Capitolo 28
Ancora in vestaglia, Gwen tirò fuori tutti i suoi abiti e li posò sul letto, insieme a un paio di rotoli di stoffa da sari che trovava particolarmente graziosa. Trovare un sarto economico stava diventando un’impresa. La situazione continuava a essere difficile e alcune stoffe erano diventate rare e costose. Qualche tempo prima Fran le aveva scritto raccontandole dei nuovi negozi di abiti già pronti da indossare che stavano spuntando in tutta Londra. Gwen si era sentita sollevata nel vedere che la sua relazione con la cugina pareva essersi aggiustata, anche se lei non aveva nominato in alcun modo Ravasinghe. Aveva letto da qualche parte che, proprio come Laurence aveva escogitato dei sistemi per ottimizzare la produzione del tè, anche le case di moda avevano trovato un modo meno costoso di lavorare i tessuti, servendosi di stoffe nuove e più a buon mercato invece che di materiali pregiati. Fran era particolarmente attratta dalle nuove calze velate arrivate dall’America e aveva spedito loro una fotografia che la ritraeva con un le gambe in mostra e un nuovo abito di rayon.
La maggior parte dei vestiti di Gwen era di seta, ma ormai erano assolutamente fuori moda. Stando a quel che diceva Fran, nessuno a Londra o a New York si sarebbe mai fatto vedere in giro con un abito charleston. Sua cugina le aveva persino mandato una copia di «La brava donna di casa» per provarlo.
Gwen scrutò le pagine aperte della rivista. Alcune delle ragazze indossavano degli abiti due pezzi con sopra una semplice maglia o un piccolo cardigan. Le gonne erano più strette e lunghe. Era un nuovo look asciutto che immaginava stesse benissimo a Fran, ma anche alla figuretta smilza di Verity avrebbe conferito un tocco di eleganza. Con i capelli arricciati e un po’ di rossetto rosso sarebbe stata perfetta. Minuta com’era, Gwen preferiva di gran lunga le gonne corte degli anni Venti.
Tuttavia il suo obiettivo quel giorno non era aggiornare il guardaroba, ma decidere quali abiti dare a Naveena perché li riadattasse per Liyoni. Ne prese un paio di seta, poi però li scartò. Una domestica vestita di seta avrebbe attirato troppa attenzione. Una cosa era provvedere alle necessità di sua figlia a distanza, un’altra invece farlo quando lei viveva sotto il suo stesso tetto. Non aveva dormito neanche un minuto da quando la bambina era arrivata e per la maggior parte del tempo il nodo che sentiva allo stomaco le aveva reso impossibile mangiare. Trasalì nel sentire un rumore fuori dalla camera e capì di dover fare qualcosa per non cedere al terrore che l’attanagliava.
Prese alcuni dei suoi vecchi abiti di cotone – quella stoffa morbida sarebbe andata bene per una bambina – e creò una piccola pila di vestiti: un paio di gonne, e un abito rosso di broderie che aveva adorato, ma che aveva un grosso strappo. Raccolse gli abiti che aveva scelto e li portò nella nursery.
Naveena era seduta sul pavimento di fronte a un abaco e, mentre la bambina spostava le palline contando in singalese, le ripeteva i numeri in inglese.
«Che ne pensi di presentarla al resto dei domestici?», disse Gwen.
Naveena alzò lo sguardo. «Signora, non si preoccupi. Ci penso io».
«Ho detto a Laurence che hai portato una tua parente orfana a vivere qui».
Aveva mentito a Laurence con le gambe che le tremavano e, quando lui aveva alzato gli occhi dal giornale e aggrottato la fronte, aveva dovuto darsi un pizzicotto per non scoppiare a piangere.
«Tesoro, ma Naveena non ha parenti. Siamo noi la sua famiglia».
Gwen aveva preso un profondo respiro. «A quanto pare invece aveva qualcuno. Una lontana cugina».
Nel silenzio che era seguito Gwen aveva giocherellato con l’orlo della gonna e le forcine che aveva nei capelli, tentando di calmare i nervi.
«Non mi piace questa storia», aveva detto lui. «Naveena è una donna di buon cuore e sospetto che qualcuno le abbia raccontato una storia inventata di sana pianta su questa lontana parente. Le parlerò».
«No!».
Laurence era parso sorpreso.
«Insomma, hai sempre detto che la gestione della casa era una mia responsabilità. Lascia che me ne occupi io».
Gwen era rimasta in attesa, sorridendo mentre Laurence rifletteva. «Molto bene. Ma dovremmo trovarle una sistemazione adeguata».
Gwen scosse la testa a quel ricordo e tornò a guardare Naveena. «Laurence non è affatto contento e Verity è curiosa come una scimmia».
Naveena scosse il capo.
«Pensi davvero che dovrei fidarmi di mia cognata?»
«Dopo che altra signora è morta, ragazza non felice. E persone infelici può fare cose cattive. Anche persone spaventate».
«Verity è spaventata?».
Naveena scrollò le spalle.
«E da cosa?»
«Non posso dire…».
La voce di Naveena si spense e seguì un momento di silenzio.
L’ayah non avrebbe detto altro. Era raro che esternasse i suoi pensieri, specialmente quelli che riguardavano la famiglia, e non importava quanto Gwen la incalzasse. Non riusciva a pensare ad alcuna ragione che giustificasse le paure di Verity, a parte il timore di perdere il fratello, che in ogni caso avrebbe spiegato la sua depressione e il suo attaccamento a lui.
«Non ho detto niente a Hugh e lui ancora non l’ha vista».
Naveena chinò il capo e proseguì con la lezione.
«Magari puoi portarla a fare una passeggiata più tardi, quando Hugh fa il riposino».
Durante il dessert, Laurence aprì la posta. Non c’era nulla di interessante per Gwen, a parte un altro messaggio di Fran con la fotografia degli ultimi modelli di abiti. Gwen fu felice di percepire dal tono della lettera che le cose erano tornate normali tra loro.
Laurence aprì un pacchetto di forma cilindrica. Ne sbucò fuori una rivista che si srotolò da sola sulla tovaglia.
«Che diavolo è?», disse lui prendendola e lisciando le pagine. «Sembra una rivista americana».
«Posso alzarmi da tavola, mamma?», squittì Hugh.
«Sì, ma niente corse finché non avrai digerito. E non andare da solo vicino al lago. Promesso?».
Hugh annuì, anche se Gwen l’aveva già sorpreso una volta a tentare di pescare da un basso promontorio a pelo sull’acqua.
Hugh uscì e Laurence aggrottò ancora di più la fronte.
«C’è anche un messaggio?», gli chiese lei.
Laurence afferrò la rivista e la scrollò. Dalle pagine uscì fuori una busta.
«Ecco qui», disse Gwen. «Da parte di chi è?»
«Dammi un momento». Laurence aprì la busta e la fissò con le sopracciglia inarcate. «È da parte di Christina».
«Santo cielo! E cosa dice?». Gwen tentò di mantenere un tono di voce composto, ma per la prima volta in tre anni si sentiva turbata nel sentir pronunciare il nome di Christina.
Laurence scorse il messaggio, poi alzò lo sguardo su Gwen. «Dice che ha avuto una splendida idea per noi e ci invita a sfogliare la rivista e a indovinare di che si tratta».
Gwen si pulì la bocca e posò il cucchiaio del dolce. Aveva lo stomaco annodato e non sarebbe riuscita a mandar giù più niente. «Sul serio? Non ne abbiamo avuto abbastanza delle idee di Christina?».
Laurence alzò gli occhi nel sentire quel tono brusco, poi scosse la testa e prese a sfogliare le pagine. «Non è stata colpa sua, sai. Nessuno aveva previsto il crollo di Wall Street».
Gwen strinse le labbra ma tenne per sé le proprie opinioni. «Allora, cosa c’è in questa rivista?»
«Chi lo sa. Sembrano solo sciocchezze. Un’infinità di pubblicità di lucido da scarpe, e di detergente in polvere e roba del genere. E in mezzo ogni tanto un articolo».
«Credi che abbia comprato la rivista?»
«Improbabile. Dice solo che ha avuto un’idea che potrà cambiare la nostra sorte».
«Ma perché dovrebbe interessarci una rivista così?».
Laurence la posò e fece per andarsene. Gwen gli chiese se poteva usare la Daimler per andare a Hatton. Ora che aveva sistemato la questione delle stoffe, le servivano bottoni e filo.
Laurence si fermò in piedi sulla soglia con la mano sulla maniglia della porta e il mento in fuori.
«Allora posso?», chiese Gwen.
Lui esitò ancora per un attimo. «A dir la verità non ho ancora pagato il conto del garage».
«E perché no?».
Laurence arrossì leggermente e distolse lo sguardo. «Non mi va di parlarne. Il mese scorso abbiamo fatto un po’ di fatica, i soldi servivano per pagare i salari. Ma presto tornerà tutto a posto. Dopo la prossima asta».
«Oh, Laurence».
Lui annuì e fece per andarsene, poi si voltò di nuovo e aggiunse in fretta. «Dimenticavo, dice anche che arriverà presto per discutere questa sua idea. Ha chiesto se può fermarsi qui un paio di giorni».
Laurence si chiuse la porta alle spalle e Gwen, sconcertata, espirò lentamente. Era già abbastanza difficile sistemare Liyoni senza destare sospetti, ci mancava solo Christina. E cosa avrebbe fatto se Laurence fosse caduto di nuovo sotto l’incantesimo di quell’americana? Nonostante tutto ciò che le aveva detto per convincerla, continuava a non fidarsi di Christina, e il sospetto che lei avesse dei piani per Laurence le faceva balzare il cuore in gola. Si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi.
Alla fine di quel pomeriggio a Naveena venne la febbre. Non era in grado di lavorare, perciò con il cuore gonfio Gwen si risolse a badare di persona a Liyoni. All’inizio le cose non andarono molto bene. Nel tentativo di calmare il proprio nervosismo, Gwen fu piuttosto brusca e sbrigativa, e la bambina le oppose resistenza, piangendo e aggrappandosi al letto della vecchia ayah. Poi però Naveena le accarezzò una mano e le sussurrò qualcosa, e infine lei cedette e seguì Gwen nel corridoio. Gwen non aveva idea di cosa le avesse detto, ma l’istintiva empatia che Naveena era in grado di suscitare pareva aver calmato la bimba.
Giunte in camera Gwen esaminò i suoi pochi averi. Gli unici vestiti che possedeva erano quelli che aveva indosso, più una cavigliera di perline e qualche straccio logoro.
Portò Liyoni in bagno e le mostrò la vasca. Naveena l’aveva già lavata, ma Gwen voleva darle una bella ripulita prima di presentarla a Hugh. Con qualche esitazione e un po’ di nervosismo, preparò asciugamani e saponi, poi tentò di calmarsi per non comunicare alla bambina la propria ansia. Si era aspettata che Liyoni si opponesse, invece quando l’acqua raggiunse metà vasca, la bimba saltò dentro con tutti i vestiti addosso. La stoffa bagnata le si appicciò alla pelle e la fece sembrare ancora più magrolina, con un collo sottile e la testa coperta da una matassa di capelli ricci, un po’ schiacciati in alcuni punti. Gwen prese un profondo respiro, senza sapere bene come comportarsi. Versò un po’ di shampoo sui capelli di Liyoni e cominciò a strofinarle la cute, con i nervi a fior di pelle. Ma la ragazzina ridacchiò e Gwen sentì il cuore alleggerirsi.
Dopo il bagno, la bambina si spogliò e Gwen le porse un ampio asciugamano bianco. Poi la lasciò sola e andò a prendere una vecchia camicia di Hugh nella nursery. La povera Naveena era pallida e semiaddormentata. Si era affaticata parecchio per una donna della sua età. Gwen le lanciò un’occhiata e si sentì in colpa, poi udì qualcuno gridare e tornò di corsa in camera.
Verity, con il volto paonazzo, stava puntando contro Liyoni il dito tremante, tenendo l’asciugamano con la punta delle dita. Gwen fu colta dal terrore.
«L’ho scoperta a rubare l’asciugamano», disse Verity.
La bambina nuda era in piedi davanti al letto con un’aria terrorizzata e i capelli che gocciolavano sul pavimento.
Gwen provò un istante di pura angoscia, poi raddrizzò la schiena e si sentì così arrabbiata che dovette sforzarsi di non colpire Verity. «Non lo stava rubando. Le ho fatto fare un bagno. Dammi l’asciugamano».
Verity se lo tenne. «Che cosa? E intanto Hugh è fuori a giocare da solo!».
«Hugh sta bene», disse Gwen non dando peso alle parole di Verity. Si avvicinò e le strappò l’asciugamano, poi si chinò ad avvolgerlo di nuovo intorno a Liyoni.
«Ma sei impazzita? Non può stare nella tua stanza, Gwen. Sarà piena di parassiti».
«Che vuoi dire?»
«Pidocchi, Gwen. E insetti».
«È pulita. Ha appena fatto il bagno».
«Hai detto che era qui per aiutare Naveena. È una domestica. Non puoi trattarla come se fosse una di noi».
«Non sto facendo niente del genere», sbottò Gwen alzandosi. «Inoltre, Verity, tu non abiti più qui. Questa è casa mia e gradirei che non ti intromettessi nelle mie faccende. Naveena è malata. Questa bambina è sola al mondo. Sto solo compiendo un’opera di carità e, se proprio non riesci a capirlo, allora forse è il caso che te ne torni da tuo marito».
Verity arrossì e brontolò qualcosa, poi rimase in silenzio per qualche minuto.
Gwen si chinò di nuovo per asciugare la bambina, poi si voltò a guardare dietro di sé. «Come mai sei ancora qui?»
«Non puoi capire, Gwen», disse Verity, parlando a voce così bassa che Gwen a malapena la sentì. «Non posso tornare».
«Che cosa?».
Verity arrossì di nuovo, scosse la testa e lasciò di corsa la stanza.
Gwen ricacciò indietro la rabbia. Quello era decisamente il momento sbagliato per portare Liyoni a casa. Il posto si stava facendo veramente troppo affollato. Proprio quando avrebbe avuto bisogno di un po’ di quiete per cominciare con discrezione a conoscere sua figlia, tutte quelle persone le avrebbero fatto domande, avrebbero dovuto essere nutrite e le avrebbero chiesto in continuazione come stava. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era Verity che le ronzava intorno mentre Christina stava appiccicata a Laurence.
Tentò di assumere un’aria sicura mentre prendeva Liyoni per mano, ma in realtà stava tremando. Doveva ancora abituarsi al colore della pelle della ragazzina, ma qualsiasi cosa provasse era di importanza secondaria: prima di tutto doveva provvedere a lei ed evitare di abbassare la guardia.
Il chiasso di Hugh che giocava a palla contro il muro esterno risuonò per tutta la casa. Doveva averla sentita arrivare, perché quando Gwen girò l’angolo smise di lanciare la palla e la fissò con una mano sul fianco. Quella posa, una copia esatta di quella di suo padre, fece sussultare il cuore di Gwen.
«Questa è Liyoni», disse cercando di suonare assolutamente normale mentre attraversava la terrazza. «È una parente di Naveena e vivrà con noi come sua aiutante».
«Perché cammina in modo così strano?»
«Zoppica un po’, tutto qui. Credo che abbia qualcosa a un piede».
Gwen guardò le gambette robuste di Hugh e i suoi pantaloncini macchiati d’erba. Gli piaceva rotolarsi giù per i pendii fermandosi a pochi centimetri dal punto in cui l’erba finiva. Hugh le sorrise e Gwen ricambiò osservando divertita le guance rosa e il naso sporco di fango del bambino. A meno di un metro di distanza da lui, Liyoni appariva ancora più piccola fragile.
«Sa giocare a palla?».
Gwen sorrise di nuovo, attirò suo figlio a sé e lo abbracciò. «Be’, non è qui per giocare con te, Hugh».
Il volto del bambino si intristì. «Perché no? Se non sa come si gioca posso insegnarle io».
«Magari non oggi. Ma potreste andare a nuotare insieme domani. Lei nuota come un pesce».
«Come lo sai?».
Gwen si toccò la punta del naso. «Perché sono un meraviglioso essere supremo che sa tutto e vede tutto».
Hugh rise. «Non essere sciocca, mamma. Quello è Gesù».
«In realtà ho appena avuto una splendida idea. Perché non vieni dentro e insegni a Liyoni un po’ di inglese? Ti va, oppure oggi è uno di quei giorni in cui hai l’argento vivo addosso?»
«Sì che mi va, mamma. E non ho toccato nulla che fosse d’argento in tutta la giornata».
Gwen sorrise a quella risposta scherzosa e abbracciò Hugh di nuovo. Poi notò che Liyoni, poco distante, li guardava con aria corrucciata. “Oh poverina”, pensò Gwen, “chissà cosa ha capito. Spero che non pensi che stiamo ridendo di lei”.
Nonostante i dubbi, Gwen doveva ammettere che desiderava passare più tempo con sua figlia. Ogni occasione era buona per guardarla, ma l’abisso tra chi era e chi avrebbe dovuto essere era troppo grande da colmare. Soffriva perché i sentimenti che provava per Liyoni erano così diversi da quelli che provava per Hugh, anche se quando lasciava che i primi venissero a galla completamente e desiderava poter confortare la bambina, non coglieva più esattamente la differenza. Voleva capire come si sentiva Liyoni a stare lì e cosa pensava di tutto. Gwen si tormentava al pensiero di aver abbandonato la figlia quando era indifesa e in fasce, e adesso non desiderava altro che farla sentire al sicuro. Si strofinò gli occhi con il palmo della mano, provando l’impulso di dire a Liyoni che nessuno le avrebbe fatto del male nella sua nuova casa. Ma nel suo cuore sapeva che ciò di cui la bambina aveva bisogno era solo amore.
Quando Naveena si riprese, Gwen si rinchiuse nella propria camera, prigioniera dei suoi sentimenti contrastanti e della paura che farsi vedere troppo spesso con Liyoni potesse tradirla. Le ore si trascinavano lentamente e ogni volta che guardava l’orologio era sorpresa di sentire ancora gli uccelli cantare. Era così che sarebbe stata la sua vita d’ora in poi? Sempre con il fiato corto, sempre a guardarsi le spalle. Ma il tempo che trascorreva in camera non serviva a togliersi di dosso la sensazione di avvicinarsi inesorabilmente al momento in cui tutto quanto sarebbe finito.
Gwen udì la voce di Hugh e si affacciò alla finestra. Il bambino aveva trovato una vecchia corda per saltare e stava cercando di coinvolgere Liyoni. Ma ogni volta che la bambina provava a saltare, finiva per impigliarsi nella corda. Tuttavia, la cosa non pareva disturbarla e Gwen la vide ridacchiare mentre Hugh l’aiutava a liberarsi. Le si spezzò il cuore nel vedere Hugh così felice giocare inconsapevolmente con la sorella gemella.
Naveena uscì fuori e Gwen continuò a guardare tirandosi un po’ indietro, in modo da non essere vista. Nonostante le proteste di Hugh, Naveena portò via Liyoni e poco dopo Gwen sentì le loro voci nella nursery. Aspettò qualche istante e poi entrò. La vecchia ayah stava insegnando alla bambina l’arte di piegare i vestiti. Gwen restò lì per un po’, in disparte rispetto alle due. Liyoni cominciò a cantare in singalese e Naveena canticchiò seguendo il ritmo.
«Cos’è?», chiese Gwen quando ebbero finito.
«Una ninna nanna. Signora, la bambina si stanca facilmente e tossisce».
«Dalle un po’ di sciroppo. Probabilmente si sta solo abituando al cambiamento».
Gwen sentì il suono di passi in corridoio e si affrettò ad andarsene, di colpo nervosa.
Il mattino successivo il tempo era splendido. Gwen era in piedi sulla terrazza e aveva l’impressione che l’aria stessa cantasse tutt’intorno a lei, tra zanzare, api e lo sciabordio dell’acqua del lago. Poi, mentre osservava gli uccelli planare sulla superficie azzurra, si rese conto che qualcuno stava davvero cantando. Era un suono melodioso e argentino, simile a un fischio, e arrivava dal lago. Ma per quanto guardasse, Gwen non riuscì a vedere nessuno.
Hugh arrivò di corsa alle sue spalle e la chiamò. «Mi sono messo il costume da bagno, mamma».
Gwen si voltò e accolse il bambino tra le braccia.
«L’ho vista andare. Volevo andare insieme ma lei non mi ha aspettato».
«Chi tesoro?»
«La nuova bambina».
«Si chiama Liyoni, tesoro».
«Sì, mamma».
«E stai dicendo che è andata a nuotare al lago».
«Sì, mamma».
Gwen sentì un fremito di paura e trattenne il fiato mentre scrutava il lago. E se Liyoni avesse attraversato il lago fino al fiume che la riportava al suo villaggio? Poteva accaderle qualsiasi cosa. Quel pensiero si radicò in lei mentre continuava a osservare l’acqua e mentre sentiva il sangue salirle alla testa, desiderò persino, per un secondo, che il fiume si prendesse la bambina. Ma subito dopo, con la mente in subbuglio e disgustata da se stessa, non riuscì quasi a credere di averlo pensato.
Sentì qualcuno che le tirava una manica.
«Guarda, mamma», disse Hugh. «È su quell’isolotto. È uscita dall’acqua. È brava a nuotare, vero? Io non riesco ad arrivare così lontano».
Gwen emise un sospiro di sollievo.
«Va bene se vado anche io?», chiese Hugh.
Gli era stato insegnato che doveva sempre chiedere il permesso e Gwen si domandò come avrebbe fatto a mantenere quella regola pur consentendo a Liyoni di nuotare a suo piacimento. L’acqua attirava la bambina come una calamita e Gwen sapeva che sarebbe stato più facile chiederle di smettere di respirare piuttosto che rinunciarvi.
Guardò il corpicino robusto di Hugh saltare in acqua sollevando alti spruzzi. Non era un nuotatore provetto, perciò compensava facendo un gran baccano. Continuò a gridare a chiamare finché Liyoni non ritornò. Poco prima di uscire dall’acqua la bimba girò su se stessa come un derviscio rotante, con i capelli che le volavano tutto intorno. Poi entrambi i bambini uscirono e si scrollarono l’acqua di dosso. La piccola cominciò a tossire e Hugh la fissò un po’ in imbarazzo, ma il suo volto si distese quando l’accesso di tosse terminò e Liyoni gli sorrise.
«Dov’è Wilf?», disse Gwen.
«Oh, Wilf è proprio noioso. E comunque non gli piace nuotare».
«Ti va di rientrare e vedere se riusciamo a convincere l’appu a fare dei pancake?»
«La bambina può…».
Gwen si accigliò.
«Volevo dire, Liyoni può venire con noi?»
«Magari solo questa volta».
Hugh tese la mano e afferrò quella di Liyoni e la bambina non parve essere disturbata dal gesto. Gwen li guardò correre insieme mano nella mano e il suo cuore sussultò, gonfio di un sentimento che non aveva mai provato prima per la bimba. Gli occhi le si colmarono di lacrime, ma proprio in quel momento notò Verity che scendeva le scale diretta verso di lei.
«Laurence mi ha chiesto di dirti che vorrebbe parlare con te nel salotto».
«Perché?».
Verity fece un sorrisetto. «Non me l’ha detto».
Gwen si affrettò a raggiungere il salotto e vi trovò Laurence che camminava avanti e indietro con un giornale arrotolato sotto il braccio. Si voltò quando udì il suono dei suoi passi e la guardò con un’espressione indecifrabile. “Sa tutto”, pensò lei durante quel breve momento di silenzio. “Sa tutto e adesso mi butterà fuori. Tentò di pensare a cosa dire”.
«Io…».
Lui la interruppe. «Ho visto Hugh fuori con la bambina. Pensavo che avessimo deciso».
Stordita dalla tensione, Gwen si costrinse a rispondere. «Scusami?».
Laurence si sedette e si appoggiò allo schienale del divano. «La bambina. Pensavo avessimo deciso che non sarebbe rimasta».
Gwen si sforzò di nascondere il sollievo. Non lo sapeva. Rimase in piedi dietro il divano e prese a massaggiargli le spalle. In quel modo non avrebbe potuto guardarla in faccia.
«No. Avevamo deciso che me ne sarei occupata io. E lo sto facendo, solo che non credo stia molto bene. Ha la tosse».
«E lasci che Hugh giochi con lei?».
Gwen si irrigidì. «Sono sicura che non è niente di contagioso e Hugh si sente solo».
Interruppe il massaggio e fece un passo indietro. Laurence si raddrizzò e si voltò per guardarla. «Spero tu sappia che l’avrei aiutata volentieri se fosse stata davvero una parente».
«Laurence, potresti fidarti di me riguardo a questa storia?»
«Avanti, cara. Non sembri più tu. Non voglio mancarti di rispetto, ma mi pare davvero una sciocchezza. Come ho già detto, Naveena non ha parenti».
«È perché è una nativa? È per questo che non vuoi che giochi con Hugh?».
Lui arrossì leggermente.
«È così, non è vero?»
«Ti sbagli. Non è affatto così».
«E allora qual è il motivo?».
Laurence non rispose.
Gwen non era più in grado di gestire i propri sentimenti. Aveva il cuore in frantumi e tutti gli sforzi che aveva fatto per proteggere Laurence e il loro matrimonio le parvero vani. Lui non aveva idea di cosa stesse accadendo, né di cosa fosse accaduto in tutti quegli anni. Aveva ragione, non era più se stessa, ma tenere in equilibrio le diverse esigenze di Hugh, di suo marito e della bambina era diventato un compito impossibile e lui non ne aveva idea. Lo fissò mentre il dolore le martellava le tempie, poi perse completamente il controllo e uscì dal salotto sbattendo la porta.