Capitolo 29
Per qualche tempo dopo quell’episodio, Laurence rimase tranquillo. Ogni volta che Gwen entrava in una stanza, lui alzava lo sguardo come in attesa che dicesse qualcosa, ma lei non aveva la minima intenzione di scusarsi per il suo comportamento. Consapevole che ciò poteva trasformarsi nel peggiore errore della sua vita, aveva cercato di individuare delle alternative, ma non ne aveva trovate.
Con il pretesto di partecipare a una riunione della Women’s Charity Union aveva visitato un orfanotrofio a Colombo, un posto affollato che puzzava di urina. Il ricordo ancora non la faceva dormire. Gwen voleva a tutti i costi proteggere il suo matrimonio, ma non poteva mandare Liyoni in un posto del genere.
Nelle settimane successive Laurence ogni tanto le chiese cosa stesse facendo riguardo alla bambina, e per il momento Gwen era riuscita a cambiare argomento, ma aveva i nervi a fior di pelle. Nel frattempo Hugh si divertiva ad aiutare Liyoni a imparare. Adesso la bambina capiva qualche frase semplice in inglese ed era in grado di chiedere ciò di cui aveva bisogno. Tuttavia, continuava a stancarsi in fretta e fin quando Hugh non sarebbe andato a scuola, in autunno, Gwen doveva ingegnarsi a trovare un modo per tenere i due bambini separati, almeno per qualche ora. Invece di essere geloso per l’arrivo di Liyoni, Hugh l’adorava e quando lei era a letto con la tosse bisognava costringerlo a starle alla larga.
Verity era un’altra questione. Senza aver mai chiarito il motivo per cui non voleva tornare da suo marito, il giorno del compleanno di Laurence era ancora lì, e quando Hugh si presentò al tè di festeggiamento portando con sé Liyoni, lanciò un’occhiata eloquente al fratello. Gwen continuava a pensare che fosse un peccato che Verity si conciasse in modi che non la valorizzavano, ma quel giorno sua cognata era molto elegante nel suo abito lungo. Gwen si chiese dove trovasse i soldi per quei vestiti costosi. Suo marito non era particolarmente ricco.
«Su questo devo insistere», disse Verity. «Quella bambina non fa parte della famiglia, e questo è un festeggiamento familiare. In effetti, Laurence, non capisco perché viva qui. Mi pareva mi avessi detto che ne avevi parlato con Gwen».
«Non fare una scenata, Verity».
«Ma avevi detto…».
Gwen si fece avanti e tenendo strette le mani per evitare che le tremassero disse a Hugh: «Tesoro, tua zia Verity ha ragione. Di’ a Liyoni di andare a cercare Naveena. Lei le troverà qualcosa da fare».
Hugh fece una faccia triste, ma poi ubbidì. Verity intanto continuava a lamentarsi della presenza di Liyoni in casa.
Esasperata dalle continue intromissioni della cognata nella loro vita, Gwen la interruppe. «A dir la verità io e Laurence abbiamo discusso il problema e lui ha acconsentito che fossi io a occuparmene. Ti ricordo per l’ennesima volta, Verity, che sono io la padrona di casa e che da quando ti sei sposata tu sei un ospite qui».
«Lascia perdere, Gwen», disse Laurence.
«No. Non lascio perdere proprio per niente. Né per te, né per Verity. O sono io la padrona di casa oppure non lo sono. Non ne posso più di tua sorella che ficca il naso nei miei affari. È ora che se ne torni da suo marito».
Laurence provò a metterle un braccio intorno alle spalle, ma lei lo scostò, tremante.
«Avanti, cara, è il mio compleanno».
«Non voglio che zia Verity se ne vada, mamma», protestò Hugh.
Gwen lanciò un’occhiata al tavolo apparecchiato per quattro con le migliori porcellane e le posate d’argento, disposte su una tovaglia di damasco fresca di bucato. Tentò di controllare la rabbia.
«Va tutto bene, tesoro. Mamma e papà ne parleranno più tardi. Adesso beviamo il tè».
I giorni dello champagne senza limiti erano finiti da tempo, e quando l’appu portò la torta di frutta di Laurence su un vassoio d’argento tutti brindarono con le tazze di tè. Anche i regali, che una volta arrivavano fino al soffitto, adesso erano a malapena una pila striminzita.
«Possiamo anche saltare la parte del gioco», disse Laurence.
«Io invece credo che dovremmo farlo», rispose Verity.
Gwen sospirò. Se Verity voleva giocare, allora così sarebbe stato. Aprì un armadietto, frugò tra le decorazioni festive e tirò fuori una lunga striscia di stoffa nera, che legò sugli occhi di Laurence, annodandola sulla sua nuca.
«Adesso papà devi girare tre volte», disse Hugh.
L’idea era di far sparire la pila di regali e costringere Laurence a cercarli uno per uno per poterli aprire.
Per stare al gioco lui incespicò per la stanza facendo un po’ l’imbranato, con grande divertimento di Hugh. Mentre era a quattro zampe e tastava il pavimento vicino alla porta, in casa risuonò il ticchettio di tacchi alti. Tutti si bloccarono.
«Be’, speravo davvero che fossi contento di rivedermi, ma trovarti in ginocchio ai miei piedi andava oltre le mie aspettative. Non pensavo che avrei mai visto nulla del genere».
Laurence si tolse la benda e si appiattì i capelli mentre di alzava. «Christina!».
«L’unica e sola».
«Ti aspettavamo per la prossima settimana», disse Gwen.
Hugh pestò i piedi e arrossì. «Ha rovinato il gioco! Papà ancora non aveva trovato i suoi regali».
«Ah», disse Christina. «Forse posso rimediare. Ho dei regali anche io».
Gwen e Laurence si scambiarono un’occhiata.
«Sapevi che era il compleanno di Laurence?», disse Verity.
«Tu che dici? Ma ho regali per tutti, non solo per Laurence. Il mio domestico attende in corridoio». Si voltò e schioccò le dita. Un singalese con indosso una lunga giacca bianca di lino entrò con le braccia cariche di buste.
«Mi dispiace, non ho avuto il tempo di incartarli». Christina prese a frugare in una delle buste e tirò fuori qualcosa di morbido, ancora appeso alla sua gruccia, e lo passò a Gwen.
Gwen svolse la bellissima stoffa e contemplò un abito due pezzi, uguale a quelli che aveva visto sulle pagine di «La brava donna di casa».
«Ho pensato che avrebbe messo in risalto i tuoi occhi», disse Christina. «La sfumatura lilla è adorabile. Hugh, per te invece c’è un trenino».
Posò una scatola sul tavolo e gli occhi di Hugh si illuminarono mentre passava le dita sulle immagini della locomotiva e dei vagoni.
«Come si dice, figliolo?», disse Laurence.
Hugh riuscì a malapena ad alzare gli occhi dal trenino. «Mille grazie, signora americana».
Tutti scoppiarono a ridere.
«Verity», proseguì Christina. «Per te ho una borsa di coccodrillo. Ho pensato che ti potesse piacere».
«Grazie. Non dovevi».
«Non faccio mai nulla per dovere. Mi faceva piacere». Christina si interruppe, fece l’occhiolino a Laurence e gli soffiò un bacio. «E adesso il festeggiato. Per te ho qualcosa di speciale, anche se temo non sia qualcosa che puoi esattamente tenere in mano».
«È una macchina. Hai regalato a papà una macchina nuova, vero? Ecco perché non può tenerla in mano».
«No, tesoro. Pensi che avrei dovuto regalargli una macchina?»
«Sì».
«In realtà, se non vi dispiace adesso sono un po’ stanca. Il regalo di tuo padre dovrà aspettare stasera».
Hugh fece per lamentarsi, ma un’occhiata da parte di Gwen lo zittì. Era contrariata dell’arrivo anticipato di Christina e tutti quei regali costosi non bastavano a rabbonirla.
«È quasi ora del bagno di Hugh. Se non ti dispiace, Christina, Verity ti accompagnerà nella stanza degli ospiti e ci rivedremo a cena. Non c’è bisogno che tu ti vesta elegante, non lo facciamo più ormai».
«Oh, ma dovreste. Insisto. È un’occasione speciale, dopotutto».
Gwen annuì con un misto di fastidio e sospetto e afferrò la mano di Hugh. «Benissimo», disse. «Andiamo. Oggi puoi farti il bagno in camera mia».
Hugh batté le mani e chiacchierò eccitato finché non arrivarono in camera. Mentre Gwen preparava il bagno, si chiese che fine avesse fatto Liyoni. Sembrava che in generale stesse un po’ meglio, ma aveva l’impressione che zoppicasse sempre di più man mano che passavano i giorni. Se le cose fossero continuate in quel modo, la bambina ben presto non sarebbe stata più in grado di svolgere nemmeno le semplici faccende di casa che Gwen le assegnava. Non erano lavori pesanti, servivano più che altro a salvare le apparenze, ma doveva continuare ad alimentare quell’illusione.
Avevano scoperto che la bimba aveva un’infezione al piede, e Naveena l’aveva curata con una tintura vegetale e poi fasciata. Gwen pensava che una volta guarita la ferita avrebbe ripreso a camminare normalmente, ma non era stato così. Entro un paio di giorni il dottor Partridge sarebbe venuto a dare un’occhiata a Hugh e Gwen decise di chiedergli di visitare anche Liyoni.
Dopo cena, mentre bevevano il caffè in salotto, Christina rivelò la sua grande idea. Verity era seduta sulla pelle di leopardo accanto al tavolino degli alcolici, Laurence era in piedi vicino all’attaccapanni e Gwen si era accomodata su una poltrona rigida a un’estremità del divano, con la bottiglia di brandy a portata di mano. Avevano lasciato le tende aperte e il mondo esterno era illuminato dalla luce della luna quasi piena.
«Che ne pensate di creare un marchio?», disse Christina con un ampio sorriso. Si appoggiò allo schienale della poltrona e posò ai propri piedi qualcosa che poteva essere un quadro, avvolto in carta marrone.
«Come, scusa?», disse Laurence.
«Un marchio riconoscibile. È questa la strada da seguire». Christina si alzò in piedi e si avvicinò a Laurence. Gli mise una mano sulla spalla e si appoggiò a lui. Poi lo guardò negli occhi, con il viso a pochi centimetri dal suo. «Non hai guardato la rivista che ti ho mandato, caro?»
«Laurence ha dato un’occhiata», disse Gwen, che si sentiva sul punto di esplodere, ma riuscì a mantenere una certa calma. «Né io né lui abbiamo capito cosa intendessi».
Christina, che stava ancora sorridendo a Laurence, si voltò a guardare Gwen. «Cosa avete notato in quella rivista?».
Gwen si guardò intorno nella stanza. Oltre ai regali, Christina aveva portato diversi bouquet che erano stati elegantemente disposti in quattro grandi vasi di vetro. Il profumo dei fiori riempiva l’aria.
«Era piena di pubblicità».
Christina batté le mani. «Esatto, brava!».
«Stai suggerendo di farci pubblicità?», disse Laurence allontanandosi di qualche passo dall’americana. «Non mi pare una grande idea, perdona la mia sfacciataggine».
Christina gettò il capo all’indietro e rise. «Caro, sono americana. Certo che perdono la tua sfacciataggine. Voi inglesi siete davvero uno spasso».
Laurence sporse il mento in fuori e Gwen provò l’impulso di avvicinarsi e ricoprirlo di baci. Ma si trattenne e si rivolse invece a Christina. «Be’, perché non spieghi a questi spassosi inglesi cosa intendi davvero?».
«Tesoro, non ti offendere. Non vi stavo prendendo in giro. Penso che siate persone adorabili, e tuo marito, be’, lo sai cosa penso di lui. Comunque hai ragione, torniamo agli affari».
Gwen, che fin a quel momento aveva trattenuto il fiato, finalmente espirò lentamente.
«Ci sono persone in America che riescono ad arricchirsi nonostante la Depressione. Grandi compagnie che producono merce di uso comune».
«Intendi dire i detergenti e il lucido da scarpe che abbiamo visto nelle pubblicità sulla rivista?»
«Esatto, e arrivando al punto, tra i prodotti di questo genere rientra anche il tè. Pensate alla Lipton».
Gwen scosse la testa. «Non ho visto pubblicità di tè».
«Exactamundo, chérie. La mia idea è di sviluppare il marchio Hooper. Non sarete più semplici produttori e grossisti di tè, ma una vera e propria compagnia con un marchio riconoscibile».
Laurence annuì. «Anche durante la Depressione la gente continua a lavarsi i vestiti e a lucidare le scarpe. È questa la tua idea».
«Sì. E continuano anche a comprare tè. Ma può funzionare solo se vi espandete».
Laurence scosse il capo. «Non saremo mai in grado di produrre abbastanza. Nemmeno facendo lavorare a pieno ritmo tutte e tre le piantagioni. Non vedo come possa funzionare».
«Laurence caro». Christina diede un’occhiata in giro per la stanza. «Mio caro, spassoso inglese, che io rispetto e ammiro e a cui voglio bene. È qui che entro in gioco io».
Gwen inghiottì la propria irritazione.
«Non ci saranno enormi margini di profitto, ma la merce che vendete è una di quelle che la gente compra più di frequente e alla quale non rinuncia». Christina si interruppe. «Dimmi un po’, come te la stai cavando con la Depressione?».
Laurence tossì e abbassò lo sguardo.
«Appunto. Perciò dobbiamo pensare a qualcosa di nuovo. Sappiamo che in ogni casa c’è un pacchetto di tè, e vogliamo che il nome scritto su quel pacchetto sia Hooper. Già essere secondi dietro a Lipton sarebbe un successo».
Il risentimento di Gwen verso quella donna era sul punto di esplodere. Cosa voleva davvero Christina? Stava giocando con loro, li stuzzicava solo per far vedere che aveva il potere di farlo? Era tornata per provarci di nuovo con Laurence? Gwen avrebbe voluto cancellarla dalle loro vite come aveva già tentato di fare una volta, ma non voleva mettere Laurence in imbarazzo con una scenata di gelosia. Perciò mantenne un’espressione severa e parlò in tono duro.
«No», disse. «È un’idea da pazzi. Laurence ha già detto che non siamo in grado di produrre la quantità necessaria di tè».
Christina parve non ascoltarla. «Non dovete produrla voi, cara. La comprerete da tutti i produttori di Ceylon. Basta fare accordi con le altre piantagioni. Noi ci occuperemo di confezionare il tè e di fare pubblicità. Non vi serve un grosso margine di profitto se vendete su larga scala».
«Non ho i soldi per il capitale di partenza», disse Laurence.
«Tu no, ma io sì. Il mio suggerimento è di vendermi delle quote della Hooper e usare il denaro per avviare l’attività».
Gwen si alzò con le gambe tremanti e si portò a fianco di Laurence. Quando parlò, anche la sua voce tremava. «E se il progetto fallisce? Che succederebbe? Non possiamo correre altri rischi».
«Sarò io a rischiare, non voi. Ricorda le mie parole, tesoro, questo è il futuro. La pubblicità sta avendo un boom in America. Hai visto la rivista, no?»
«Non sono sicura che mi piaccia questo futuro», rispose Gwen.
«Che ti piaccia o no, avrete la possibilità di guadagnare milioni. E in maniera relativamente semplice».
«Forse hai ragione. Possiamo pensarci?», disse Laurence prendendo Gwen sottobraccio.
Gwen sospirò. Quella donna aveva di nuovo catturato Laurence e non c’era nulla che lei potesse fare.
«Avete due giorni. Poi devo ripartire. Dobbiamo sbrigarci, altrimenti qualcuno arriverà prima di noi».
Christina si alzò, lisciò le pieghe del suo abito dall’aria costosa e si voltò verso Gwen con un sorriso mellifluo. «Ti piace il mio vestito?».
Gwen borbottò qualcosa.
«Già confezionato, economicissimo, e non è neanche di seta. Il mondo sta cambiando, cari amici. Si tratta di salire a bordo o restare a terra. In ogni caso, ho fatto un lungo viaggio e adesso vorrei proprio andare a letto».
Verity, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, si alzò in piedi, sebbene sembrasse un po’ instabile sulle gambe, e disse biascicando leggermente: «Credo che la tua sia un’ottima idea, Christina».
Gwen avrebbe voluto dire che quella faccenda non aveva assolutamente nulla a che fare con Verity, ma tenne la bocca chiusa.
«Grazie. Dimenticavo. Laurence, tu e Gwen dovrete venire a New York. Permetterebbe al marchio di farsi conoscere e ad acquisire rispettabilità».
«Davvero è necessario? E per quanto?»
«Assolutamente necessario. Ma non per molto tempo. Ovviamente coprirò io le spese».
«E Hugh?»
«Presto comincerà ad andare a scuola, giusto?».
Gwen si accigliò. «Perché lo stai facendo, Christina? Se l’idea fallisse saresti l’unica a perderci».
«Lo faccio perché non falliremo. Ne sono sicura… e poi perché sono affezionata a voi due. Vi siete dati così tanto da fare, e io mi sento in colpa per i soldi che Laurence ha perso in Cile. Anche se sono sicura che una volta finita la Depressione, recupererete anche quell’investimento, e farete molto di più».
Gwen annuì lentamente. Non aveva scelta se non lasciare accadere ciò che già stava accadendo.
«La campagna pubblicitaria partirà da New York, vorranno tutti vedere che faccia avete. E parlando di facce, quasi dimenticavo. Verity, ti dispiace aprire il pacchetto accanto al divano».
«Mi stavo giusto chiedendo se fosse quello il mio regalo», disse Laurence.
«In un certo senso», rispose Christina mentre Verity apriva la carta marrone.
«E allora vediamo», disse Laurence.
Verity alzò lo sguardo. «È uno dei quadri di Savi Ravasinghe».
Il cuore di Gwen sussultò. Non aveva mai parlato con Savi di quanto accaduto quella notte e piano piano era diventato sempre più facile seppellire quel pensiero in un angolino della mente. Adesso aveva Liyoni in casa a ricordarglielo tutti i giorni, non bastava?
Laurence si accigliò mentre Verity voltava il quadro e lo mostrava a tutti.
«È una coglitrice di tè tàmil», disse Laurence.
Gwen osservò lo splendido colore scarlatto del sari della donna, che pareva luccicare sullo sfondo verde luminoso dei cespugli di tè. Doveva ammettere che era bellissimo. Mentre lo fissava si sentì avvampare sul collo e sulle guance e sperò che nessuno lo notasse. Ovviamente l’unica a farlo fu Verity.
«Ti senti bene, Gwen?», disse.
«Ho solo caldo», rispose lei sventolando una mano davanti al viso.
Laurence rimase in silenzio mentre Christina spiegava che quella sarebbe stata un’immagine perfetta per il tè Hooper. L’avrebbero stampata sulle confezioni, su enormi cartelloni e sulle pagine delle riviste.
Quando ebbe finito di parlare Laurence le strinse una mano. «Ci hai dato parecchio a cui pensare stasera. Riparliamone domani. Dormi bene».
Si diressero tutti verso le proprie stanze. Gwen era pensierosa. Era consapevole di quanto diventasse irrazionale quando si trattava di Christina, e in quell’istante ebbe la sensazione che l’americana sarebbe stata la folata di vento definitiva in grado di spazzare via la sua casa.