Capitolo 33
Quando Laurence ritorno al Galle Face, Verity se ne era andata e Fran non si era ancora fatta viva. Gwen trascorse una notte insonne ascoltando il rumore dell’oceano e riflettendo su ciò che le aveva detto sua cognata, finché non si addormentò circa un’ora prima dell’alba.
Più tardi, quando se ne andarono dall’hotel senza Fran, Gwen fu felice di potersi rannicchiare sul sedile posteriore dell’auto, mentre McGregor e Laurence parlavano di affari. Voleva dormire e dimenticare, ma a circa un chilometro dall’hotel, qualcosa pareva aver bloccato il traffico. I risciò riuscivano in qualche modo a passare, ma le macchine erano tutte ferme.
«Che diavolo…», disse McGregor abbassano il finestrino della parte del conducente.
All’esterno risuonavano grida e fischi, nell’aria c’erano i soliti odori e suoni della strada. Non sembrava nulla di particolare, solo un gruppetto di persone che cantava. I negozi erano ancora aperti e i pedoni continuavano a fare shopping.
«Riesce a vedere qualcosa?», chiese Gwen.
McGregor scosse il capo.
Ma quando Laurence aprì la portiera dal lato del passeggero il rumore li investì in pieno.
«È più grave di quanto pensassi. Sembra una specie di manifestazione. Vado a dare un’occhiata. Nick, tu resta in macchina. Potrebbe essere necessario spostarla».
«Oh, Laurence», disse Gwen. «Come fai ad andartene così? E se finissi nei guai?»
Lui scrollò le spalle. «Non mi succederà niente».
Gwen e McGregor rimasero ad aspettare. Gwen si sentiva soffocare, chiusa in quella macchina con tutti i pensieri che le turbinavano nella mente, perciò chiese a McGregor di aprire la portiera per andare a cercare Laurence. McGregor si rifiutò e il suo tamburellare con le dita sul volante non fece che aumentare il senso di claustrofobia di Gwen. Mentre il rumore si intensificava Gwen sentì il rombo di alcuni tamburi arrivare da qualche parte dietro la macchina. Si voltò e vide un altro gruppo di persone che urlava slogan marciando lungo la strada. Tornò a guardare davanti nella speranza di vedere Laurence, invece notò che il primo gruppo si era voltato e adesso procedeva in direzione dell’auto, brandendo dei bastoni. Fu scioccata nel vedere alunni delle scuole, vestiti con la divisa bianca, sciamare alle spalle della folla. Con il cuore che le batteva all’impazzata si rannicchiò sul sedile. La macchina adesso era intrappolata tra i due gruppi.
«Si assicuri che il finestrino sia tirato su», disse McGregor mentre un uomo batteva ridendo una mano sul cofano della macchina. «Presto. Non ce l’hanno con noi, almeno credo, ma dobbiamo cercare di non farci colpire dal fuoco incrociato».
«E Laurence?»
«Starà bene».
Adesso erano davvero intrappolati dentro la macchina e non potevano fare altro che restare a guardare mentre i due gruppi si fronteggiavano proprio alle loro spalle. Gwen sentì rumore di vetri infranti e si voltò a guardare dal finestrino posteriore.
«Mio Dio, stanno tirando delle bottiglie. Spero che non colpiscano i bambini».
Pietre e pezzi di cemento cominciarono a volare in aria. Un paio di donne urlarono, poi qualcuno parlò in un megafono. Ci fu un bagliore, poi un altro, e i negozianti si affrettarono ad abbassare le saracinesche mentre la gente si sparpagliava lungo i vicoli e le strade laterali, chiamandosi l’un l’altro. Il fumo riempì l’aria come se qualcuno avesse acceso un falò in mezzo alla strada.
Gwen sentì la tensione accumularsi nel collo e nelle spalle. «Ho paura per Laurence».
«Si sarà messo al riparo».
Mentre tentava di sbirciare fuori dal finestrino per individuare Laurence, tre uomini si avvicinarono alla macchina e si appoggiarono con tutto il peso sulla fiancata, facendo dondolare il veicolo.
Gwen riusciva a malapena a parlare, ma tentò di ricacciare indietro la sua paura. «McGregor!».
«Li ammazzo quegli stronzi bastardi! Stanno tentando di ribaltarci».
Scioccata dal linguaggio del sorvegliante, Gwen lo vide tirare fuori una pistola e puntarla contro i tre uomini. Uno di questi trascinò via gli altri due e si unì alla folla che continuava a passare accanto a loro. Finalmente il tratto di strada di fronte alla macchina si liberò un po’ e McGregor riuscì ad avanzare lentamente. C’erano alcune persone rannicchiate per terra, alcune coperte di tagli e lividi, ma la situazione alle loro spalle stava peggiorando di minuto in minuto.
«Dov’è la polizia, per l’amor del cielo!», disse Gwen.
Continuava a scrutare la strada in cerca di Laurence, ma solo quando ebbero raggiunto la scuola da dove era partito il tumulto lo videro in piedi sulla soglia di una casa, chino su una donna che pareva ferita. Quando si avvicinarono Gwen notò che la donna sanguinava da una ferita sulla fronte. Abbassò il finestrino e prese a gesticolare freneticamente. Laurence si avvicinò, tirando la donna per un gomito. Nel frattempo era arrivata la polizia a cavallo e stava minacciando la folla con i manganelli. Gwen tirò un sospiro di sollievo quando vide che gli studenti erano stati riportati dentro la scuola.
Mentre Laurence aiutava la donna ad accomodarsi sul sedile posteriore dell’auto, si udì risuonare uno sparo.
«Portaci via di qui, Nick», disse. «Gwen, hai qualcosa per fermare il sangue?».
Gwen strinse la mano della donna. «Ho questo», disse usando il suo scialle per tamponare la ferita.
La donna si lamentò e la fissò negli occhi. «Sono un’insegnante. Doveva essere una protesta pacifica».
Laurence chiese a McGregor di portare la donna all’ospedale, poi si rivolse a Gwen. «L’oggetto del contendere è quale deve esser la lingua ufficiale da usare in classe».
«Davvero?»
«I tàmil più istruiti in genere ottengono i migliori posti di funzionari governativi, e i singalesi non lo trovano giusto. Vogliono che sia il singalese la lingua principale».
Gwen era così agitata che ormai le era impossibile nasconderlo. Prima Verity, adesso questo. «Perché?», chiese. «Perché tutta questa violenza? È così importante?».
L’insegnante singalese la guardò. «Quando otterremo l’indipendenza da voi, la lingua che si insegna a scuola sarà fondamentale».
«Non si possono insegnare entrambe?».
La donna scosse la testa.
«Be’, qualunque lingua si scelga, spero che si possa fare senza spargimenti di sangue».
La donna sbuffò. «Questo non è nulla. Quelli come voi, che non hanno mai dovuto combattere per ottenere nulla, non hanno idea di cosa significhi tutto questo».
Quando arrivarono a casa, Laurence disse che alla luce dei tumulti aveva delle lettere urgenti da scrivere e per non disturbare Gwen le disse che avrebbe dormito in camera sua. Dopo una notte popolata da vividi incubi causati dalla minaccia di Verity, Gwen si ritrovò seduta al tavolo da toletta a guardare il proprio riflesso. Aveva i capelli spettinati, niente rossetto né cipria, ed era molto pallida. Prese la spazzole e cominciò a districare furiosamente la chioma, poi si passò un po’ di cipria sulle guance. I capelli scuri adesso assomigliavano a una criniera e la cipria aveva uno strano effetto a contrasto con il pallore della pelle. Se la tolse e legò i capelli in una treccia, poi prese a strofinarsi le guance, sperando di liberarsi della paura. Quella donna si sbagliava. Forse non aveva dovuto combattere per ottenere quell’esistenza privilegiata, ma aveva dovuto lottare per proteggerla e adesso che Verity conosceva la verità su Liyoni, si trovava a fronteggiare la più grave minaccia della sua vita.
Tirò fuori la scatola in cui aveva nascosto i disegni, ma quando andò a cercare la chiave, che teneva in un altro posto, non la trovò. Scosse la scatola. Non c’era niente all’interno. Aprì uno dopo l’altro tutti i cassetti, tirandone fuori il contenuto e lasciandolo cadere a terra, finché il pavimento non fu ingombro di spille, pettini e lettere. Poi cercò sulla scrivania, sui comodini e in diverse borse. Non che importasse molto adesso, ma Verity doveva essersi tenuta la chiave. Ricacciando indietro le lacrime, Gwen avvinghiò le mani ai braccioli della poltrona e si sentì così profanata nella privacy da desiderare di aver davvero buttato Verity giù per le scale.
Il giorno successivo Fran le telefonò. Si scusò per non essere tornata a casa insieme a loro e le assicurò che era già in viaggio. Non le diede molte spiegazioni, accennò solo a “un imprevisto”. “Tipico di Fran”, pensò Gwen. Sua cugina le aveva detto anche di avere una grossa sorpresa per tutti e Gwen pregò che non stesse arrivando insieme a Savi Ravasinghe.
Mentre Laurence era al piano di sotto, immerso nella lettura degli articoli di giornale sui tumulti, Gwen si recò in punta di piedi nelle sua stanza. Sapeva di lui, di sapone e limone. Accese la luce e si voltò tristemente a controllare se la fotografia di Caroline fosse ancora sulla scrivania. Non c’era, ma Gwen aveva l’impressione che Caroline fosse ovunque, come se fosse uscita di scena e poi avesse mancato il segnale per tornare sul palco.
Aprì il grosso armadio di mogano di Laurence e tastò la fila di abiti che vi era appesa. Pantaloni, giacche, completi da sera, camicie. Prese una delle sue camicie bianche inamidate e la tirò fuori. Ma non odorava di lui, perciò Gwen aprì un cassetto e prese invece una sciarpa di seta blu su cui c’era ancora qualche suo capello. L’annusò. Meglio. Se era costretta a dire a Laurence la verità, voleva avere qualcosa di suo da tenere con sé nelle notti a venire.
La luce tremolò e si spense. Gwen si infilò in tasca la sciarpa e ritrovò la porta grazie alla luce lasciata accesa in corridoio. Poi scese al piano di sotto passando la mano sulla ringhiera di legno lucido.
Giunta alla svolta delle scale, non poté evitare di vedere la sedia a rotelle di Liyoni nell’ingresso. L’aveva accolta con un misto di incredulità e senso di colpa e non vi si era mai avvicinata. Non poteva sopportare il pensiero del corpicino della bambina spezzato dalla malattia, e continuava a pregare per un miracolo.
Inquieta, Gwen non riusciva a restare a lungo nello stesso posto, perciò raggiunse Laurence. Era tutto così confuso. Non vedeva l’ora di vedere Fran, ma non sapeva se quella storia riguardo al pittore e a sua cugina fosse vera. Prese una rivista dal tavolinetto. Era un fine settimana, e Laurence era ancora immerso nella lettura del giornale, incurante di Hugh che tentava di attirare la sua attenzione.
Gwen lo apostrofò un po’ irritata. «Laurence, perché non fai qualcosa con Hugh? Potreste costruire il suo modellino di aeroplano o qualcosa del genere».
Lui alzò lo sguardo dal giornale. «A Colombo c’è stata una vera e propria rivolta. Sono morte delle persone. Spero che non sia l’inizio di una catastrofe».
Gwen chiuse gli occhi al ricordo delle scene viste a Colombo. Era stato terribile, ma in quel momento aveva altre preoccupazioni.
«Passando a cose più piacevoli, a breve vedremo la nostra pubblicità sui giornali».
«L’aeroplano, Laurence. Devo sempre essere io a dirti queste cose? Hugh si annoia, non lo vedi?».
Hugh aveva già tre modellini pressofusi di aeroplani Hubley, ma quando erano stati a New York Laurence gliene aveva comprato un quarto, insieme a un altro in acciaio. Gwen sapeva che lui e Hugh stavano cercando di farne una copia in legno di balsa, più facile da lavorare.
Laurence ripiegò il giornale. «Sei parecchio nervosa, Gwen. C’è qualcosa che non va? Se è per il tumulto…».
«No», sbottò lei. «Mi basta che ti porti Hugh a fare qualcosa. Sono solo eccitata all’idea di rivedere Fran».
Lui la guardò e annuì, ma Gwen vide chiaramente che non le credeva. «Molto bene», disse. «Se sei sicura. Vieni, Hugh, andiamocene nel guardaroba, vecchio mio».
Gwen riuscì ad abbozzare un mezzo sorriso.
Dopo che Laurence se ne fu andato, continuò a sfogliare una rivista dopo l’altra, ma non riusciva a concentrarsi sulle parole. Non sapendo cosa fare per ingannare il tempo, Gwen decise di esaminare la sedia a rotelle. Più la ignorava, più il fantasma che rappresentava si faceva terribile. Tornò nell’ingresso e passò la mano sui braccioli in pelle, toccò il poggiatesta e provò il sistema di frenaggio. Il pensiero di cosa avrebbe detto Laurence se Fran aveva davvero sposato Savi Rvasinghe fece migrare dalle spalle alle tempie la tensione che aveva accumulato durante il tumulto. Ruotò il collo per allievarla, ma aveva la sensazione di essere seduta sopra un vulcano che poteva eruttare in qualsiasi momento, lasciandosi alle spalle le macerie della sua famiglia.
I suoi pensieri furono interrotti dal campanello della porta e, dal momento che si trovava già nell’ingresso, andò ad aprire e in piedi davanti alla soglia di casa trovò Fran, che aveva in mano una piccola valigia. Indossava uno splendido cappotto a falde larghe, di una specie di stoffa che assomigliava a tappezzeria, e un cappello rosso, ma non aveva i guanti. Gwen le guardò la mano. Un diamante circondato da zaffiri e un cerchietto d’oro. Verity le aveva detto la verità.
Gwen non poteva fingere di essere sorpresa e guardò la cugina, notando che l’espressione del suo viso era cambiata. In qualche modo sembrava più dolce, come se l’amore avesse smussato gli angoli.
Il sorriso di Fran vacillò. «Quella stronza te l’ha detto, vero?».
Gwen annuì.
«Le avevo chiesto di non farlo. Volevo dirtelo di persona».
Gwen inclinò il capo e scrutò il volto di Fran. «Già, perché lettere, telefoni e telegrammi non esistono qui a Ceylon!».
«Scusami».
«Senti, Fran, sono solo confusa. Perché non me l’hai detto prima di farlo?».
«Ero sicura che non avresti approvato. E non potevo sopportare di sentire un tono di rimprovero nella tua voce in un momento in cui ero così felice».
Gwen spalancò le braccia. «Vieni qui».
Dopo che si furono abbracciate, Gwen tenne le mani sulle spalle di sua cugina. «Sei felice?»
«In paradiso».
«E non ti importa di…». Esitò, non sapendo bene cosa voleva dire. «Non ti importa…».
«Del suo passato turbolento. Certo che no. Siamo nell’era moderna, ricorda. E in ogni caso anche io ho avuto le mie esperienze, e puoi anche toglierti quell’espressione scioccata dalla faccia, Gwendolyn Hooper. Io e Savi siamo perfetti l’uno per l’altra».
Gwen sorrise. «Oh, Fran, mi sei mancata così tanto». Si guardò intorno. «Ma a proposito, dov’è?».
«A Nuwara. «Volevo prima vedere come l’avrebbe presa Laurence».
Seguì una pausa di silenzio.
«E non sei preoccupata che Savi possa essere attratto da altre?»
«Assolutamente no. Entrambi abbiamo un passato vivace alle spalle, ma adesso vogliamo stare insieme».
«Christina lo sa?».
Fran sorrise. «A Christina non interessa Savi».
«Lo so. Adesso ha un tipo musicista, ma è Laurence che vuole veramente. Sai che anche lei è in affari con noi?»
«Sì, l’ho vista a New York alla mostra di Savi».
Proseguirono lungo il corridoio fino alla stanza in fondo. Gwen spalancò la porta.
Fran posò il cappotto multicolore sul letto e si guardò intorno. «Fresie fresche. Mmm! E finestre su entrambi i lati. Adorabile».
«Puoi vedere sia il lago che il giardino».
Gwen si interruppe, si avvicinò alla credenza e tirò fuori qualcosa che poi porse a Fran.
Lei sorrise, prese il braccialetto e se lo mise subito al polso. «Sei un tesoro. Potrei quasi baciarti. Dove l’hai trovato? Di sicuro dietro al divano».
Gwen inarcò le sopracciglia e scrollò le spalle. «Che tu ci creda o no, era in un negozio a Colombo. Non posso dimostrarlo, ma credo che l’avesse preso Verity».
«Ma perché?»
«Non lo so. Forse per le emergenze. Chi lo sa perché Verity fa quello che fa?»
«Be’, non importa. Sono solo felice di riaverlo. Grazie. Grazie. Ma perché tu non sei venuta alla mostra di Savi?»
«Avevo mal di testa».
«Lui pensa che volessi evitarlo. Ti ha fatto qualcosa di male Gwennie?».
Gwen deglutì e si avvicinò alla finestra per appoggiarsi al davanzale, evitando di rispondere.
Più tardi, quella stessa mattina, era arrivato un pacco per Laurence che era rimasto sul tavolo dell’ingresso, accanto alle piante ornamentali, in attesa che lo esaminasse. Gwen pensò che non l’avesse visto, perciò lo prese e le parve di notare sopra dei francobolli inglesi, anche se il pesante timbro dell’ufficio postale di Colombo e quelli di tutti gli altri posti da cui era transitato il pacco rendevano difficile esserne sicuri. Incuriosita, lo portò in salotto e lo porse a Laurence.
Lui si alzò dalla poltrona, ricevette il pacchetto con un cenno del capo e si avviò verso la porta.
«Che cos’è, Laurence? È parecchio pesante».
Lui si voltò a guardarla, ma continuò a camminare. «Devo ancora aprirlo».
«Ma sai chi può avertelo mandato?»
«Non ne ho idea».
«Perché non lo apri adesso?».
Lui tossì. «Gwen, adesso sono occupato. Devo andare alla fabbrica. Probabilmente è qualcosa che riguarda il tè».
Forse era stato il suo tono di voce brusco, ma all’improvviso Gwen non riuscì più a sopportare di tacere. «Perché non mi hai detto che Christina era ancora innamorata di te?».
Lui si accigliò, con una mano già sulla maniglia della porta. Il silenzio durò solo un istante, ma sembrò molto di più.
«Gwen, amore mio. Te l’ho detto un sacco di volte. Le cose tra me e Christina sono finite molto tempo fa».
Lei si mordicchiò l’interno della guancia mentre Laurence se ne andava, poi rimase a fissare la superficie metallica del lago sentendosi ferita. Avrebbe voluto una rassicurazione maggiore di quella.
Fran non si fece vedere per pranzo e, quando Hugh andò a fare il riposino, Gwen disse a Laurence del matrimonio di Fran con Savi Ravasinghe. Lui prese la notizia meglio di come lei aveva sperato, ma parve lo stesso preoccupato. A Gwen non importava che Savi non fosse un ospite gradito in casa loro, anzi preferiva che le cose rimanessero così. Fran le aveva detto che il suo spazioso appartamento di Cinnamon Garden, a Colombo, era circondato dagli alberi e che era lì che aveva soggiornato durante il suo primo viaggio a Ceylon, nel 1925. Da allora si erano presi e lasciati varie volte, e avevano frequentato altre persone negli intervalli. Anche se avrebbe adorato l’idea che Fran venisse a vivere a Ceylon, Gwen non poteva evitare di pensare che sarebbe stato meglio se fossero stati più lontano possibile da lì.
Era sdraiata sul letto, immersa in questi pensieri, quando Naveena fece entrare Liyoni sulla sedia a rotelle. Era diventata un’abitudine della vecchia ayahi quella di portarle la bambina quando il resto dei domestici stava riposando. La sollevò dalla sedia e la sdraiò sul letto accanto a Gwen, poi uscì dalla stanza. Avevano solo una preziosissima ora ogni giorno e Gwen ne faceva tesoro.
Cominciò a leggere una favola a Liyoni. Piano piano le stava leggendo tutte quelle che avevano in casa e anche se la bambina parlava poco, capiva quasi tutto. Quando Gwen prese il libro di Andersen che Verity una volta aveva suggerito per Hugh, Liyoni le chiese di metterlo via.
«Mi piace quando dici le favole, signora».
«C’era una volta», cominciò Gwen, frugando nella mente alla ricerca della favola del giorno. «Una matrigna cattiva».
La bimba ridacchiò e si avvicinò. Gwen scostò i capelli dal viso di sua figlia e la guardò negli occhi. Deglutì e riprese a raccontare.
Di solito Gwen chiudeva a chiave la porta e si assicurava che la bambina non si addormentasse. Ma quel giorno era così stanca per lo stress provocato dalla minaccia di Verity che non se ne era ricordata. Stava giusto pensando di alzarsi e andarla a chiudere quando Liyoni si addormentò e poco dopo anche lei si assopì.
Si svegliò quando sentì bussare alla porta e prima che potesse rispondere, Fran entrò. Si fermò appena oltre la soglia, con aria sorpresa.
Gwen la fissò.
«Gwennie, quella che dorme accanto a te non è la parente dell’ayah, quella che è ammalata?».
La voce di sua cugina suonava un po’ imbarazzata e Gwen, lottando contro i propri sentimenti, sentì gli occhi inumidirsi, ma rimase in silenzio. Non era in grado di mentire a Fran.
Sua cugina si avvicinò e scrutò la ragazzina con aria confusa. «È bellissima».
Gwen annuì.
Fran si sedette sul bordo del letto e voltò per guardare Gwen in faccia. «Che sta succedendo, cara? Perché non mi dici cosa c’è che non va?».
Gwen sentì un groppo in gola e chinò il capo, restando immobile a contemplare la coperta di satin, finché non si fece sfocata e confusa.
«È una cosa così terribile?».
Ci fu un attimo di silenzio, che si prolungò un po’ troppo.
«Ti dirò tutto», disse infine Gwen alzando lo sguardo e portandosi le ginocchia al petto. «Ma mi devi promettere di non farne parola con nessuno».
Fran annuì.
«Liyoni non è una parente di Naveena».
Per un istante Gwen lottò contro se stessa, poi l’impulso di liberarsi completamente di quel segreto prese il sopravvento e le parole fluirono quasi da sole.
«È mia figlia».
Fran la fissò negli occhi. «Quando ho visto quanto era bella credo di aver sospettato qualcosa. Ma, Gwen, chi è il padre? Non può essere Laurence».
Gwen scosse il capo. «No, ma lei è la gemella di Hugh».
«Come, cara?».
Gwen sentì un groppo in gola.
«Non capisco».
«Non posso dirtelo. L’avrei fatto, ma…».
Fran spalancò gli occhi con un’espressione sconcertata in volto. «Oh, mio Dio. Dimmi che non è di Savi. Dimmi che non è questo il tuo segreto».
Gwen si morse il labbro e vide Fran impallidire e passarsi una mano sulla fronte, in preda allo shock.
«Non posso crederci».
Si guardarono negli occhi e quando Gwen vide un rimprovero nello sguardo di Fran disse con voce rotta: «Non è come credi».
«Lui lo sa?»
«Certo che no. Ti prego, Fran, è stato prima che iniziaste a frequentarvi».
Fran scosse la testa, incredula. «E Laurence?».
Gli occhi di Gwen si riempirono di lacrime. «Quanto vorrei non averti detto nulla. Non so come è successo. So che sembra ridicolo, ma non me lo ricordo».
Fran si accigliò e prese a camminare avanti e indietro nella stanza, torcendosi le mani. Ci fu una lunga pausa durante la quale nessuna delle due parlò.
«Fran? So che sei arrabbiata, ma ti prego, di’ qualcosa».
«Non posso crederci».
«Neanche io riesco a crederci». Gwen chinò il capo per un momento, poi guardò Fran. «Successe al ballo, quello in cui ci scatenammo con il charleston. Io ero terribilmente ubriaca. Savi mi aiutò a tornare in camera e ricordo che rimase un po’ con me, ma non so cosa fece dopo».
Fran si portò una mano al petto e si bloccò all’istante, con il volto rigido. «Gesù, Gwen, Savi non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Ti rendi conto di cosa lo stai accusando?»
«Mi dispiace».
Fran socchiuse gli occhi e arrossì, mentre si avviava verso la porta. «Ti sbagli. Ti sbagli di grosso. Savi non farebbe mai una cosa del genere».
Gwen le tese una mano. «Non andare. Ti prego, non andare».
«Come faccio a rimanere? Stai parlando di mio marito! Come hai potuto?»
«Ho bisogno di te».
Fran scosse la testa e rimase in piedi sulla soglia.
«Non so nemmeno se è possibile che ci siano due padri».
Seguì una lunga pausa di silenzio.
«È possibile», disse Fran a voce bassa.
«Cosa?»
«Ho letto qualcosa del genere».
Gwen alzò lo sguardo.
«C’è stato il caso di una donna che ha avuto dei gemelli da due padri diversi, da qualche parte nelle Indie Occidentali o in Africa. Era su tutti i giornali».
Gwen chinò il capo e le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance, ma le pareva di aver sentito la voce di sua cugina addolcirsi un po’.
«Ci hai parlato? All’epoca, intendo. Non volevi sapere cosa fosse successo?».
Gwen alzò lo sguardo. «All’epoca pensavo che non fosse successo nulla. L’ho capito solo quando sono nati i gemelli e ho visto che Liyoni era scura. Dovevo decidere subito cosa farne. Come facevo ad affrontare Savi dopo tutto quel tempo?»
«Io l’avrei fatto».
«Io non sono come te».
«Quindi per tutti questi anni hai solo presunto che un uomo per bene abbia fato una cosa così terribile, quando invece dev’esserci un’altra spiegazione».
«Avevo nascosto la bambina. Che differenza poteva fare? Probabilmente avrei solo peggiorato le cose. Se ne avessi parlato a Savi, lui avrebbe potuto dirlo a Christina e Laurence l’avrebbe saputo subito».
«Ma almeno ti saresti data pace».
«Lui avrebbe anche potuto mentirmi».
Fran fece una smorfia d’ira. «Così adesso è anche un bugiardo?».
Gwen rabbrividì e chinò il capo per un istante. «Mi dispiace».
Fran si riavvicinò a Gwen, sempre torcendosi le mani e con le lacrime agli occhi. «Senti, io conosco Savi. Non è il tipo di uomo che abusa di donne ubriache o prive di sensi. Ha avuto le sue storielle, ma ha dei principi morali. È pur sempre un gentiluomo e uno splendido amante».
Gwen aprì la bocca.
Fran sollevò una mano. «Ascoltami. So che il suo codice morale è un po’ diverso dal tuo, ma comunque ne ha uno. E in ogni caso quella sera, la sera del ballo, ho passato metà della nottata a parlare con lui, Gwennie, dopo che tu eri andata a letto. Credi davvero che avrebbe passato tutto quel tempo con me dopo averti fatto una cosa del genere? No. Credimi, non può essere stato Savi. È un uomo sensibile nei confronti delle donne, per questo piace a tutte».
«E quindi?»
«Be’, eliminando Savi, e credimi Gwen, è il caso di farlo, dobbiamo capire cosa sia successo».
Liyoni tossì e Gwen si portò un dito alle labbra. «Non svegliarla».
Fran continuò a parlare a bassa voce. «Dev’esserci qualche persona di colore nell’albero genealogico della famiglia. È l’unica spiegazione».
Gwen sentì il cuore sussultare e fece una risatina nervosa. «Lo credi davvero? È possibile?»
«Sì, da qualche parte è successo, qualche volta».
«Ho trovato un articolo su una rivista a New York che parlava di figli nati da schiave nere e proprietari bianchi delle piantagioni americane».
«Credo che possa saltare una o due generazioni. La gente non ne parla e non vuole ammetterlo. Gli inglesi fanno di tutto per rifarsi ai loro antenati continentali e spesso nascondono la persona in questione».
«Oh, Fran, quanto vorrei che avessi ragione, ma hai visto Laurence e Verity. Non c’è alcuna traccia di qualcosa del genere in loro e, se ci fosse, ne avrei sentito parlare».
«Forse… vorrei che me ne avessi parlato prima, o almeno che l’avessi detto a qualcuno».
«Tutti avrebbero pensato a un amante, come hai fatto tu. E nessuno avrebbe accettato la bambina».
«Sono saltata alle conclusioni sbagliate, perdonami».
«Esatto, e l’avrebbe fatto chiunque. Laurence sarebbe stato distrutto al pensiero che io fossi stata con un altro, specialmente così poco tempo dopo il nostro matrimonio».
«Ma nonostante questo, la risposta dev’essere nel loro sangue. Sappiamo entrambe che nella nostra famiglia non c’è nulla che possa spiegare una cosa del genere».
Gwen sbuffò e singhiozzò. «Davvero lo sappiamo?».
Fran inclinò il capo e assunse un’espressione pensierosa. «Quando tornerò in Inghilterra farò di tutto per scoprirlo».
Gwen scrutò il volto della cugina in cerca di una traccia di dubbio. «Ma credi ancora che si tratti della famiglia di Laurence?».
«Non lo so. So solo che devi parlare con lui».
«No. Non senza prove. Penserebbe subito a un amante, l’abbiamo già detto. Non mi perdonerebbe mai».
«Non riponi molta fiducia nel suo amore, vero?».
Gwen rifletté. «Lui mi ama. È solo che qui le cose sono quello che sono. La vergogna, lo scandalo. Sarebbe la fine della nostra famiglia. Lo perderei, perderei la mia casa e mio figlio».
Deglutì, e Fran si avvicinò per abbracciarla.
«C’è un’altra cosa».
«Una cosa per volta».
Gwen singhiozzò e ricacciò indietro le lacrime. «Verity ha capito tutto e ha minacciato di dirlo a Laurence se non lo convincerò a restituirle la sua rendita».
«Buon Dio, ma questo è un ricatto. È quello che ha sempre voluto. Se acconsenti, poi ti chiederà sempre di più. Non finirà mai, Gwennie. Vivrai nel terrore di quella maledetta donna per il resto della tua vita». Fran si alzò e andò ad aprire la finestra. «Signore, mi serve un po’ di aria fresca».
«Ha cominciato a piovere?»
«C’è solo vento. Ma te ne stai rinchiusa qui da troppo tempo. Sei pallidissima. L’aria fresca farà bene a entrambe. Prova a distrarti un attimo. Facciamo qualcosa. Una passeggiata. Io, te, Hugh e sua sorella sulla sedia. Immagino che Hugh e Liyoni non sappiano nulla».
La ragazzina ricominciò a tossire e questa volta si vegliò. Gwen le mormorò qualche parola e le sentì la fronte, pensando a ciò che aveva detto Fran. Sua cugina aveva ragione, l’unica cosa che poteva fare era parlare con Laurence prima di Verity. Ma pensare di farlo senza avere neanche uno straccio di prova le toglieva il respiro.
Qualche giorno più tardi, mentre stavano finendo la colazione, arrivò la prima confezione di tè. Laurence aprì il pacchetto e lo mostrò a tutti. Era ancora meglio del disegno che avevano visto.
«Mi pare che l’opera di tuo marito sia venuta proprio bene sulle confezioni», disse guardando Fran. «Spero di vederlo presto a cena da noi».
Il cuore di Gwen fece un sussultò e lei lanciò un’occhiata sorpresa a Fran.
«Grazie, Laurence. È molto gentile da parte tua. So…».
Laurence alzò una mano. «Sarò felice di accogliere Mr Ravasinghe in casa nostra. E mi dispiace non aver visto la sua mostra a New York. Faremo in modo di vedere la prossima, ovunque si terrà, vero, Gwen?».
Lei riuscì a sorridere, ma si sentiva confusa. Come mai l’atteggiamento di Laurence nei confronti di Savi era cambiato così inaspettatamente?
Dopo colazione Laurence suggerì di fare una passeggiata prima che arrivasse la pioggia. «Ci vediamo qui davanti».
Per prima cosa Gwen si preparò, poi andò alla nursery e trovò Liyoni seduta sul letto intenta a disegnare una cascata.
«Non riesce a disegnare per tanto tempo», disse Naveena, «ma è stata a guardare il lago per dieci minuti».
«Bene. Puoi aiutarmi a spostarla sulla sedia? Ha bisogno di prendere un po’ di aria fresca prima che piova».
«Vuole vedere la cascata».
Da quando Hugh gliel’aveva nominata, Liyoni non vedeva l’ora di andarci.
«Temo che sia fuori discussione».
Quando Liyoni fu sulla sedia, con una coperta avvolta intorno alle gambe, Gwen si accinse a spingerla fuori. Poi udì il rumore di una macchina che se ne andava e guardò fuori dalla finestra. Il suo cuore sussultò. Verity. Era venuta in anticipo per concretizzare la sua minaccia. Gwen continuò a guardare e vide Laurence camminare avanti e indietro nella veranda, passandosi le dita tra i capelli. Sentì i palmi delle mani cominciare a sudare. Poi fu colta da una strana sensazione e pensò che in fondo, se davvero fosse finita, almeno non avrebbe più dovuto mentire.
Laurence si accigliò quando la vide arrivare e le parlò bruscamente. «Lascia la bambina qui in veranda. Naveena può riportarla dentro. Saliamo sulla collina».
Non parlarono per tutto il tragitto fino alla cima. Quando arrivarono e si voltarono a guardare alle spalle, Gwen si sentì mozzare il fiato, proprio come era successo la prima volta che aveva guardato da lì la piantagione e tutte le volte successive. Tutto pareva scintillare. Inspirò l’aria profumata e contemplò il verde luminoso delle colline della piantagione, ancora più estese di una volta. Guardò la casa a forma di L, con la parte posteriore che correva parallela al lago, la dépendance sulla destra e sul lato opposto il cortile e il sentiero che scompariva dietro una parete di alti alberi.
«Ho visto Verity», disse infine Gwen.
Laurence non rispose, limitandosi ad annuire.
«Cosa voleva?»
«La sua rendita, ovviamente».
«Laurence, io…».
«Se non ti dispiace», la interruppe, «preferirei non parlare di mia sorella».
Seguì un momento di silenzio. Gwen fece un profondo respiro e tornò ad ammirare il panorama.
«È bellissimo, non è vero?», disse Laurence. «Il posto più pacifico del mondo. Ma tu sei felice, Gwendolyn?»
«Felice?»
«Voglio dire, con McGregor che amministra tutto e io che sono spesso a Colombo».
«Certo che sono felice».
«Ma c’è qualcosa che ti turba, non è vero? È come se non ti riconoscessi più».
Gwen emise un sospiro che rivelò tutta la sua stanchezza. Forse quella era l’unica occasione che aveva per dirgli la verità, ma quando si voltò a guardarlo, la sua espressione così triste la devastò. Verity gli aveva parlato, certo, ma Gwen non sapeva cosa gli avesse detto.
«Non si tratta di Christina, vero?», le chiese lui, attirandola dolcemente a sé. «Davvero non ce n’è motivo».
Lei lo guardò con gli occhi lucidi mentre le passava le mani tra i capelli e la fissava, tenendole un braccio intorno alla vita.
«Cara, in realtà…».
Gwen lo interruppe. «A New York mi ha detto che era tutto finito ancora prima che arrivassi».
«Proprio come ti ho detto anche io».
«E io le ho creduto, ma lei continua a volerti, vero? Anche allora».
«Quando?»
«Sempre a New York. Non è di questo che avete parlato al telefono?».
Lui assunse un’espressione confusa. «Al telefono?»
«Poco prima di andare a dormire, l’ultima sera».
«Cara, non era Christina al telefono. Era Verity».
Lei si ritrasse leggermente e lo fissò. «Christina mi ha detto che sperava di poter essere la tua amante anche dopo il nostro matrimonio».
Lui fece una smorfia. «È sempre stato fuori discussione. So che ha tentato di dare l’impressione che ci fosse ancora qualcosa tra noi e le piace provocare, ma ti giuro che non ha avuto alcuna possibilità da quando ti ho sposata».
Gwen sentì le lacrime bruciarle le palpebre.
«È per questo che dopo il matrimonio ti ho portata prima qui a Ceylon. Per chiudere quella storia».
«Quindi il lavoro non c’entrava?»
«Tesoro, Christina mi è stata molto vicina dopo Caroline. Io ero distrutto. Lei mi ha tirato su. Le dovevo almeno un addio».
«Non l’hai mai amata».
«Le ho voluto molto bene, ma quello non era amore».
«E allora perché non volevi fare l’amore con me quando sono arrivata? Se eri già stato con lei…».
«Perché invece di te ero innamorato e avevo paura».
«Di cosa?»
«Avevo perso Caroline. Pensavo di non meritare una seconda occasione. Credo di aver avuto paura di perdere anche te».
Gwen si asciugò le lacrime di sollievo che le scorrevano lungo le guance e si massaggiò le tempie, dietro le quali si preparava un altro mal di testa. Era il momento. Il suo turno. Lui allungò una mano per asciugarle le lacrime. Gwen gliela afferrò e aprì la bocca per parlare, ma poi esitò e in quel momento, in quella frazione di secondo sufficiente a cambiare un’intera vita, seppe che non poteva farlo.
Ogni cosa intorno a loro era immersa nel silenzio, fatta eccezione per il verso di un vecchio corvo. Delusa dalla propria codardia, Gwen annusò l’odore dei tronchi d’albero e tentò di pensare. Non poteva aprire bocca e far crollare tutto. Lui si era fidato di lei, le aveva confidato i suoi sentimenti più nascosti, le paure, i bisogni, il dolore. Poi le venne in mente un’altra cosa.
«Perché hai cambiato opinione sul fatto di invitare qui Savi?».
Laurence prese un profondo respiro. «Forse mi sono sbagliato sul suo conto».
Gwen lo guardò e vide sul suo volto un’espressione di genuina sofferenza.
«Stai bene?».
Lui deglutì e distolse lo sguardo.
Gwen pensò a ciò che le aveva detto Fran. Se Fran avesse avuto ragione e Liyoni non fosse stata figlia di Savi, allora avrebbe potuto dire tutto a Laurence. Ma non in quel momento. Dopo tutti quegli anni, non vedeva l’ora di poter dire ad alta voce che era una donna rispettabile e che non aveva fatto quella cosa terribile che aveva creduto di aver fatto per anni. Ma doveva aspettare un altro po’, finché non avesse trovato il modo di dimostrarlo.
«A dir la verità», disse lei, scommettendo sul fatto che Verity non avesse ancora detto nulla, «credo che possa essere una buona idea ripristinare la rendita di Verity. Mi pare chiaro che il suo matrimonio sia finito e dovrà pur vivere in qualche modo».
Laurence le rivolse un mezzo sorriso. «Davvero ti importa? Dopo tutto ciò che ha fatto…».
«È sempre tua sorella. Potremmo imporle come condizione di tornate a vivere nella casa in Inghilterra».
Si sentì il boato di un tuono e Gwen alzò lo sguardo.
Laurence annuì lentamente. «Quando il nostro tè si sarà affermato sul mercato potremmo farlo. Però sai che la casa nello Yorkshire è stata affittata?»
«Sì, intendevo quando il contratto di affitto sarà scaduto».
Gwen guardò le nuvole che poi abbassò nuovamente gli occhi. Era quasi novembre, il monsone era in ritardo. Calcò la punta del piede nel terreno ancora secco, che ben presto si sarebbe tramutato in fanghiglia.
«Ieri ho ricevuto una lettera. Gli affittuari inglesi hanno accennato all’idea di prolungare l’affitto».
Gwen decise di insistere sulla rendita di Verity. «Magari potremmo trovare un modo per restituire la rendita a Verity anche prima che l’affare del tè vada in porto».
Laurence le lanciò un’occhiata perplessa. «Potrei chiedere un prestito, se davvero credi sia necessario».
Gwen esitò. Non voleva che Laurence si caricasse di nuovi debiti prima di aver avviato a pieno ritmo la nuova attività, tuttavia in quel modo si sarebbero liberati di Verity e lei avrebbe avuto un po’ più di tempo.
Laurence alzò lo sguardo. «Vieni, è ora di andare. Sta arrivando la pioggia. Riparleremo di Verity più tardi».