Capitolo 5

Due giorni dopo, sentendo il rumore dell’auto di Laurence che si fermava, e nonostante una lieve ansia, Gwen si sentì piena di piacevoli aspettative. Era stata una giornata fredda e nebbiosa, e lei si era di nuovo occupata dei conti di casa. Non tornavano e lei non riusciva a capire dove fosse l’errore, ma almeno era riuscita a far recapitare un messaggio al dhobi, per dirgli di non venire il giorno seguente. A parte quello, non era riuscita neanche a fare due passi in giardino e anche il lago era rimasto fastidiosamente nascosto dietro la nebbia.

Si buttò addosso uno scialle con le nappe per coprire i graffi sulle braccia e corse lungo il corridoio per uscire dalla porta principale.

Fran stava scendendo dal sedile posteriore della Daimler, con un enorme sorriso sul volto. Gwen le corse incontro, la circondò con le braccia e la strinse forte. Poi fece un passo indietro per esaminare sua cugina. «Santo cielo, Fran, ma guardati!».

Fran si tolse il cappello giallo a cloche con una piccola falda e un fiore rosso di feltro, e fece una piroetta, indicandosi i capelli. «Che ne dici?».

I luminosi capelli castani di Fran erano tagliati sulla nuca, in un caschetto ancora più netto di quel che Gwen ricordava, e con una lunga frangia. Sotto la luce del sole, le ciocche più chiare sembravano dorate. Si era truccata gli occhi con una linea nera e le labbra erano dipinte un rossetto rosso accesa. E sotto la frangetta scintillavano i suoi occhi blu.

Si mise a ridere e fece un’altra piroetta, mettendo in mostra la sua figura procace, avvolta in un morbido abito di voile senza maniche. Aveva l’orlo di pizzo e il tocco finale all’opera era dato da un filo di perle di giaietto che le penzolavano in vita. I guanti erano in pendant con il vestito giallo e le arrivavano ai gomiti, ed erano dello stessa tonalità di colore del cappello.

«Caspita, fa freddino, eh?», disse. «Pensavo facesse caldo».

«Ho un sacco di scialli caldi da prestarti. Farà ancora più freddo quando arriveranno i monsoni. Dovrebbero scatenarsi a momenti. Com’era Colombo?»

«Terrificante. Umidissima. E sembravano tutti arrabbiati. Ma il viaggio è stato magnifico. Non ho mai visto niente del genere. Non so a che altezza siamo arrivati. E la vista da quei ponti di ferro!».

«La vista è meravigliosa ma a me quei cosi hanno fatto venire il mal di testa», disse Gwen, e si voltò verso Laurence. «A che altitudine siamo qui, Laurence?»

«Ciao tesoro». Il suo sorriso felice e l’evidente piacere che provava nel rivederla furono sufficienti a spazzare via momentaneamente il ricordo della loro ultima volta a letto insieme. Lui fece una pausa e poi si piegò per aiutare un’altra donna a uscire dal sedile anteriore.

«E in risposta alla tua domanda», disse, raddrizzandosi. «Quasi millecinquecento metri».

«È sua sorella», sussurrò Fran, facendo una smorfia. «Era già a Colombo, alloggiava al Galle Face. Siamo passati a prenderla. A malapena mi ha rivolto la parola durante tutto il viaggio».

La donna alta, in piedi sulla ghiaia dall’altra parte dell’auto, gettò la testa all’indietro e rise con Laurence di una cosa che aveva detto.

«Gwendolyn», la chiamò Laurence, mentre andava verso di lei. «Ti presento la mia carissima sorella Verity».

Laurence e la sorella si fecero più vicino e Verity le porse la mano. Come il fratello, aveva profondi occhi marroni e la stessa fossetta sul mento. Aveva il viso lungo e un incarnato pallido; Gwen non poté fare a meno di pensare che i lineamenti degli Hooper non le stavano così bene come al fratello. Quando le si avvicinò per darle un bacio sulla guancia, Gwen si accorse che la donna emanava un vago odore di stantio.

«Cos’è quel graffio?» chiese Laurence, sfiorandole il braccio.

Lei sorrise. «Sono andata a sbattere contro un albero. Sai come sono fatta».

«Cara Gwendolyn», disse Verity. «Non vedevo l’ora di conoscerti. Laurence mi ha raccontato proprio tutto di te».

Gwen sorrise di nuovo. Sapeva che Laurence e la sorella erano molto uniti, ma intimamente sperò che lui avesse omesso qualche particolare.

«Mi dispiace così tanto non esser stata presente al vostro matrimonio. Imperdonabile, lo so, ma ero nell’Africa più nera». Fece una risatina, arricciò le labbra sottili e poi si voltò verso Laurence. «Starò nella mia vecchia stanza?».

Lui sorrise e la prese a braccetto. «E dove altrimenti?».

Lei lo baciò due volte sulla guancia. «Mio adorato, adorato fratello, quanto mi sei mancato». Poi, sempre a braccetto, salirono gli scalini ed entrarono in casa.

«Oh Gwendolyn». Verity voltò il capo e la chiamò. «Fa’ portare su la mia valigia da uno dei domestici. Il baule non arriverà prima di domani».

«Certamente», disse Gwen, mentre li fissava. Un baule. Quanto intendeva rimanere la sorella di Laurence?

Fran la stava osservando. «Va tutto bene?».

«A meraviglia», rispose Gwen, e sorrise. “Be’, andrà a meraviglia”, pensò. «Sono così contenta che tu sia qui finalmente».

«Voglio sapere tutto», disse Fran, dando una gomitata scherzosa a Gwen. «E quando dico tutto, intendo tutto tutto».

Scoppiarono a ridere.

Il mattino dopo Gwen si alzò presto per fare colazione con Laurence. Desiderosa di sorprenderlo e finalmente riuscire a parlargli, sorrise e spalancò la porta della sala da pranzo.

«Oh», fu tutto quello che riuscì a dire alla vista di Verity che spazzolava un piatto di kedgeree. L’odore di pesce le diede il voltastomaco.

«Tesoro», disse Verity, dando un colpetto sulla sedia accanto a lei. «Laurence è appena uscito, ma va benissimo così; almeno possiamo approfittare della mattinata per conoscerci».

«Mi piacerebbe molto. Hai dormito bene?»

«Non benissimo, ma non faccio testo; io dormo sempre male. Lo stesso non può dirsi di tua cugina Fran».

Gwen si mise a ridere, ma aveva già notato i cerchi neri attorno agli occhi di Verity che il giorno prima non le erano sembrati così evidenti. «Hai ragione», disse. «A Fran piace stare a letto fino a tardi».

«Forse una passeggiata sarebbe l’ideale stamattina. Che ne dici?»

«Devo vedere il dhobi alle undici e mezzo. Due delle camicie migliori di Laurence sono sparite dalla lavanderia».

«Oh, ma abbiamo un sacco di tempo prima di allora, tesoro. Dimmi che verrai. Ci rimarrei malissimo se non venissi».

Gwen guardò Verity. Non era esattamente brutta, ma a prima vista era fredda; forse ciò derivava dall’espressione permanentemente accigliata del suo viso, di cui lei probabilmente era consapevole, dal momento che di tanto in tanto aggrottava intenzionalmente le sopracciglia per distendere la pelle. Questo, purtroppo, le faceva gli occhi sporgenti, rendendola leggermente simile a un gufo. Borse sotto gli occhi a parte, quel mattino sembrava più luminosa, meno giallognola. L’aria di campagna doveva farle bene, pensò Gwen.

«Va bene», disse. «Non possiamo permettere che tu ci rimanga malissimo, ma verrò solo a condizione di esser di ritorno in tempo per incontrare il dhobi prima di pranzo. E devo cambiare scarpe».

«Te lo prometto. Ora vieni a sederti. Il kedgeree è delizioso. Oppure potresti provare la cagliata di bufala con il jaggery. È lo sciroppo che estraggono dagli alberi kithul».

«Lo so».

«Ma certo che lo sai».

Gwen guardò la ciotola di cagliata di bufala. Sembrava panna rappresa con dentro una spruzzata di melassa marrone. «Oggi no. Prendo soltanto pane tostato».

«Non c’è da stupirsi che tu sia così magra, se non mangi altro!».

Gwen sorrise, ma si sentì leggermente a disagio accanto a quella cognata che ora stava tamburellando le dita sul tavolo, apparentemente impaziente. Una passeggiata con lei non era esattamente ciò che Gwen aveva pianificato per la mattinata, specialmente dato che dopo pranzo sarebbero andati tutti a Nuwara Eliya, e lei non aveva ancora preparato la valigia.

Quando andò in camera sua a prendere un paio di scarpe da passeggio, Naveena stava mettendo in ordine la stanza.

«Va a passeggio con la sorella, signora».

«Esatto».

Per un momento sembrò che Naveena avesse qualcosa da dire, ma non lo fece, e si limitò a porgere le scarpe a Gwen.

Una volta fuori, sotto il sole del primo mattino, Gwen fu entusiasta di essere uscita. Era una mattinata splendida, ancora fresca, e le nebbie si stavano diradando rapidamente. Il panorama si estendeva davanti a loro per miglia e miglia e solo piccole nuvole bianche solcavano il cielo. Tra gli alberi gli uccelli cantavano e nell’aria aleggiava un profumo dolce.

«Scendiamo al lago e poi lo costeggiamo per un po’. Faccio strada io. Sei d’accordo?»

«Assolutamente sì. Di fatto non conosco ancora bene le passeggiate qui attorno».

Verity sorrise e la prese a braccetto.

Gwen lanciò uno sguardo alle colline più vicine ricoperte di tè, verde chiaro e splendenti alla luce del sole. Incuriosita dalle dita delle donne che volavano sulle piantine mentre le raccoglievano, indicò i sentieri che zigzagavano proprio davanti a loro, e che si inerpicavano verso la cima.

«Non mi dispiacerebbe percorrere quei sentieri. Vorrei tanto vedere le raccoglitrici da vicino».

Verity si accigliò. «Coglitrici, tesoro, non raccoglitrici. Comunque no, non oggi. Potresti cadere in uno dei canali d’irrigazione. Ho un’idea migliore. Allontaniamoci dalla riva del lago e andiamo verso il mio bosco preferito. È magico. Io e Laurence ci giocavamo a nascondino durante le vacanze estive».

«Siete andati entrambi in collegio in Inghilterra?»

«Sì, anche se non nello stesso periodo. Io ero a Malvern. Laurence è molto più grande di me. Ma tu questo lo sai».

Gwen annuì, e continuarono a camminare sul sentiero che circondava il lago per circa una mezz’ora. Il lago era calmo al centro e molto scuro. A riva la schiuma bianca sciabordava contro le sponde rocciose, dove uccellini grigi con i petti bianchi e i pancini color cannella si lisciavano le piume.

«Gallinelle d’acqua», disse Verity. «Laggiù svoltiamo». Indicò un sentiero.

All’inizio il bosco era rado, ma a mano a mano che si addentravano nel fitto, l’aria si fece zeppa di odori e versi di creature che echeggiavano attorno a loro. Gwen si fermò ad ascoltare.

«Sono solo lucertole», disse Verity. «E uccelli, ovviamente, e forse qualche bizzarro serpente degli alberi. Niente di cui preoccuparsi, te lo prometto. È tutto un po’ inesplorato e spaventoso, ma tu resta con me e starai bene. Ora in fila indiana, tu vienimi dietro».

Gwen allungò la mano per toccare i rami di un albero tozzo, ma le foglie la punsero, e la ritrasse velocemente. Quel bosco era più il posto più selvaggio che avesse mai visto, sebbene non fosse minaccioso. Le piaceva quella sensazione di essere in un posto fuori dal tempo. I rametti scricchiolavano sotto i loro piedi, e l’aria pareva assumere una sfumatura di verde nelle zone umide in cui il sole non poteva arrivare.

Verity sorrise. «Se c’è qualcosa che vuoi sapere non hai che da chiedere. Sono sicura che ti ambienterai benissimo».

«Grazie», disse Gwen. «C’è una cosa, in effetti. Stavo pensando alle chiavi del magazzino. Ce ne sono due. Devo tenerle entrambe io?»

«No, sarebbe un’orribile scocciatura per te. Danne una all’appu. Così non dovrà disturbarti per ogni minima cosa». Indicò dei fiori viola lungo il sentiero. «Non sono bellissimi? Magari avessi portato un cestino».

«La prossima volta».

«Mettitene uno nei capelli», disse Verity, e si chinò per raccogliere un fiore. «Ecco, te lo metto io».

Intrecciò il fiore in uno dei riccioli ribelli di Gwen e poi fece un passo indietro. «Ecco fatto. Adorabile. S’intona con i tuoi occhi. Andiamo avanti?».

Proseguirono. Verity chiacchierava e sembrava così contenta della sua compagnia che Gwen si rilassò e perse la cognizione del tempo. Quando il profumo del lago fu sparito da un pezzo, si ricordò dell’incontro con il dhobi.

«Oh cielo, me lo sono dimenticata. Verity, dobbiamo rientrare». E cominciò a voltarsi.

«Certo, ma non torniamo da dove siamo venute, ci metteremmo un secolo. C’è una scorciatoia proprio qui. Io e Laurence la facevamo sempre. Arriverai in tempo». Verity le indicò il sentiero e poi fece un passo nell’altra direzione.

«Tu non vieni?»

«Vorrei fare il percorso più lungo, se non ti dispiace. È una mattinata così bella e non ho i minuti contati. Vedi quel sentiero? Seguilo per una quarantina di metri e poi gira a destra, dove c’è un piccolo incrocio. C’è un albero di fico nel mezzo. Non puoi sbagliare».

«Grazie».

Verity le rivolse un sorriso raggiante. «Ti condurrà dritta a casa. Segui il tuo naso. Ci rivediamo lì».

Gwen si incamminò nella direzione indicata da Verity, e poi svoltò all’albero di fico in mezzo a una piccola radura. Si era veramente goduta la mattinata ed era giunta alla conclusione che sua cognata era molto più amichevole di quanto non avesse pensato all’inizio. Ne era felice. Sarebbe stato bello se fossero diventate buone amiche.

Proseguì, pensando di vedere presto l’acqua luccicante del lago, ma in effetti il sentiero si addentrava sempre più tra i boschi. Grossi massi le bloccavano il cammino e ora anche il canto degli uccelli si era interrotto. Si guardò attorno, ma il senso dell’orientamento non era mai stato il suo forte. Verity le aveva giurato che quel sentiero l’avrebbe riportata a casa.

Un po’ più avanti il sentiero scendeva ripido verso il basso. Quella non poteva essere la direzione giusta. Guardandosi alle spalle, si rese conto che era pian piano scesa verso il basso, mentre, per ritornare a casa, era sicura che avrebbe dovuto salire.

Si sedette su un masso ricoperto di muschio, si mise le dita tra i capelli e s’asciugò il sudore sulla fronte. Poi decise di fare marcia indietro e tornare sui propri passi. Non era spaventata, solo infastidita per il fatto di essersi persa, e il guaio era che più andava avanti, meno riconosceva il sentiero. I capelli le si impigliarono in un ramo pendulo e quando li liberò le sfuggirono dal fermaglio. Avanzò un altro po’, ma inciampò e cadde sul sedere, strappandosi il vestito nuovo di voile.

Con le mani sbucciate, si tolse le foglie appiccicate al vestito; una volta rimessasi in piedi, si sentì pizzicare le cosce. Controllò che cosa fosse e vide che la sua pelle normalmente bianca era di un rosso chiaro. Qualcosa l’aveva punta. Si guardò attorno e scorse delle formiche che brulicavano proprio dove era caduta.

Per lo meno era una giornata di sole, e quando riprese il cammino, dopo diverse svolte errate, finalmente ritrovò l’albero di fico. A quel punto doveva fare la strada più lunga, e non poteva fare altro che puntare dritto sul sentiero che aveva fatto con Verity. Era in ritardo, molto in ritardo.

Quando rispuntò sulla riva del lago, si sentì sollevata alla vista della sua nuova casa in lontananza. Si mise a correre, senza badare allo stato dei suoi capelli e dei suoi vestiti. Una volta vicina alla casa, vide Laurence che camminava su e giù in riva al lago, usando la mano per schermarsi gli occhi dal sole pomeridiano. La vide e si fermò, immobile, guardandola mentre correva verso di lui.

Era così contenta di vederlo che sentiva il petto scoppiarle di felicità.

«Bella passeggiata?» chiese lui, serio. Poi, la bocca gli si sollevò ai lati e le sopracciglia gli si distesero leggermente. Poi le fece un gran sorriso.

«Non prendermi in giro, mi sono persa».

«Cosa devo fare con te?»

«Non mi sarei dovuta perdere». Si grattò le gambe. «E mi hanno anche pizzicata ben benino».

«Che cosa?».

Fece una smorfia. «Semplici formiche».

«Non esistono “semplici formiche” a Ceylon. Ma credimi, non mi perdonerei mai se ti succedesse qualcosa. Promettimi che farai più attenzione».

Gwen fece del suo meglio per fare un’espressione solenne e annuì, ma non riuscì a nascondere il sorriso. Entrambi poi scoppiarono a ridere.

«Sembri mio padre».

«A volte mi sento tuo padre». Si avvicinò. «Se non fosse che lui non farebbe mai questo».

Il bacio fu lungo e intenso.

In quel momento uscì Verity. «Oh, eccoti qui», disse, disinvolta. «Scusate se vi ho interrotto. Io sono tornata un secolo fa. Eravamo terribilmente preoccupati».

«In effetti ho preso il sentiero che mi hai detto tu. Mi hanno punto delle formiche».

«Hai preso il sentiero a destra? Ti ricordi, all’albero di fico».

Gwen si accigliò. Confondeva sempre la sinistra con la destra.

«Non fa niente. Ora sei qui». Laurence la circondò con il braccio e prese un fazzoletto lindo per toglierle lo sporco dalle guance. «Ti sei persa il pranzo, ovviamente, ma puoi ringraziare Verity per aver incontrato il dhobi al posto tuo».

Verity annuì e sorrise. «Non serve ringraziarmi. Dico all’appu di prepararti dei panini, vuoi? E vado a cercare una lozione per le punture di formica».

«Grazie».

Laurence sorrise. «E poi, tesoro, dobbiamo prepararci per andare al ballo».

Gwen afferrò il braccio di Laurence e gli rivolse un enorme sorriso.

«Laurence», disse. «Volevo parlarti… dell’altro giorno».

Il suo volto si rabbuiò. «Mi dispiace di essere stato brusco».

Per un istante lei si guardò i piedi. Era una conversazione che non si poteva evitare, ma non si poteva di certo fare in quel momento, con la sorella a portata d’orecchio. Magari dopo il ballo avrebbero trovato un momento propizio per parlare in privato.

«Lasciamo stare per ora, va bene?» disse. «Ma volevo dirti il motivo per cui sono andata negli slum».

Lui la interruppe. «McGregor me l’ha già detto».

«Lo sai che quell’uomo era ferito».

«Tu sei gentile, Gwen, e molto premurosa, ma lui è un noto piantagrane. Riteniamo che si sia fatto male apposta».

«Perché l’avrebbe fatto?»

«Per strapparci un’indennità di malattia esagerata».

«Be’, se le persone sono ferite, bisogna aiutarle».

«Non se si fanno male da sole».

Lei si fermò a pensare per un momento. «Non mi è piaciuto granché il modo in cui mi ha parlato Mr McGregor».

«È fatto così. Niente di personale».

Gwen sospirò, e ricordando gli occhi d’acciaio e le labbra sottili di McGregor, non ne fu così sicura.

«Lascia i lavoratori della piantagione a McGregor. Temo che si offenda se la sua autorità viene messa in discussione, specialmente se a farlo è una donna. È un uomo vecchio stampo».

«Pare che ce ne siano parecchi in giro».

Lui annuì. «C’è ancora molto da fare, ma con le diverse fazioni che ci sono a Ceylon non possiamo permetterci di perdere il supporto delle persone affrettando il cambiamento. Abbiamo bisogno del consenso degli abitanti per fare la differenza in questo paese».

«E non ce l’abbiamo?».

Con un’espressione molto seria le rispose: «Ci sarà, Gwen».

Ci fu una pausa.

«Sei affezionato a McGregor?»

«Direi di sì. Ho lasciato lui a capo di tutto durante la guerra, con appena due assistenti. McGregor non poteva combattere».

«Come mai?»

«Avrai notato che è lievemente zoppo. Ma ha amministrato mirabilmente mille lavoratori, e gli affiderei la mia stessa vita».

«Dovrò imparare ad apprezzarlo».

«A dire il vero ormai i lavoratori sono millecinquecento, ora che ho acquisito un’altra proprietà. Ci sono stati dei problemi all’inizio con alcuni coolie che sono stati trasferiti. Come vedi, in ballo c’è molto più di una manciata di foglie da cogliere».

«Perché sono sempre le donne a raccogliere?»

«Dita svelte. E comunque si dice cogliere».

«Sì, me l’ha detto Verity. E gli uomini?»

«Fanno tutti quei lavori per cui serve molta forza. Scavare, piantare, fertilizzare, spurgare e ovviamente potare. Abbiamo una squadra di potatori e i loro figli li rincorrono da una parte all’altra per raccogliere i rami tagliati da portare a casa per il fuoco. Ricorda soltanto che, anche se il tuo intento era certamente nobile, il lavoro di McGregor resta pur sempre quello di garantire la tua sicurezza».

Lei annuì.

«Avrai notato che il personale di casa si considera superiore al personale della proprietà. Non è il caso di scontentare nemmeno loro. Come va su quel fronte? Qualcuno ti dà problemi?».

Gwen pensò per un attimo di parlargli dei conti, ma alla fine si tenne la questione per sé. Occuparsi della tenuta era sua responsabilità e avrebbe trovato il modo di capire cosa c’era che non andava.

Mentre lui la baciava, lei avvertì di nuovo un vago odore di sapone e limoni. «E ora andiamo, mia bellissima moglie», disse lui. «Non è ora che ci divertiamo un po’?».

Il ballo annuale del golf club si teneva al Grand Hotel di Nuwara Eliya. Proprio come un castello elisabettiano, era circondato da giardini immacolati con bufali al pascolo e prati ben tenuti ricoperti di margherite. Gwen aveva atteso quel ballo con impazienza per giorni. Finalmente aveva l’occasione di indossare il suo nuovo vestito rosa e argento e di ballare il charleston con Fran.

La città distava una mezza giornata di viaggio e e Gwen provò un po’ di nausea a causa delle strade ripide di montagna che dovevano percorrere. Ma non appena scese dall’auto, e inspirò l’aria che sapeva di menta, si riebbe in fretta. La città avrebbe potuto trovarsi tranquillamente nel Gloucestershire, con la torre dell’orologio a guglia, accanto a un imponente monumento ai caduti, e a una chiesa in stile inglese.

Quando erano usciti di casa, Verity si era seduta subito sul sedile anteriore accanto a Laurence. Quest’ultimo era parso lievemente seccato, ma non le aveva detto di scendere.

Verity si era voltata: «Non ti dispiace, vero, Gwen? Non lo vedo da secoli».

Gwen si sentì leggermente offesa nell’orgoglio, dopotutto il posto davanti avrebbe dovuto essere suo, ma non era sorpresa dal fatto che Verity e Laurence volessero raccontarsi le novità che li riguardavano.

Laurence si era già occupato di prenotare le stanze e, quando furono nel foyer dell’hotel, Gwen si mise accanto a lui alla reception.

«Ho prenotato una stanza per te e Fran», disse. «Vi divertirete insieme».

Lei osservò la gente che gironzolava nella hall e cercò di trattenere le parole che avrebbe voluto dire.

«Sarà come ai bei vecchi tempi», continuò lui, lievemente sulla difensiva. Poi si rivolse al receptionist.

«Non è questo il punto», sussurrò lei. «Per l’amor del cielo, Laurence…».

«Non ora, Gwen. Ecco le chiavi».

Lei lo afferrò per la manica. «No, la questione non è chiusa!».

Lui non replicò. Gwen si morse la lingua e ricacciò indietro l’improvvisa voglia di mettersi a piangere; poiché non voleva scoppiare in lacrime nel bel mezzo del foyer di un hotel, fece per allontanarsi da lui.

Lui le prese una mano. «Mi dispiace, lo so che dobbiamo parlare, temo di non avere…».

Sul punto di proseguire, fece un profondo respiro mentre Verity attraversava la stanza. Lanciando uno sguardo amichevole a Gwen si avvinghiò al fratello e gli fece il solletico sul collo. Lui rivolse uno sguardo dispiaciuto a Gwen, ma lei, rossa di rabbia, gli voltò le spalle e partì alla ricerca di Fran.

La loro stanza era grande e accogliente, con un divano, due letti con la zanzariera, un armadio, due comò, e una toeletta in pendant, elegantemente adornata da tre pallide orchidee. Fran si tolse il vestito e il caldo scialle di lana che Gwen le aveva prestato, poi si infilò immediatamente sotto le fresche lenzuola di uno dei due letti. Allungò la mano e un braccialetto tintinnò al suo polso. «Guarda, è un tempio buddista. L’ho comprato in uno di quei caotici bazar di Colombo».

Gwen esaminò il nuovo ciondolo sul braccialetto di Fran.

«Allora», disse Fran. «L’avete già fatto?»

«Un braccialetto?»

«Sai benissimo di cosa sto parlando».

Gwen fece la finta tonta. «Un pasto caldo, una nuotata, una passeggiata con il cane?»

«Sai cosa intendo».

Gwen assunse un’espressione triste e si guardò i piedi.

Fran si mise subito a sedere. «Oh, Gwennie, che succede?».

Ci fu un breve silenzio, mentre Gwen combatteva il bisogno di confessarle tutto, rimanendo però leale verso Laurence.

«Mi stai spaventando. Ti ha fatto male?». Fran le porse la mano.

Gwen scosse il capo e alzò lo sguardo. «Non di proposito».

«Sei ricoperta di graffi».

«I graffi me li sono stupidamente procurati da sola».

«Bene. Laurence sembra troppo gentile per una cosa del genere».

Gwen si accigliò. «Lui è gentile».

«E allora perché sembri così infelice?». Fece una pausa. «È proprio questo, vero? È fin troppo gentile. Non ti stai ancora divertendo?».

A Gwen venne un groppo alla gola e avvertì una sensazione di calore al collo. «Ci stavamo divertendo. Poi…».

«Oh, questo non va proprio bene. Che senso ha sposarsi se poi non te la spassi? Ma sa come muoversi?»

«È già stato sposato. Certo che lo sa».

Fran scosse la testa. «Non vuol dire niente. Alcuni uomini semplicemente non sono capaci di farlo».

«In Inghilterra è stato bellissimo». Gwen sentiva divampare il rossore. «E anche a Colombo».

«E allora c’è qualcosa che lo preoccupa».

«Infatti penso che sia preoccupato per qualcosa, ma non me ne parla».

«Parlare non risolve niente. Ora ti renderemo talmente irresistibile che non riuscirà tenere a posto le mani. Il sesso è la chiave del cuore di un uomo, dimentica i pasti caldi!».

Gwen sorrise. Quando Fran era ripartita l’ultima volta per Londra, e prima del matrimonio con Laurence, Gwen aveva provato a parlare con la madre di questioni intime. Il tentativo era naufragato in un balbettio senza speranza. Probabilmente sua madre non aveva mai sentito parlare di orgasmi, e il pensiero di suo padre, con i suoi baffi a manubrio, che cercava di procurargliene uno era sufficiente a farla rabbrividire, o morire di risate. Sua madre non se ne era neanche uscita con la cretinata de “gli uomini hanno i loro bisogni” che dicevano tutti per scherzo al collegio.

Fran interruppe il corso dei suoi pensieri. «Mi sono dimenticata di dirtelo. Ho pensato di cercarmi un lavoro».

«A te non serve un lavoro».

«Non ho bisogno di denaro, ma di un diversivo da feste e champagne. Tu hai sempre avuto la tua fabbrica di formaggio puzzolente, perché non potrei fare qualcosa anch’io?».

I ricordi ritornarono ad affollare la mente di Gwen, che si rese conto di quanto le mancassero i suoi genitori e la vecchia tenuta sgangherata in cui vivevano. Dopo che sua madre aveva trasformato il vecchio fienile per produrre formaggio, l’odore aveva impregnato ogni cosa. Scosse la testa. Ora si trovava lì, nella terra della cannella e del gelsomino, e non aveva senso guardarsi indietro.

«Ci prepariamo adesso?» disse Fran.

Dopo che entrambe ebbero fatto il bagno, Gwen mise un cerchietto di perle e Fran la aiutò a sistemarsi i capelli per far cadere liberi i riccioli neri sulla nuca. I capelli castani di Fran, corti e chic, le cadevano disordinati sulla testa e risplendevano sotto una fascia rossa con una piuma intonata.

Fran squadrò Gwen dalla testa ai piedi.

«Vado bene?».

Fran sorrise. «Che l’operazione seduzione abbia inizio!».

Alle undici di sera il ballo era in pieno svolgimento. L’orchestra stava facendo una pausa, e Gwen osservò le persone sparse qua e là nella stanza. La maggior parte delle donne indossava vestiti fuori moda color pastello, che a malapena mostravano una caviglia; l’abbigliamento delle figlie non si distingueva da quello delle madri.

Laurence, in uno smoking bianco, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, e avevano ballato stretti stretti un valzer finché non era arrivata la sorella a reclamare la sua attenzione. Lui aveva sorriso a Gwen mentre si allontanava. Ora, non riuscendo a trovare Fran da nessuna parte, non sapeva cosa fare. Era appoggiata a una colonna all’entrata, ad ascoltare l’ondata di voci e ad annuire ai volti vagamente familiari, quando sentì la voce di un uomo.

«Signora Hooper. È incantevole».

Gwen si voltò, ed eccolo lì, affascinante nel suo abito da sera nero, con un panciotto finemente ricamato, dai toni rossi e oro. I suoi occhi si soffermarono un po’ troppo a lungo sul viso di lei. Gwen cercò di tirare fuori un sorriso ma non ne fu capace. Riconobbe gli scintillanti occhi color caramello del giorno in cui si erano conosciuti e ora come allora, quando l’uomo sorrise, si animarono, trasfigurando l’espressione del suo volto. Lei si sentì confusa e cercò una parola per descriverlo. Esotico, aveva pensato in precedenza, ma era qualcosa di più. Sconcertante, forse? Poi, ricordando le buone maniere, gli porse la mano e le labbra di lui sfiorarono il guanto di seta che le copriva il braccio fino alla spalla nuda.

«Mr Ravasinghe. Come sta?»

«Lei è davvero incantevole stasera. Non balla?»

«Grazie». Gwen sorrise, lieta di aver catturato la sua attenzione, ma sentendosi poi un po’ a disagio. «Laurence è laggiù con la sorella».

Lui annuì. «Ah già. Verity Hooper».

«La conosce».

Lui chinò il capo. «Le nostre strade si sono incrociate».

«Io l’ho appena conosciuta. Sembra molto affezionata a Laurence».

«Sì, devo riconoscerlo». Fece una pausa e le sorrise. «Gradirebbe concedermi un ballo, signora Hooper, una volta che sarà ritornata l’orchestra?»

«La prego, mi chiami Gwen. Ma non sono sicura di poter ballare». Si guardò attorno e vide Fran che rientrava nella stanza dall’entrata opposta, accompagnata a braccetto da qualcuno. Come al solito era appariscente al punto giusto nel suo scarlatto vestito swing, con le scarpe coi bottoncini rossi abbinate.

«Oh, guardi. Devo presentarla a mia cugina, nonché migliore amica, Frances Myant».

Mentre Fran si avvicinava, Gwen notò l’immediata attrazione tra Savi Ravasinghe e sua cugina Fran. Si fissarono l’un l’altra veramente troppo a lungo, e quando si accorse che lui non riusciva a spiccicare parola, Gwen guardò l’amica e realizzò che non era mai stata così bella. Con un sorriso accomodante e uno sguardo disinibito negli occhi risplendeva di salute e fascino. Ma più di tutto, ciò che rendeva Fran così attraente era il suo entusiasmo per la vita. La sua sicurezza sembrava calamitare le persone verso di lei, come se standole vicino qualcosa della sua lucentezza potesse contagiarli. O questo, oppure suscitava disapprovazione.

Per un istante Gwen si sentì punta dalla gelosia. Sebbene nelle due occasioni in cui si erano incontrati Savi Ravasinghe l’avesse apertamente apprezzata, non l’aveva mai guardata a quel modo. E la verità era che quando lo sguardo di lui aveva indugiato su di lei aveva provato imbarazzo ed era arrossita. Ora si sentiva una sciocca. Si era interessato a lei alla stregua di un fratello maggiore, prendendola sotto la sua ala, e perfino la sua proposta di ballare, poco prima, forse era stato un semplice atto di gentilezza. Tossì per attirare la loro attenzione e riuscì a presentarli.

«Guarda che ti ho portato», disse Fran. Le porse due dischi registrati con il nuovo microfono elettronico. «Vado a chiedere a quel giovanotto di metterli». Indicò un uomo con un vestito da sera che si occupava di un grammofono a manovella. «Balla il charleston, Mr Ravasinghe?».

Lui scosse la testa, fingendosi costernato.

Fran sorrise e gli prese il braccio. «Non c’è problema, lo insegno a tutti e due».

Alle spalle di sua cugina, Gwen vide che Laurence era stato abbordato da Christina, la vedova americana. Era la classica donna sempre circondata da uno stuolo di ammiratori. A ciò di certo contribuiva l’attillato abito nero di raso, tagliato di sbieco, che le cadeva a pennello accentuando le curve. Gwen guardò l’onda di capelli sulla fronte di Laurence e avvertì l’impulso irrefrenabile di attraversare la stanza e reclamare suo marito. Alzò la mano per fargli un cenno, ma poi notò che Laurence non solo non l’aveva vista, ma non smetteva nemmeno di sorridere a quella donna. Fu costretta a soffocare la gelosia nel momento in cui la donna sfiorò con una mano la guancia di suo marito. Quando Laurence finalmente alzò lo sguardo e si accorse che lo fissava, fece un piccolo cenno con il capo a Christina prima di attraversare la stanza.

«Gwendolyn, eccoti qua».

«Che vi stavate dicendo tu e quella donna?». Non riuscì a impedire che la sua voce assumesse un tono stizzito.

Lui fece una smorfia. «Affari».

Lei socchiuse gli occhi e fece un profondo respiro. «Laurence, ho visto che ti sfiorava il viso».

Suo marito scoppiò a ridere.

«Non è divertente…».

Le mise un braccio attorno alla vita e attirandola a sé sorrise. «Io ho occhi solo per te. E comunque lei possiede una banca».

Lo disse con tono definitivo, come se quel fatto chiudesse la questione. Poi il suo volto si rabbuiò e diventò più serio.

«A proposito, ti ho visto parlare con Ravasinghe. Senti, divertiti, balla il charleston con Fran, fai ciò che vuoi, ma preferirei che tu non trascorressi del tempo con lui».

Gwen si liberò del suo braccio. «Non ti piace?»

«Non ha importanza se mi piace o meno».

«E allora? Non sarà perché è singalese».

«Mi auguro che tu non abbia una così bassa considerazione di me».

«No, in effetti. Ma comunque penso che Mr Ravasinghe sia un uomo affascinante».

Laurence le rivolse uno sguardo inquieto. «Affascinante? È questo ciò che pensi?»

«Sì». Lei fece una pausa per qualche istante. «I tuoi conoscenti singalesi vengono mai a casa?»

«Di tanto in tanto».

«E noi andiamo da loro?»

«So che ti può sembrare strano, ma no, neanche da quelli relativamente benestanti come Ravasinghe». Scosse la testa e quando parlò di nuovo il tono della voce era cambiato. «Si dà il caso che stia dipingendo il ritratto di Christina».

«È un pittore? Non lo sapevo. Lo dici come se ti importasse».

«E perché dovrebbe importarmi?» disse. «Ora vorrei sfoggiarti con alcune persone».

«Oh no. Fran sta per insegnare a me e a Savi a ballare il charleston». Lievemente irritata, gli voltò le spalle e seguì gli altri due verso il grammofono.

Laurence non le si avvicinò più. Mentre fingeva di guardare altrove, Gwen lo vide ballare con Christina più di una volta. Cercò di essere superiore, ma vederli insieme le dava il voltastomaco. Che bella faccia tosta aveva Laurence a dirle con chi poteva passare del tempo, quando quella donna gli si strusciava addosso e gli accarezzava il viso come se fosse di sua proprietà! Quello spettacolo le fece venire un diavolo per capello e tracannò diversi bicchieri di champagne.

Per circa un’ora, Fran, Savi Ravasinghe e Gwen si esercitarono con il charleston, sotto gli sguardi di biasimo malamente dissimulati di alcuni dei presenti più anziani, che indubbiamente fremevano per il ritorno dell’orchestra che avrebbe consentito loro di continuare con valzer e fox-trot. Un paio tra i più giovani si erano uniti a loro, e per un po’ anche Verity aveva partecipato, ridendo così tanto che Gwen provò un moto di simpatia per lei.

A un certo punto, quando Fran era sparita chissà dove e Verity non si vedeva da nessuna parte, Gwen crollò, e la precedente spavalderia svanì. Afferrò un altro bicchiere di champagne dal vassoio di un cameriere di passaggio, lasciò la sala da ballo e uscì nella hall, dove si appoggiò alla parete dietro la tromba delle scale. Un tantino alticcia, si chiese come strappare Laurence dalle grinfie di quell’americana.

Quando Savi Ravasinghe le si avvicinò, le si stavano chiudendo gli occhi.

«Aspetti qui», disse. «Vado a cercare suo marito».

«Mi sento svenire. La prego non mi lasci».

«D’accordo. Qual è la sua stanza? L’aiuto a salire le scale».

Lei ridacchiò. «Forse sono un po’ ubriaca».

Lui le tolse il bicchiere dalle mani e lo posò su un tavolo. «Nulla che un bicchiere d’acqua e un buon sonno non possano curare. Venga, si appoggi a me».

Le baciò la mano inguantata e la prese sottobraccio. Attraverso la seta del vestito lei sentì la mano fredda di lui in contrasto con il calore del suo corpo. Da qualche parte nella sua mente sapeva che non era del tutto appropriato permettere a uno sconosciuto di accompagnarla di sopra, ma dopo il modo in cui Laurence aveva ballato con Christina, decise di gettare al vento la cautela.

«Ha la chiave?»

«È nella mia borsetta». Si fermò a guardarlo. «Pare che lei mi tiri sempre fuori dai guai».

Lui si mise a ridere. «Be’, se lei insiste nel ficcarcisi».

«Ho un po’ di nausea».

«Va bene. Andiamo di sopra, signora Hooper». Le diede una stretta rassicurante, e lei sentì le ginocchia cedere. «Si tenga al mio braccio, e una volta che l’avrò sistemata, andrò a cercare sua cugina».

Mentre Savi l’aiutava a salire qualche gradino, Gwen sentì un rumore di passi. Alzò lo sguardo e vide Florence Shoebotham che si avvicinava, con il naso lucido e il doppio mento tremolante. A quel doppio mento mancava solo la parola, pensò Gwen, mentre aspettava un commento tagliente, ma rimase sorpresa quando Florence se ne andò senza dire nulla.

«Accidenti! Probabilmente lo dirà a Laurence».

«Gli dirà cosa?».

Gestiolò con le mani e si sentì girare la testa. «Oh, niente, soltanto che sono brilla».

Mr Ravasinghe la condusse nella stanza ed entrarono insieme. Gwen sentì le dita di lui sulle sue caviglie e la sua vicinanza la rese nervosa mentre le toglieva le scarpe. Sforzandosi di non rivelare che stava provando qualcosa che non avrebbe dovuto, si morse il labbro. Lui la aiutò a stendersi sul letto. Quando lei chiuse gli occhi, lui le accarezzò dolcemente la tempia. Era piacevole, e avrebbe voluto che continuasse, ma vergognandosene, si scostò leggermente.

«Io amo Laurence», biascicò.

«Ma certamente. Ha ancora la nausea?»

«Un pochino. Nella stanza gira tutto».

«Allora resterò finché non si addormenta. Non voglio lasciarla sola se dovesse sentirsi male».

Era un uomo adorabile, pensò lei nel suo delirio da ubriaca, e poi lo disse ad alta voce. Infine le venne il singhiozzo, e si mise la mano sulla bocca. «Ops!».

Lui continuò ad accarezzarle dolcemente il viso.

Una parte di lei sapeva che avrebbe dovuto chiedergli di andarsene, ma dal momento che si sentiva così sola e aveva nostalgia di casa, quello era il tipo di contatto che aveva tanto desiderato; inoltre, ogni pensiero di genuina prudenza era sparito insieme all’ultima coppa di champagne. Un’immagine di Christina, fasciata nel suo vestito nero, che faceva gli occhi dolci a Laurence, le fece bruciare gli occhi e borbottò qualcosa tra sé e sé.

«Posso aiutarla a stare più comoda, se vuole».

«Grazie».

Le tenne il bicchiere mentre lei sorseggiava un po’ d’acqua e poi le infilò un altro cuscino sotto la testa. Gwen si tolse lo scialle perché sentiva troppo caldo; entrava e usciva da un sonno febbrile e le sembrò di andare a fuoco. Stesa sul letto con le braccia aperte, sentiva la testa che le doleva. A volte Mr Ravasinghe era ancora con lei, o almeno le pareva che ci fosse, e a volte non c’era più. Fece sogni veramente inquietanti in cui Mr Ravasinghe la toccava, e lei allungava le mani verso di lui, e all’improvviso lui si trasformava in Laurence e a quel punto era tutto a posto. Le era concesso fare l’amore con suo marito. Quando si svegliò, si accorse che doveva essersi sbottonata il vestito e abbassata le calze durante il sonno – in effetti, ricordava di aver sentito un caldo terribile. Le sue nuove culotte di seta giacevano a terra. Quando Fran ricomparve nel cuore della notte, ordinò a Gwen di mettersi sotto le coperte.

«Guarda come sei ridotta, Gwen, mezza nuda e tutta strapazzata. Che diavolo hai fatto?»

«Non me lo ricordo».

«Puzzi d’alcol».

«Ho bevuto, Franny», disse Gwen ancora stordita. «Ho bevuto champagne».

Fran spense la lampada a gas e si infilò nel suo stesso letto, accoccolandosi stretta vicino a lei, come facevano da bambine.

Il mattino seguente, dopo la colazione, Fran non si trovava da nessuna parte, e Verity era andata a fare una passeggiata. Laurence sembrava di buonumore, e le chiese se si era divertita. Lei rispose di sì, ma ammise di aver esagerato con le bollicine e di esser andata a letto presto con il mal di testa.

«Ti ho cercata ma non ti ho trovata, e Verity ha detto che probabilmente eri salita di sopra e che Fran era con te».

«Anche Verity era piuttosto sbronza. Perché non sei venuto a controllare?»

«Non volevo svegliarti». Sorrise. «Penso che tu e Fran abbiate dato al nostro compassato gruppo di amici una bella scossa».

Il volto di Gwen andò in fiamme. I ricordi della notte precedente erano piuttosto confusi, ma ricordava di essersi sentita terribilmente stordita e che Mr Ravasinghe l’aveva accompagnata su per le scale.

Guardò suo marito e pensò a cosa dire. «Ti sei divertito a ballare con Christina?», chiese cercando di mantenere un tono leggero, ma senza riuscirci.

Lui fece spallucce e imburrò il suo pane tostato, poi vi spalmò un bello strato di marmellata. «È una vecchia amica».

«Non c’è altro?».

Lui la guardò e sorrise. «Ora non c’è altro».

«E prima c’era?»

«Sì, prima di te, c’era qualcosa».

Gwen si morse il labbro. Sapeva che non era giusto, ma non riuscì a evitare di sentirsi ferita. «E ora è finita?»

«Del tutto».

«Non sembrava».

Lui si accigliò. «A lei piace provocare. Non farci caso».

«Quindi non è a causa sua».

«Che cosa?».

Lei fece un profondo respiro. «Il tuo comportamento».

Si era solo immaginata di vederlo rabbuiato mentre scuoteva la testa, oppure era vero?

«E anche lei pensa che sia finita, giusto?»

«Ma Gwen, cos’è, l’inquisizione spagnola? Ti ho detto che non c’è più nulla tra noi».

«Ed era questo che stavi per dirmi ieri?».

Rimase perplesso.

«Quando siamo arrivati, nel foyer».

«Ah, quello… sì… sì, certo».

Lei decise di non proseguire oltre. Cercò un altro argomento di cui parlare, e poi se lo ricordò. Quella era l’occasione giusta per sollevare la questione della piccola tomba che aveva trovato. Bevve il tè e si tamponò la bocca, e poi finì il pane e la marmellata – appositamente importata da Fortnum & Mason, notò – gli fece un piccolo sorriso e parlò.

«Chi era Thomas, Laurence?».

Il suo corpo si irrigidì e il suo sguardo non si sollevò su di lei.

Laurence rimase in silenzio e Gwen percepì distintamente i rumori della colazione: i frammentari mormorii tipici del primo mattino, i camerieri dal passo felpato, il raffinato tintinnio delle porcellane. Il tempo si dilatò e Gwen si sentì a disagio. Laurence aveva intenzione di dire qualcosa? Sentì un formicolio partirle dalla nuca e non poté fare a meno di appoggiarsi leggermente alla sedia. Imburrò un altro pezzo di pane e poi allungò una mano per offrirglielo.

«Laurence?».

Lui alzò lo sguardo, e mentre con un gesto secco afferrava la fetta di pane dalla mano di Gwen, fu come se avesse cancellato dagli occhi ogni espressione. «Sarebbe stato meglio se non avessi curiosato in giro».

La sua voce era piatta, ma lei avvertì il tono di rimprovero e si accigliò, in parte sgomenta, in parte arrabbiata. «Non ho curiosato in giro, come dici tu. Stavo cercando il posto giusto per il mio pergolato. E comunque, Spew si è infilato là dentro e sono dovuta andare a prenderlo. Non avevo idea di incappare in una tomba».

«Il tuo pergolato?». Fece un respiro profondo e tremolante.

«Sì».

Ci fu una breve pausa.

«Ti prego, dimmelo. Chi era Thomas?».

Mentre espirava, Laurence non sembrava nemmeno vederla. Gwen diede un ultimo morso alla fetta di pane e lo guardò con attenzione mentre lui si strofinava il mento.

«È tristissimo che stia tutto solo laggiù. Perché non è stato sepolto vicino alla chiesa? Di solito non si seppelliscono le persone in giardino, anche se si tratta soltanto un bambino». Bevve un altro sorso di tè.

«Thomas non era soltanto un bambino. Era il figlio di Caroline».

Il tè le andò quasi di traverso.

Ci fu silenzio mentre Laurence si puliva la bocca, e, dopo aver posato il tovagliolo stropicciato, si schiarì la voce come se stesse per dire qualcosa. Ma non lo fece, e lei trasse un profondo respiro.

«Intendi dire figlio solo di Caroline?»

«Il figlio di Caroline… e il mio». Laurence si alzò in piedi e abbandonò il tavolo.

Gwen si lasciò cadere contro lo schienale della sedia ed espirò lentamente. Tutto quel che sapeva di Caroline gliel’aveva raccontato Laurence la prima volta che si erano visti. Le aveva detto di essere già stato sposato, che sua moglie si era ammalata, e poi era morta. Neanche una parola su un bambino. Le dispiacque tantissimo, ma si chiese perché non gliel’avesse mai detto. E se era così importante per lui – e chiaramente lo era – perché permetteva all’erba di crescere indisturbata sulla tomba del figlio?