Capitolo 4

Passò un’intera settimana da quella notte, e Gwen era seduta in salotto. Ormai abituata al discreto viavai dei domestici che si muovevano per casa con passo felpato, era in attesa di quelli che aveva convocato. Aveva osservato a lungo il lavoro del personale e aveva preso appunti a riguardo. Tuttavia, Laurence non aveva più condiviso il suo letto. Sembrava sempre esserci qualche ragione alla quale Gwen non poteva opporsi. Aveva imparato a non guardare in faccia Naveena quando le portava il tè del letto su un vassoio d’argento. Alla donna di certo non era sfuggito che la padrona dormisse da sola, e Gwen, rabbrividendo alla prospettiva di diventare oggetto della sua pietà, si rendeva conto di dover trovare da sola un modo per risolvere la situazione.

Drizzò le spalle e, sebbene ciò la rattristasse, decise che non ci avrebbe pensato, almeno non nell’immediato. Laurence probabilmente era preoccupato per gli affari della piantagione e, ne era sicura, presto le cose si sarebbero sistemate. Nel frattempo si sarebbe tenuta occupata, e avrebbe continuato a comportarsi come la migliore delle mogli possibile. Non si sentiva ovviamente in competizione con la prima moglie di Laurence, Caroline, ma desiderava soltanto che lui fosse orgoglioso di lei.

Sentì bussare alla porta, e si passò i palmi leggermente sudati sulla gonna. Entrarono Naveena, l’appu, il maggiordomo e un paio di altri domestici.

«Ci siamo tutti?», chiese lei con un sorriso, torcendosi le mani per celare il nervosismo.

«I coolies della cucina sono impegnati», rispose Naveena. «E anche gli altri garzoni. Ci siamo solo noi».

Il maggiordomo e Naveena erano singalesi. Gli altri del gruppo erano tàmil. Gwen sperò che capissero tutti l’inglese, e che andassero d’accordo tra loro.

«Bene. Ho convocato questa piccola riunione perché possiate capire cosa voglio da voi».

Li guardò uno a uno.

«Ho fatto una lista delle varie mansioni di cui vi occupate, e ho qualche domanda in proposito».

Nessuno fiatò.

«Innanzitutto, chi produce il nostro latte? Non ho visto mucche nella proprietà».

L’appu alzò la mano. «Il latte lo portano ogni giorno, è di bufala. Ce ne sono molte nelle vallate».

«Capisco. Quindi le scorte sono abbondanti?».

Lui annuì. «E abbiamo anche due caprette».

«Eccellente. Poi, desideravo sapere quando viene il dhobi».

«Deve accordarsi lei con lui, signora».

«Parla l’inglese?»

«Sì, ma non molto bene».

«Ma abbastanza bene?».

L’uomo scosse la testa.

Gwen non aveva ancora capito se significasse sì o no, ma almeno aveva scoperto che il dhobi era l’uomo che si occupava della lavanderia. Sapeva che prestava servizio in più di una proprietà, e voleva proporgli di lavorare solo ed esclusivamente per lei.

Osservò l’espressione interrogativa dipinta sul volto dei domestici. «L’altra questione che intendo sottoporvi è la creazione di un orto a uso famigliare».

I domestici si scambiarono uno sguardo perplesso.

«Un orto per famiglia?», chiese l’appu.

Lei sorrise. «Per coltivare verdure da usare in cucina».

L’uomo annuì ,e tutti sorrisero.

«Abbiamo così tanta terra che mi pare sensato. Ma avrò bisogno di qualcuno che se ne occupi».

Il maggiordomo scrollò le spalle. «Noi non siamo giardinieri, signora. Abbiamo un giardiniere».

«Sì, ma un uomo solo che lo lavori non basta». Aveva visto il giardiniere: un omino insolitamente grasso, con il capo incorniciato da capelli neri e ricci, e un collo largo quanto la testa.

«Lui viene sempre, ma signora, chieda a Mr McGregor», disse Naveena. «Può far venire uomini dagli slum».

Gwen sorrise. Non era ancora stata presentata ufficialmente a Nick McGregor, e quella sarebbe stata l’occasione ideale per fare amicizia con lui. Si alzò.

«Bene, grazie a tutti. Per oggi può bastare. Parlerò poi con ciascuno di voi dei singoli cambiamenti che intendo apportare alle vostre mansioni quotidiane».

Si alzarono tutti e si inchinarono, e lei lasciò la stanza, soddisfatta di com’era andata.

Oltre al labrador, aveva scoperto l’esistenza di due giovani spaniel, Bobbins e Spew; ci aveva fatto subito amicizia e aveva passato ore intere a lanciar loro bastoncini e a farli giocare. Mentre i cani la seguivano in corridoio, i suoi pensieri ritornarono a Laurence. Inspirò e serrò le labbra. Che cosa avrebbe detto a Fran, che sarebbe arrivata da un giorno all’altro? Non poteva certo obbligare il marito a fare l’amore con lei, anche se ci avrebbe volentieri provato. Quando in Inghilterra avevano deciso di creare una famiglia, lui aveva detto che più erano, meglio era: voleva almeno cinque figli. Ricordandosi di com’erano stati bene in Inghilterra e in hotel, quando lei era appena arrivata, Gwen non riusciva a capire cosa non andasse.

Era quasi ora di pranzo, perciò decise di attirare Laurence nella sua stanza subito dopo e pretendere da lui una spiegazione. Era il suo giorno libero, perciò non avrebbe potuto accampare il lavoro come scusa.

Quindi, dopo pranzo, mentre si pulivano la bocca con i tovaglioli di lino ricamati, Gwen si alzò in piedi e, con le dita che le pizzicavano dal desiderio di un contatto, gli tese la mano. Lui la prese e lei lo attirò a sé, notando che aveva i palmi freddi; poi inclinò la testa e sbatté le ciglia.

«Vieni».

Una volta nella stanza, Gwen chiuse le imposte, ma lasciò i vetri delle finestre aperti per far passare l’aria. Dando le spalle alla finestra, lui rimase assolutamente immobile e, per un momento, si fissarono senza parlare.

«Ci metto un attimo».

Il volto di Laurence non lasciva trapelare alcuna emozione.

Gwen entrò in bagno, diede uno sguardo al secchio della segatura, e sollevò il coperchio di mogano del gabinetto per guardare dentro. Grazie al cielo il coolie delle latrine era passato; Naveena aveva acceso un po’ di incenso, e messo dei fiori freschi sulla mensola. Tuttavia, c’era un odore persistente. Gwen si sfilò l’abito da giorno. Sbottonò le calze di seta e le arrotolò verso il basso – dato il caldo di Ceylon, aveva abbandonato il corsetto prima ancora di scendere dalla nave – poi si sfilò la sottoveste di pizzo e le mutandine in pendant; tolse il reggicalze e gli orecchini, ma lasciò il filo di perle che aveva al collo. Completamente nuda e con addosso solo le perle, si guardò allo specchio. Aveva già le guance rosse a cause dei tre bicchieri di vino che si era concessa a pranzo, perciò si limitò a passarsi un tocco di rossetto sulle labbra. Si specchiò mentre se lo sistemava con un dito e poi se ne mise un po’ sul collo. Munizioni, così definiva Fran fard e rossetto.

Ritornata nella stanza, trovò Laurence seduto sul letto con gli occhi chiusi. Gli si avvicinò in punta di piedi e si fermò davanti a lui. Ma suo marito non diede segno di essersene accorto.

«Laurence?».

Portò il seno all’altezza del suo petto e gli si premette contro. Lui le mise le mani sui fianchi e la trattenne per un momento, poi aprì gli occhi e la guardò. Gwen lo fissò mentre le prendeva il capezzolo in bocca e, sentendosi cedere le ginocchia, quasi svenne per la scarica elettrica che la percorse; la sensazione fu persino intensificata dalla vista di lui che osservava tutto ciò che doveva trapelare dal suo volto.

Rimasero così per un breve istante, poi Laurence la lasciò andare. Mentre scalciava via le scarpe, si slacciava le bretelle e si toglieva pantaloni e biancheria intima, lei sentì un colpo al cuore. La spinse con la schiena sul letto e, quando le salì sopra e si sistemò tra le sue gambe, le venne la pelle d’oca. Suo marito le entrò dentro e Gwen ebbe un sussulto che le fece sbattere il cuore contro le costole e le tolse il fiato. Eccitata dalla completa perdita di inibizione, gli affondò le unghie nella schiena. Ma poi qualcosa cambiò; gli occhi di Laurence si appannarono e lui prese ad andare troppo veloce. Pur avendolo tentato lei per prima, in quel momento Gwen non riuscì più a tenere il ritmo; la mancanza di intesa tra loro, le diede la sensazione che quel che stavano facendo fosse sbagliato. Come era possibile che Laurence fosse così preso da qualcosa che non la riguardava? Gli chiese di rallentare, ma lui parve non sentirla. Dopo appena qualche secondo, grugnì e fu tutto finito.

Laurence si raddrizzò e voltò il capo mentre recuperava il fiato.

Ci fu qualche istante di silenzio, mentre Gwen lottava con tutte le emozioni che provava.

«Laurence?»

«Scusa se ti ho fatto male».

«Non mi hai fatto male. Laurence, guardami». Lei gli prese la testa e lo costrinse a guardarla. In realtà, le aveva fatto un po’ male, ma le fece molto più male lo sguardo che gli vide negli occhi, lo stesso di poco prima, e dovette trattenere le lacrime.

«Amore, dimmi qual è il problema, ti prego».

Voleva che le dicesse qualcosa, qualsiasi cosa fosse in grado di riportarlo indietro da lei.

«Mi sento così…».

«Così?»

«Questo posto…», disse lui.

Aveva uno sguardo così infelice che lei non poté far altro che avvicinarsi e consolarlo. Lui le prese la mano, la girò e le baciò il palmo.

«Non sei tu. Tu sei assolutamente perfetta per me. Ti prego di credermi».

«E allora qual è il problema?».

Laurence le lasciò la mano e scosse la testa.

«Mi dispiace, non posso farlo», disse. Dopodiché si alzò e se ne andò.

Completamente disorientata, con il cuore in pezzi per il cambiamento che aveva notato nel marito, Gwen si strappò via le perle. Il fermaglio si ruppe e le sfere rotolarono sul pavimento. Perché non poteva farlo? Lei lo voleva così tanto, e certa dell’amore di lui, aveva pensato che sarebbe stata una brava moglie e madre. Sapeva che lui l’aveva desiderata – desiderata davvero – e d’altronde bastava pensare a com’era stato a Colombo! Ma dopo aver fatto tutta quella strada, con soltanto la certezza del loro amore e qualche vestito nuovo, non sapeva proprio che pesci pigliare.

Doveva essersi addormentata, perché non sentì Naveena entrare nella stanza, e fece un balzo quando aprì gli occhi e la vide seduta sulla sedia accanto al letto, con la faccia delicata e rotonda atteggiata a un’espressione composta; aveva una brocca in grembo e aveva raccolto tutte le perle in un piattino sul comò.

«Ho un po’ di limonata, signora».

L’espressione nei suoi occhi neri era così amorevole che Gwen scoppiò in lacrime. Naveena le aveva teso una mano, e aveva appoggiato la punta delle dita sul braccio di Gwen, sfiorandola appena. Gwen guardò la mano ruvida e scura della donna, così nera in confronto alla sua. Mentre parlava sembrava che nei suoi occhi fosse depositata la saggezza di secoli, e Gwen si sentì attratta da tanta compostezza. Sebbene desiderasse che Naveena la abbracciasse e le accarezzasse dolcemente i capelli, ricordò le parole di Florence Shoebotham e si girò dall’altra parte. Meglio non entrare troppo in confidenza con la servitù.

Un po’ più tardi, ansiosa di uscire di casa per cercare di non sprecare del tutto quella giornata, Gwen si vestì, anche se non riusciva a fermare il turbinio di pensieri che le si affastellavano nella testa. Si era ricordata di portare un cappello, e decise di esplorare ciò che c’era oltre gli alberi alti sul lato della casa. Era un pomeriggio caldo e tranquillo. Perfino gli uccelli dormivano e l’unico suono proveniva dal ronzio degli insetti. Uscì dalla porta sul retro e costeggiò il lago. Una pallida coltre di foschia lilla vi si era posata sopra. Laurence le aveva detto che poteva nuotare soltanto se c’era qualcuno a sorvegliarla, quindi ignorò il desiderio di togliersi i vestiti e buttarsi in acqua.

Le colline solitamente verdi dall’altra parte del lago con quella luce sembravano azzurre, ed era difficile distinguere le sagome colorate delle raccoglitrici. L’impressione che le avevano fatto la prima volta era rimasta. Sembravano uccelli esotici, con un cestino che penzolava dalla spalla e i sari multicolore. Ora sapeva che tutti i braccianti nella proprietà erano tàmil; i singalesi consideravano vergognoso il salario da bracciante, sebbene in pochi fossero granché felici di lavorare al chiuso, e così i padroni delle piantagioni si erano rivolti agli indiani. Alcuni tàmil vivevano nella piantagione da generazioni, le aveva detto Laurence. E sebbene le fosse stato proibito andarci, Gwen voleva vedere che aspetto avessero gli slum. Immaginava casette accoglienti e tranquille, con i bambini dalla pancia rotonda che dormivano su amache appese agli alberi.

Raggiunse il cortile, fiancheggiato dalle cucine su un lato. Gli alberi ne segnavano il confine, e la casa e il lago formavano gli altri due lati del quadrato. Proprio mentre stava per attraversarlo, un uomo, vestito a malapena di stracci, strascicò i piedi verso la porta aperta della cucina. Gwen lo osservò mentre tendeva le mani e dondolava la testa. Un garzone uscì fuori e lo spinse per cacciarlo via. Nella baruffa l’uomo cadde a terra. Il ragazzo gli diede un calcio e poi ritornò all’interno, sbattendo la porta.

Gwen esitò per un momento, ma dato che il mendicante non si rialzava e si lamentava, si fece coraggio e gli corse incontro.

«Sta bene?», disse.

L’uomo la guardò con i suoi occhi neri. Aveva i capelli sporchi, un viso largo e molto scuro e quando si mise a parlare, lei non capì cosa le stesse dicendo. Quando le indicò il piede scalzo, Gwen vide una piaga in suppurazione.

«Accidenti, non puoi andare in giro con quella cosa. Appoggiati al mio braccio».

L’uomo le rivolse uno sguardo assente, così lei gli tese la mano per aiutarlo. Una volta che l’ebbe afferrato saldamente, lo incoraggiò a gesti a ritornare verso le cucine. Lui scosse la testa e cercò di allontanarsi.

«Ma non puoi andartene. Quella ferita dev’essere pulita e medicata». Indicò il piede. Lui cercò di allontanarsi di nuovo, ma nelle condizioni in cui si trovava, era Gwen la più forte.

Quando riuscirono a raggiungere la porta della cucina, lei girò la maniglia e spinse. Tre paia d’occhi li guardarono mentre entravano nella stanza. Nessuno si mosse. Quando Gwen e l’uomo raggiunsero il tavolo, lei prese una sedia e vi fece accomodare il ferito.

I garzoni stavano sussurrando tra loro in quello che lei dedusse essere tàmil, perché l’uomo sulla sedia parve capire e tentò di alzarsi. Gwen gli posò una mano sulla spalla per trattenerlo, poi si guardò in giro. C’era odore di cherosene, che era raccolto in grosse ciotole sotto due armadietti per le provviste di carne e sotto le credenze color crema: per uccidere gli insetti, suppose. C’erano anche un paio di lavelli bassi e un fornello, chiaramente alimentato dalla grande catasta di legna impilata ordinatamente lì accanto. La stanza odorava fortemente di un misto di sudore, olio di cocco e curry, che avevano preparato per pranzo. Il primo curry di Gwen.

«Allora», disse, puntando il dito contro due grosse tinozze piene d’acqua accanto ai lavandini. «Mi serve una bacinella di acqua tiepida e qualche pezza».

I domestici la fissarono. Lei ripeté la richiesta, aggiungendo un per favore.

Nemmeno stavolta nessuno si mosse. Era ancora incerta sul da farsi, quando fece la sua comparsa l’appu. Gwen gli sorrise, pensando che lui l’avrebbe certamente aiutata; dopotutto le augurava la buonanotte tutte le sere, ed era stato molto gentile durante il loro incontro; le bastò uno sguardo al suo viso per capire che l’uomo era tutto meno che contento.

«Che succede?»

«Voglio che mi diano un po’ d’acqua per curare quest’uomo», disse lei.

L’appu si batté un dito sui denti, e poi emise uno stranissimo suono, simile a un sibilo. «Non può».

Gwen si infastidì. «Cosa significa che non posso? Sono la signora Hooper, e insisto perché tu faccia fare loro ciò che ho chiesto».

Per un momento sembrò che lui volesse tenere il punto, ma poi, come se si fosse ricordato all’improvviso quale fosse il suo ruolo, si voltò verso uno sguattero e, accigliato, mormorò qualcosa, indicando il lavello. Il ragazzo se ne andò in fretta e fu di ritorno dopo un minuto con una bacinella d’acqua e qualche straccio di mussola. Laurence aveva ragione. Alcuni domestici avevano chiaramente spadroneggiato troppo a lungo a loro piacimento. Gwen tamponò la ferita con un pezzo di tessuto e poi la disinfettò finché il bruciore non divenne insopportabile per il mendicante.

«L’infezione si è diffusa per tutto il piede», disse. «Se non viene medicato potrebbe perderlo».

L’appu fece spallucce e le lanciò uno sguardo ostile. «Ai lavoratori della fabbrica e dei campi non è consentito entrare in casa».

«Sapete cosa gli è successo?», chiese lei.

«È stato un chiodo, signora».

«Dov’è la tintura di iodio?».

Gli sguatteri guardarono l’appu, che scrollò nuovamente le spalle.

«Portatemi subito la tintura di iodio. E in fretta», disse Gwen, che avvertiva una certa tensione formarsi nelle spalle.

L’uomo si avvicinò a una credenza addossata alla parete e prese una bottiglietta. Gwen si accorse che era infastidito e risentito, mentre eseguiva i suoi ordini. Si disse che non le importava nulla di quel che pensava il cuoco, purché quell’uomo bisognoso di cure fosse soccorso.

«E le bende?», aggiunse Gwen.

Il cuoco prese delle bende e le consegnò insieme alla bottiglietta di tintura di iodio al garzone, che a sua volta passò il tutto a Gwen.

«Ha fatto tutto da solo, signora», disse il cuoco. «Uomo molto pigro. Si mette nei guai».

«Non mi interessa. Già che ci sei dagli un sacco di riso. Ha famiglia?»

«Sei figli, signora».

«Allora dagliene due».

Il cuoco aprì la bocca per protestare, ma poi parve ripensarci; fece di nuovo spallucce e ordinò al coolie di andare a prendere il riso.

Quando Gwen ebbe finito di occuparsi del piede dell’uomo, lo aiutò a rimettersi in piedi, mentre l’appu e i coolie osservavano lo spettacolo a occhi spalancati. Non fu facile far uscire l’uomo dalla porta, e le sarebbe piaciuto che qualcuno le desse una mano. Con un certo sforzo, riuscirono a uscire dalla casa e a dirigersi verso l’ombra degli alti alberi che cingevano il cortile. In cucina, nel frattempo, era scoppiata una baraonda. A testa alta, Gwen continuò a percorrere il sentiero battuto tra le piante, mentre il ferito le saltellava accanto, appoggiandosi a lei. Quando lui provò a camminare da solo e a posare il piede bendato a terra, lei scosse la testa.

La vegetazione era fitta e le radici spesso affioravano dal terreno. Gwen con un braccio sorreggeva il peso del ferito, e con l’altro scacciava via i nugoli di creature alate che le ronzavano intorno. Camminarono forse per mezzo miglio, immersi in una luce verde pastello e avvolti da un intenso profumo di foglie, terra e marciume. La loro lentezza era tale da non permetterle di quantificare quanta strada avessero percorso.

Dopo un po’, quando gli alberi si diradarono e si aprirono in una radura, Gwen sentì un vociare di bambini. Più in là sullo sterrato vide una schiera di una decina di capanne di legno con tetti di stagno, tutte addossate l’una all’altra. Era una sorta di baraccopoli. Tra gli alberi, altre schiere di capanne – alcune con tetti di stagno, altre di foglie di palma – si estendevano a perdita d’occhio, da ogni parte. Ognuna di esse aveva una fila di stanze una accanto all’altra, e gabinetti a secco che emanavano un puzzo terribile. Lucenti sari rossi, verdi e viola pendevano dai fili della biancheria, e l’immondizia svolazzava sui cumuli di terra. Degli anziani, vestiti soltanto con perizomi, stavano seduti a gambe incrociate fuori dalle loro capanne, a fumare tabacco dall’odore nauseabondo, con galline scheletriche che beccavano il terreno attorno a loro.

Uscì una donna e, vedendo Gwen, diede una voce a un uomo e richiamò in casa tre dei bambini. Gli altri circondarono Gwen, cicalando eccitati e indicando diverse parti dei suoi vestiti. Uno dei più audaci le toccò la gonna.

«Salve», disse lei, e tese la mano, ma i bambini arretrarono, improvvisamente intimiditi. Prese nota di portare delle caramelle con sé la prossima volta.

Sembravano tutti uguali, con la pelle scura e lucente, capelli neri e ondulati, corpi magri e pance gonfie. La fissavano con bellissimi profondi occhi marroni, che sembravano fuori posto sul loro viso bambino. Ce n’erano un paio che avevano l’aria malata, e tutti sembravano denutriti.

«Sono i tuoi figli?» chiese all’uomo.

Questi fece un’alzata di spalle, senza capire.

Mentre Gwen osservava un uccellino che beccava il terreno a caccia di vermi e insetti, la donna che aveva urlato poco prima le si avvicinò e si inchinò, con gli occhi bassi. Portava i capelli con la riga in mezzo, e aveva grosse narici, zigomi pronunciati e i lobi delle orecchie allungati. L’uomo le consegnò i due sacchi di riso. La donna li prese e questa volta sollevò lo sguardo su Gwen; nei suoi occhi c’era qualcosa che lei non riuscì a definire. Sembrava avversione, o forse paura. Poteva anche essere pietà, ma se lo era, sarebbe stato ancora più difficile comprendere cosa si celava in quello sguardo. Quella donna aveva così poco e Gwen, invece, aveva tutto. Perfino i gioielli tàmil erano fatti solo di in una fila di baccelli rossi. La donna si inchinò di nuovo, poi tirò la tenda lacera che copriva la facciata della capanna e scomparve all’interno. Ogni capanna era di circa tre metri per tre, mediamente più piccola dello spogliatoio di Laurence, e di notte doveva esser gelida.

In un istante, il cielo divenne rosso. Gwen sentì i grilli frinire, e al lago un coro di rane cominciò a gracidare. Lasciò il braccio dell’uomo e fece un passo indietro, poi si voltò e si mise a correre verso gli alberi, mentre la notte incombeva improvvisamente su di lei.

Era buio lungo il sentiero, con l’alta chioma degli alberi che schermava gli scarsi scampoli di luce diurna. Sentì un brivido di paura. Udiva dei suoni tra gli alberi: fruscii e stridii, rumore di passi, respiri affannosi. Laurence le aveva detto che c’erano cinghiali selvatici e si diceva attaccassero l’uomo. Si chiese cos’altro ci potesse essere. Cervi forse, serpenti sicuramente. Serpenti d’albero, serpenti d’erba. Non sembravano troppo cattivi. Ma i cobra col cappuccio? Aumentò il passo e si sentì in affanno. Laurence l’aveva avvisata, e lei non gli aveva dato retta. Ma che cosa le era venuto in mente? La respirazione le riuscì difficoltosa in quel buio soffocante, e le fu impossibile distinguere il sentiero. Doveva muoversi a tentoni, senza nessun punto di riferimento a sua disposizione, e a un certo punto inciampò, vacillò e si graffiò la fronte e un braccio contro un ruvido tronco d’albero.

Il cuore prese a batterle all’impazzata quando vide le luci sfavillanti della casa, e solo quando finalmente oltrepassò l’ultimo albero ed entrò nel cortile riuscì a respirare normalmente.

Proprio allora, mentre attraversava il cortile buio, una voce la chiamò con un tono imperioso. Non era il guardiano notturno.

Maledizione, pensò, riconoscendo l’accento scozzese. Di tutte le persone che… E sì che aveva voluto disperatamente fare una bella impressione.

«Sono io, Gwendolyn», disse, mentre raggiungeva l’uomo davanti alla porta e il suo volto veniva illuminato sotto la luce.

«Ma che diavolo stava facendo in mezzo agli alberi?»

«Mi dispiace tanto, Mr McGregor».

«Sarà anche responsabile degli affari domestici, ma penso che sappia che tutto quello che accade in questa proprietà riguarda me. Lei, signora Hooper, non deve neanche avvicinarsi agli slum. Devo dedurre che stia venendo proprio da lì?».

Spinta dal senso di ingiustizia, lei alzò la voce: «Volevo soltanto dare una mano».

Guardò le guance rubizze dell’uomo. Era un ben piazzato con i capelli rossastri, che si diradavano sulle tempie, e un collo possente che faceva il paio con le guance. Aveva i baffi di un biondo rossiccio, le labbra sottili, e gli occhi azzurri come il ghiaccio. La afferrò per il braccio graffiato piuttosto bruscamente.

«Mi sta facendo male», disse lei. «Le sarei grata se mi levasse le mani di dosso, Mr McGregor».

Lui le rivolse uno sguardo carico di antipatia. «Suo marito deve essere messo a parte di questa cosa, signora Hooper».

«Ha proprio ragione», replicò, con più compostezza di quanta non ne provasse. «Lo saprà».

Gwen non poté fare a meno di provare un grande senso di sollievo alla vista di Laurence che usciva di casa. Sorrise ma ci fu un momento di tensione mentre lui e Mr McGregor si guardavano senza dire una parola. L’attimo passò e Laurence le porse la mano. «Andiamo a darti una sistemata».

Si sentiva scossa, ma riuscì a sorridergli debolmente e prendergli la mano.

Poi si rivolse a Mr McGregor. «Dai, Nick, non è successo niente. Gwen presto imparerà come funzionano le cose».

McGregor sembrava pronto a esplodere ma non fiatò.

«Sono solo i primi giorni. Dobbiamo essere indulgenti». Poi Laurence le circondò le spalle con un braccio. «Vieni, appoggiati a me».

La corsa al buio tra gli alberi l’aveva resa vulnerabile e si rese conto di aver messo in difficoltà McGregor con Laurence. Qualcosa di quell’uomo la intimoriva, sebbene non si trattasse soltanto di lui. Anche la povertà degli slum l’aveva turbata. E pur non sentendosi ancora del tutto a suo agio con Laurence come lo era stata prima dell’episodio nella stanza da letto, si sentì profondamente felice nel sentire il suo braccio attorno alle spalle e sperò di aver occasione di parlare di quanto era successo.

Il mattino seguente, dopo aver pianificato nuovamente i turni di pulizia e aver cercato di raccapezzarsi con la contabilità di casa per più di due ore, relegò queste mansione a un angolo della mente. L’atteggiamento di McGregor le riusciva più difficile da ignorare, e il guaio era che aveva bisogno del suo aiuto per trovare dei giardinieri.

Prese in mano un piccolo disegno del suo progetto per il pergolato profumato; forse ci voleva una trama di gelsomino bianco intrecciato in un graticcio di metallo decorativo, pensò, mentre usciva dalle portefinestre.

Il lago scintillava sotto un luminoso cielo azzurro, blu scuro all’ombra ma quasi argenteo alla luce del sole, con piccole chiazze di verde. Oltrepassò l’albero di jacaranda e nell’aria sentì il profumo di boccioli sconosciuti. Un paio di gazze spiccarono il volo da un prato di erba ben più compatta di quella dei giardini inglesi, ma ben tenuta e accuratamente falciata. Voleva un posto che fosse tutto per sé, sebbene non volesse indispettire il vecchio tàmil che si occupava dei prati e delle aiuole come fossero sue. Avrebbe dovuto consultarsi con Laurence riguardo alla sistemazione dell’orto, ma per il momento poteva sempre concentrarsi sul luogo dove installare il pergolato.

Bobbins e Spew le stavano tra i piedi, come al solito. Gwen calciò forte la palla e questa andò a infilarsi tra i cespugli, non lontano da dove le gazze avevano beccato i vermi.

«Laggiù», disse lei. «Trovatela!».

Spew era quello più spavaldo, e non perdeva un’occasione per lanciasi all’inseguimento della sua adorata palla. Lo osservò strisciare sulla pancia attraverso un varco in una parte incolta del giardino.

Si sentiva nervosa. Quando era andata a cercare Laurence, si era imbattuta in Naveena che le aveva detto di averle lasciato un biglietto sulla toeletta. Da parte del padrone.

Una volta apertolo, Gwen aveva saputo dalla nota scritta nella decisa calligrafia inclinata di Laurence, che non si sarebbero visti per un altro paio di giorni. Non avevano avuto ancora occasione di parlare e ora lui era andato a Colombo a prendere Fran; inoltre doveva anche presentarsi in tribunale a Hatton in qualità di giudice di pace e di magistrato onorario. C’era stato qualche tumulto in un villaggio del luogo e pertanto era suo compito occuparsi di placare gli animi dei nativi, e individuare i veri colpevoli.

Gwen fu assalita da una forte nostalgia di casa. Rimproverò se stessa, ma non poté impedirsi di provare un forte senso di fastidio per il comportamento di Laurence. Non solo non le aveva comunicato la notizia di persona, ma le nemmeno aveva chiesto se fosse voluta andare con lui. Era pur sempre vero che suo marito aveva accennato al fatto che Colombo sarebbe stata rovente come un girone dell’inferno, con i monsoni in ritardo sulla tabella di marcia. Almeno lì, ben in alto sulle colline centrali di Dickoya, faceva ancora abbastanza fresco. E ora che contava di trascorrere il resto della giornata all’aperto, ne fu contenta.

Chiamando Spew, le tornò in mente Mr Ravasinghe. Si rese conto di aver pensato spesso al loro incontro. Si era comportato da perfetto gentiluomo, ma sotto la superficie c’era qualcos’altro che poteva essere spiegato dalla sua pelle color nocciola e dai lunghi capelli ondulati, o anche dai suoi occhi neri scintillanti.

Lo spaniel nel frattempo sembrava sparito.

Bobbins stava scavando, con il didietro all’aria, esattamente nel punto in cui Spew era scomparso inseguendo la palla, vicino a una fila di anturi, i fiori vellutati dalle foglie a forma di cuore che aveva notato la prima mattina. Gwen andò in quella direzione e accarezzò il cagnolino.

«Dov’è andato, eh, Bobbins?».

Sentì un latrato, e sbirciò dentro un piccolo buco all’ombra di un grande albero, ma la luce era troppo fioca per distinguere chiaramente qualcosa. Strappò un groviglio di una strana pianta rampicante. Quella si sbrogliò in modo sorprendentemente facile, e quando Gwen tirò con più forza, scoprì una specie di galleria invasa da erbacce tra gli alberi. Una galleria che doveva portare da qualche parte. Si creò un’apertura larga abbastanza per passarci, graffiandosi l’avambraccio con alcune lunghe spine, ma una volta entrata, riuscì quasi a stare in piedi.

«Spew, sto venendo a prenderti», disse.

La galleria faceva una curva e poi conduceva a una scalinata di pietra ricoperta di muschio. Lanciò uno sguardo alla luce proveniente dall’entrata della galleria. Pensava fosse abbastanza sicuro, anche se potevano esserci serpenti. Rimase assolutamente immobile e osservò bene il terreno; non c’era nulla a parte gli insetti, e in quello spazio angusto privo di aria non si muoveva neanche una foglia.

Proseguì, sentendo soltanto i propri passi, il ronzio delle zanzare, e Bobbins che ansimava.

In fondo a quegli scalini scivolosi arrivò a una piccolissima radura, e suppose che un tempo doveva essere stata molto più grande. Lì, i cespugli e le piante rampicanti si erano impadroniti del luogo a tal punto che c’era soltanto uno spazio per sedersi su una lastra di pietra appoggiata a un paio di ceppi d’albero. Quasi come nella tana d’infanzia che lei e Fran avevano costruito nei boschi di Owl Tree, la radura era in ombra e tutti i suoni provenienti dall’esterno erano attutiti dagli alberi. C’era una gran pace e Bobbins giaceva silenzioso ai suoi piedi. Lei annusò, riconoscendo il caprifoglio ma anche un acre odore di foglie.

La calma fu interrotta quando Spew ricomparve nella radura sempre strisciando sulla pancia, con il naso rosa ricoperto di terra e con qualcosa in bocca.

«Mollalo! Spew!» disse lei.

Il cagnolino ringhiò e rimase fermo nella sua posizione.

«Vieni qui, cattivo, e molla!».

Non obbedì.

Gwen si alzò in piedi, lo prese per il collare, e afferrò l’oggetto che aveva in bocca. Tirò e vide che era un pezzo di un giocattolo di legno. Una barchetta, pensò, una barchetta senza vela.

Il cagnolino nel frattempo aveva perso interesse nel suo ritrovamento. Scodinzolò e lasciò cadere il resto del giocattolo ai piedi di Gwen.

«Mi chiedo di chi fosse», disse lei ad alta voce, e sorrise ai cani. «Inutile chiederlo a voi due, vero?».

Entrambi i cani ritornarono al punto in cui Spew era riapparso. Gwen li seguì, pensando che, una volta ripulita, quell’area avrebbe potuto essere il posto perfetto per il suo pergolato, e per vedere più chiaramente strattonò un ramo stracarico di alcune strane bacche. Continuò a tirare la pianta rampicante e a spezzare ramoscelli. Un paio di cesoie era ciò di cui aveva bisogno, e guanti da giardinaggio.

Si accovacciò, con le mani che le pizzicavano per i tagli e i graffi. Pronta ad arrendersi, decise di ritornare più tardi, meglio equipaggiata.

Spew continuò a scavare, e poi abbaiò di nuovo. Lei avvertì l’eccitazione in quel latrato; il cane aveva trovato qualcosa. Strappò altre foglie che sporgevano e si chinò per guardare. Davanti a lei c’era una pietra piatta e verticale, ricoperta di muschio, che pendeva leggermente a sinistra. Il terreno antistante era smosso e ricoperto dai fiori della foresta. Inspirò il profumo di legno umido che sentiva attorno a sé ed esitò. Una piccola tomba, ecco quello che sembrava quel luogo. Si guardò attorno quando sentì qualcosa muoversi tra il fogliame e, incapace di trattenere la curiosità, grattò via il muschio, spezzandosi un’unghia nell’operazione.

Una volta finito, percorse con l’indice le lettere. C’era soltanto un nome, nient’altro. Soltanto Thomas Benjamin, inciso nella pietra. Nessuna data. Nessuna indicazione di chi fosse. Poteva essere un fratello di Laurence forse, oppure il figlio di un ospite, sebbene Laurence non avesse mai parlato di un bambino morto. Non le restava che chiedere a suo marito perché Thomas Benjamin fosse stato nascosto in quel posto inaccessibile, e non invece degnamente sepolto nel cimitero della chiesa. E il fatto che Laurence non ne avesse mai fatto menzione le fece pensare che probabilmente non gli sarebbe piaciuto che lei l’avesse scoperto.