Il bambino frignò quando cercò di rimetterlo giù, e così Naveena portò la sua carrozzina, dotata di un grande parasole per fargli ombra. Gwen cullò la carrozzina sentendo il calore sul viso e pensando a Laurence mentre ascoltava il ronzio degli insetti. Hugh si addormentò velocemente e Gwen disse a Naveena che poteva andare a riposare. La donna se l’era meritato. Se Hugh si fosse svegliato l’avrebbe sentito dall’interno del deposito.

Nella stanzetta, Gwen aggiunse il caglio e mescolò, poi lasciò tutto sotto una finestrella in fondo alla stanza, di modo che il calore del sole aiutasse il latte a solidificarsi.

“Una bella giornata produttiva”, pensò, e sorrise. In un angolo della sua mente una bambina scura dormiva pacifica sulla sua amaca.