Capitolo 25
La settimana seguente fu molto tesa. In casa si avvertiva un’aria triste, pesante. Gwen tentò coraggiosamente di mantenere un’apparenza di normalità per Hugh, mentre fu presto chiaro a tutti che Verity stava esagerando un po’ troppo con l’alcol. Di punto in bianco, si chiudeva in sé stessa si ritirava in camera sua per ore, e a volte Gwen l’aveva sentita singhiozzare. In altri momenti invece era irritabile, al punto di perdere la pazienza persino con Hugh. Un paio di volte Gwen si era trovata costretta a riprenderla e nel cuore della notte l’aveva sentita sgattaiolare in camera di Laurence. Quando riscendeva al pianterreno, Verity sembrava sempre malinconica e vagava per la casa come una creatura inquieta, alta e magra.
Non esisteva un manuale di istruzioni che aiutasse Gwen a comprendere meglio sua cognata, e in più adesso era preoccupata anche della sua salute mentale. Un conto erano gli sbalzi d’umore, ma quello! Quando provò a chiederle cosa non andasse, Verity chiuse gli occhi e scosse la testa. Sua cognata non aveva alcuna intenzione di rivelarle i suoi sentimenti e alla fine Gwen si decise a rassegnarsi al fatto che gli eventi facessero il loro corso. Avrebbe anche potuto godere dell’infelicità di Verity, ma quella vendetta, se effettivamente si poteva chiamare così, non era dolce come si sarebbe potuto pensare. In effetti, Gwen provava una certa pietà per la ragazza.
Gwen era ancora arrabbiata per quanto era accaduto con McGregor e tentava in tutti i modi di evitarlo. Durante le lunghe e vuote settimane prima del ritorno di Laurence si tormentò per la morte del domestico, sentendosi sola e insicura. Si dedicò ai suoi compiti di amministratrice della casa: decidere i menu, assicurarsi che nessuno rubasse il bucato, tenere d’occhio i conti. Ma il suo sogno di ricominciare a produrre il formaggio per il momento doveva essere messo da parte.
Durante le giornate di vento che facevano scricchiolare le travi del bungalow le capitava di sentire i passi di sua figlia. In quelle occasioni restava immobile, come se aspettasse qualche notizia portata dal vento, oppure, per rompere quell’incantesimo, compilava l’inventario delle merci stipate nel magazzino. Ma neanche quell’occupazione meccanica e noiosa riusciva a distrarla.
Una mattina scese in cucina e vi trovò McGregor. Il sorvegliante aveva l’aria cupa.
«Mr McGregor», disse, voltandosi per andarsene.
«Beviamoci un tè insieme, Mrs Hooper», rispose lui con un tono meno brusco del solito.
Gwen rimase sorpresa ed esitò un istante.
«Non si preoccupi, non mordo».
«Ne lo credo di certo».
Il sorvegliante prese un’altra tazza e le versò del tè, mentre lei si sedeva al capo opposto del tavolo.
«Ho sempre lavorato nelle piantagioni di tè», disse lui senza guardarla in faccia.
«Laurence me l’ha detto».
«Conosco bene i braccianti. Poi ecco che arriva lei e vuole fare a modo suo. Lei non sa nulla di loro, Mrs Hooper, perché vuole cambiare tutto?».
Gwen fece per rispondere, ma McGregor alzò una mano e lei percepì un lieve odore di whisky.
«Mi faccia finire. Il punto è… ed è la cosa peggiore… la cosa che non mi fa dormire la notte…».
Seguì una lunga pausa.
«Mr McGregor?»
«Il punto è che dopotutto, è possibile che lei avesse ragione sulla fustigazione».
«Ed è una cosa così brutta?»
«Forse non per lei, ma…».
Gwen cercò una risposta appropriata. «Cos’è che la preoccupa?».
McGregor esitò e scosse la testa. Ci fu un altro lungo momento in cui la sua mascella si irrigidì e lui parve intento nelle sue riflessioni. Gwen non aveva idea di cosa passasse per la mente di quell’uomo, di cui aveva sempre conosciuto soltanto l’apparenza rozza e scontrosa.
«Quello che mi preoccupa, se proprio vuole saperlo, è che non sono sicuro di riuscire ad abituarmi al cambiamento. Ho passato tutta la vita a lavorare nelle piantagioni, sono stato parte di questo sistema, di questo modo di fare le cose per così tanto tempo… ce l’ho nel sangue, capisce? All’inizio nessuno aveva mai pensato che frustare i negri fosse un problema. Per noi erano a malapena persone, o quantomeno non erano persone nello stesso senso in cui lo siamo io e lei».
«Ma lo sono. E uno di loro è morto».
McGregor annuì. «Ho cambiato opinione su di loro già molto tempo fa. Non sono un uomo crudele, Mrs Hooper. Cerco solo di essere giusto. Spero che lei lo capisca».
«Io credo che per tutti sia possibile cambiare, con lo sforzo adeguato», disse lei.
«Aye» rispose lui. «Basta volerlo. Ho trascorso anni felici qui, ma che le piaccia o no, ormai la nostra permanenza qui ha i giorni contati».
«Dobbiamo solo stare al passo con i tempi».
McGregor sospirò. «Non ci vorranno più, capisce, quando sarà il momento. Tutto questo finirà, nonostante tutto ciò che abbiamo fatto per loro».
«O forse a causa di ciò che abbiamo fatto a loro».
«E io non so dove andrò a finire».
Gwen lo osservò curvare le spalle e percepì tutta la sua rassegnazione.
«Come vanno le cose con i braccianti adesso?»
«La situazione è tranquilla. La morte di quell’uomo ha scioccato loro, tanto quanto noi. E nessuno vuole perdere il lavoro».
«E quelli che hanno appiccato l’incendio?»
«Nessuno è disposto a parlare. Non c’è molto che io possa fare: o faccio una gran cagnara minacciando di coinvolgere le autorità, oppure non mi resta che far sapere che lo ritengo un incidente. E so che sto correndo un bel rischio, ma mi sono deciso per la seconda opzione».
«Crede che ci saranno altri problemi?»
«Chi lo sa? Ma scommetto che i problemi veri li avranno a Colombo. Qui i lavoratori hanno troppo da perdere».
Gwen sospirò. Nessuno di loro aggiunse altro e dopo un po’, realizzando che non avevano effettivamente altro da dirsi, Gwen si alzò.
«Grazie per il tè. Vado a cercare Hugh».
Gwen trascorreva con Hugh gran parte del suo tempo libero. A volte giocavano a far marciare i soldatini contro le schiere di nemici, che di solito erano i cani. Sfortunatamente, questi ultimi non capivano di esser militari condannati alla sconfitta e si mettevano a correre in circolo invece di cadere a terra morti. Hugh gli gridava contro e pestava i piedi.
«A terra, Spew! E anche tu, Bobbins! Dovreste essere morti!».
Quel giorno Hugh correva per tutto il salotto con le braccia allargate fingendo di essere un triplano inglese fino a farsi girare la testa.
«Mamma, fai anche tu l’aereo. Puoi essere un aereo tedesco e possiamo fare un duello in aria».
Lei rabbrividì al solo pensiero di un combattimento aereo nel cielo. «Tesoro, non ho molta voglia adesso. Perché non chiedi a zia Verity di leggerti una storia?».
Verity prese un libro e Hugh si sedette sul divano accanto a lei.
«Che libro è?», chiese Gwen, aggrottando la fronte e guardando oltre la spalla di Verity. Gwen preferiva i racconti di Beatrix Potter e sosteneva che il libro scelto da Verity, le favole di Hans Christian Andersen, potessero spaventare Hugh. Quella divergenza di opinioni tra loro due andava avanti da parecchio.
Verity difese la sua posizione. «Non è più un bambino piccolo. Solo un minuto fa non stava facendo finta di essere un bombardiere?»
«Sì».
«Benissimo allora. Le storie di Andersen a volte sono tristi, ma il suo mondo immaginario è meraviglioso. Non voglio che Hugh se lo perda».
«E io non voglio traumatizzarlo a vita».
«Ma Gwen, meglio questo dei fratelli Grimm».
«Questo è vero. Magari quando sarà un po’ più grande».
Verity posò il libro di favole. «Secondo te non ne faccio mai una giusta, eh?».
Gwen si stupì e si esasperò un po’. «Perché non provi con Alice nel paese delle meraviglie?».
Verity scrollò le spalle.
Gwen le porse il libro. «Avanti, Verity, non rovinare sempre tutto».
Verity rimase a fissare il volume, ma non replicò e quando Gwen la guardò notò che aveva le lacrime agli occhi. Forse le mancava suo fratello.
«Che hai?», le chiese.
Verity scosse la testa.
«Non è niente di grave, vero?».
Sua cognata chinò il capo. Gwen si avvicinò e le prese le mani, stringendogliele con dolcezza. «Avanti, cara. Guardami».
Verrity alzò lo sguardo su di lei. «Sai che voglio bene a Hugh, vero?»
«Certo. Non c’è neanche bisogno di dirlo».
Verity sospirò e non disse altro.
Più tardi, poco dopo la caduta di Alice nella tana del bianconiglio, il telefono squillò. Tutti sollevarono di scatto la testa dal libro, ma Gwen fu la prima ad alzarsi in piedi. Quando rispose, una voce gracchiante, che si presentò come l’agente di Laurence a Colombo, la avvisò di aver ricevuto un telegramma in cui lui annunciava il suo ritorno la settimana successiva. McGregor doveva andarlo a prendere al porto. Gwen recitò una preghiera silenziosa e ritornò in salotto. Osservando sua cognata e suo figlio, desiderò poter tenere solo per sé la gioia di quella notizia ancora per un po’.
Verity alzò lo sguardo. «Chi era al telefono?».
Gwen sorrise.
«Avanti, dimmelo. Sembri felice come una pasqua».
Gwen non riuscì a trattenersi oltre. «Laurence sta tornando».
«Quando? È già a Colombo?».
Gwen scosse il capo. «Tra una settimana. Vuole che McGregor lo vada a prendere».
«No», disse Verity. «Ci andremo noi».
Gwen non era sicura di voler fare quel viaggio insieme a Verity e fece una smorfia. «Dovrai guidare tu».
Hugh balzò in piedi e batté le mani.
Anche Verity si alzò, prese in braccio Hugh e lo fece volteggiare in aria.
«Vorrei organizzare una festa di bentornato», annunciò Gwen. «Sono stati mesi duri e ci meritiamo tutti un po’ di divertimento».
«Non dovevamo tirare la cinghia?»
«Sarà una festa sobria».
Verity posò a terra Hugh e fece qualche passo indietro, scrutando Gwen per un minuto buono.
«Possiamo fare giusto qualche canapè, e punch alla frutta. Useremo solo il miele degli alveari e i frutti dei nostri alberi. Così nessuno si accorgerà dell’alcol di bassa qualità. E possiamo fare a meno di chiamare un quartetto d’archi, ci basterà il grammofono».
Verity sorrise e Gwen realizzò che non vedeva sua cognata così felice da settimane.
«Spenderemo il meno possibile. Laurence si infurierebbe se tornasse a casa e scoprisse che abbiamo sperperato troppo per una festa. Ma dovremo occuparci dei preparativi, quindi forse è meglio che vada McGregor a prenderlo, dopotutto».
Verity scosse la testa. «Non vorrai lasciare che sia McGregor a parlargli per primo. Lui gli racconterà quello che vuole. Pensa ancora che l’incendio e la morte di quell’uomo siano colpa tua, per via della ragazzina ferita».
«Pensavo che si fosse un po’ ammorbidito».
«E chi lo sa? Ma davvero vuoi che Laurence parli con lui senza che tu abbia la possibilità di raccontargli prima la tua versione?»
«Immagino che potrei andare da sola allora».
«Gwen, so che hai fatto un po’ di pratica con l’auto nei dintorni, ma qui si tratta di arrivare fino a Colombo. Non è un percorso facile. E se avessi un incidente?».
Gwen sapeva che Verity aveva ragione.
«Ascoltami. I domestici sono abituati a organizzare le feste sfarzose di un tempo, quando non si badava a spese. Tu rimani qui ad assicurarti che tutto sia perfetto come vuoi tu. Mentre ti occupi di questo, ci penserò io ad andare a prendere Laurence».
«Vorrei davvero venire, ma come faccio a lasciare da solo Hugh quando tutti sono così affaccendati?». Non volendo rischiare di rovinare la felicità di sua cognata, Gwen acconsentì a lasciarla andare.
«Bene, allora è deciso. Buttiamo giù una lista».
Due giorni più tardi Gwen si alzò presto. Si fermò in piedi appena fuori dalla sua stanza, con indosso la vestaglia, e scrutò la foschia bianca che si insinuava tra il verde intenso e gli alberi. Adorava il lago, la vista delle colline che lo circondavano e il rumore dell’acqua nelle minuscole insenature. Qualsiasi cosa dovesse accadere, pregò di non dover lasciare Ceylon. Per lei era diventato il posto più bello del mondo e anche se i suoi genitori le mancavano, la piantagione Hooper ormai era la sua casa.
Poco più tardi andò in terrazza, dove i domestici stavano già preparando il tavolo per la colazione. Si sedette su una comoda poltrona di vimini e osservò gli uccelli saltellare sul vialetto di ghiaia. Verity passò un momento per dirle che stava partendo per Colombo prima del previsto. Aveva qualche commissione personale da fare prima di andare a prendere Laurence al porto. In realtà sperava di riuscire a vedere la mostra d’arte di Savi Ravasinghe. Lui era entrato nelle grazie dei critici d’arte di New York, perciò non capitava più molto spesso che esponesse i suoi quadri a Ceylon. Verity sarebbe stata via per cinque giorni e sperava che a Gwen non dispiacesse.
Lei scosse il capo. Provò un brivido nel sentire il nome del pittore, anche se fu felice di sapere che non l’avrebbe rivisto tanto presto. «Va’ pure. Basta che riporti a casa tuo fratello sano e salvo».
«Gira voce di un altro sciopero al porto, anche per questo è meglio andare in anticipo».
Gwen sospirò. L’aumento della popolazione a Colombo aveva causato una scarsità di riso, che aveva già provocato uno sciopero dei tram. Un altro sciopero dei portuali sarebbe stato ancora peggio. Tuttavia, era anche consapevole che la partenza anticipata di Verity le toglieva qualsiasi possibilità di cambiare idea all’ultimo e di andare anche lei, a meno che non fosse disposta ad affrontare il viaggio in machina insieme a McGregor.
«Allora vado». Verity si alzò, diede un bacio sulla guancia a Gwen e salutò Hugh che stava giocando sull’erba con Ginger. E poi se ne andò.
Gwen aveva vissuto con il suo segreto così a lungo che l’iniziale sofferenza per la perdita della figlia si era trasformata in un dolore sordo e persistente. A volte era felice di stare da sola, anche perché senza Verity sempre intorno era libera di dare sfogo al suo cuore. Si chiedeva spesso che aspetto avesse la figlia adesso. Era robusta come Hugh o piccola e delicata come lei?
Le sarebbe piaciuto tornare al villaggio. Prese a camminare avanti e indietro, scuotendo il capo e fermandosi ad ascoltare i rumori della casa mentre rifletteva. Immaginò la pace del villaggio immerso nei suoni della natura, ma sebbene fosse tentata di andarci, il ricordo del suo ultimo tentativo la bloccò. Si rannicchiò sulla poltrona accanto alla finestra e chiuse gli occhi, immaginando Liyoni che nuotava nel lago. Pensò alla sua bambina che correva verso di lei per farsi avvolgere in un morbido asciugamano, e la vide sorridere a sua madre che la coccolava.
Pianse finché non riuscì a scacciare la tristezza, poi si asciugò gli occhi e si lavò la faccia. Forse un giorno, quando Hugh sarebbe stato lontano, a scuola, avrebbe convinto Naveena ad accompagnarla laggiù. L’assenza di quella bambina era ancora in grado di mozzarle il fiato, ma la sua determinazione a non lasciare che il passato rovinasse il suo presente si era dimostrata vincente, specialmente in quel momento in cui Laurence aveva tutti quei problemi. Alla fine doveva essere pratica. Le sue emozioni non potevano rischiare di aggravare la loro difficile ripresa economica, specialmente in quella situazione in cui, oltre alla perdita dei loro investimenti, c’era stata anche un’improvvisa flessione nei prezzi del tè. Gwen inspirò e si chiese come sarebbero andate a finire le cose.