Capitolo 2
Due giorni dopo Gwen si svegliò presto a causa della luce che filtrava nella stanza attraverso le tende di mussola. Non vedeva l’ora di fare colazione con Laurence, e poi di essere accompagnata al gran tour. Si sedette sul bordo del letto e disfece la treccia, poi scese giù e affondò il piede in un folto tappetino di pelliccia. Guardò in basso e accarezzò il pelo bianco, chiedendosi a quale animale fosse appartenuto. Fuori dal letto, s’infilò una vestaglia di seta chiara che qualcuno aveva sistemato su una sedia vicina.
Erano arrivati alla piantagione, nella zona delle colline, la sera prima, proprio mentre il sole stava tramontando. Con la testa che le doleva per la spossatezza e abbagliata dalle violente tonalità rosse e viola del cielo della sera, Gwen era sprofondata nel letto.
Camminò sulle assi di legno del pavimento e andò alla finestra per scostare le tende. Fece un profondo respiro e guardò fuori. Era il suo primo mattino nel suo nuovo mondo e, sbattendo le palpebre a causa dell’estremo chiarore, udì una raffica di ronzii, fischi e cinguettii che la fece vacillare.
Sotto di lei, delicati, i giardini pieni di fiori scendevano fino al lago susseguendosi in tre terrazze, con sentieri, scalinate e panchine strategicamente posizionate tra gli alberi. Lo stesso lago era color argento, più luccicante che mai. Tutti i ricordi del viaggio in auto del giorno precedente, i terrificanti tornanti, i profondi burroni e i nauseanti sobbalzi, svanirono all’istante. Dietro il lago si elevava un tappeto verde, fatto di arbusti di tè così simmetrici che sembravano cuciti in file. Le raccoglitrici, che indossavano sari dai colori brillanti e sgargianti, erano simili a minuscoli uccellini ricamati. Appena fuori dalla finestra della camera da letto c’era un albero di pompelmo accanto a un altro che non riconobbe, ma che sembrava carico di ciliegie. Ne avrebbe colta qualcuna per colazione, decise. Sul tavolo all’esterno una piccola creatura la fissava con occhi grandi e tondi: sembrava un incrocio tra una scimmia e un gufo. Gwen si voltò di nuovo verso l’enorme letto a baldacchino, avvolto dalla zanzariera. Il copriletto di raso era appena appena spiegazzato e pensò che fosse strano che Laurence non l’avesse raggiunta. Forse voleva permetterle di dormire dopo il viaggio. Udì il cigolio della porta che si apriva e si voltò. «Oh, Laurence, io…».
«Signora, sono Naveena. Ai suoi servigi».
Gwen guardò quella piccola donna tracagnotta. Indossava una lunga gonna a portafoglio blu e gialla e una camicetta bianca, e aveva una lunga treccia grigia che le scendeva lungo la schiena. La faccia rotonda era piena di rughe e gli occhi cerchiati di nero non lasciavano trasparire alcuna emozione.
«Dov’è Laurence?»
«Padrone è al lavoro. Da due ore».
Delusa, Gwen fece un passo indietro e si sedette sul letto.
«Vuole colazione qui?». La donna indicò un tavolino. Ci fu una pausa mentre si fissavano. «O in veranda?»
«Vorrei lavarmi prima. Dov’è il bagno?».
La donna attraversò la stanza e, osservandola, Gwen notò che i suoi capelli e i suoi vestiti erano pervasi da un’insolita fragranza speziata.
«Qui, signora», disse la donna. «Dietro il paravento c’è la stanza da bagno, ma il coolie della latrina non è ancora arrivato».
«Il coolie della latrina?»
«Sì, signora. Arriva presto».
«L’acqua è calda?».
La donna scosse la testa. Gwen non era sicura se fosse un sì oppure un no, e si rese conto di aver palesato la sua perplessità.
«C’è boiler a legna, signora. Legno d’albizia. Acqua calda arriva, mattina e sera, un’ora».
Gwen tenne la testa alta e cercò di sembrare più sicura di quanto non si sentisse. «Molto bene. Prima mi lavo e poi faccio colazione all’aperto».
«Molto bene, signora».
La donna indicò le portefinestre. «Si aprono sulla veranda. Vado e torno. Porto il tè per lei lì».
«Che cos’è quella creatura là fuori?».
La donna si voltò a guardare, ma la creatura se n’era andata.
In totale contrasto con la soffocante umidità di Colombo, lì la mattina fu luminosa e leggermente fredda. Dopo la colazione Gwen colse una ciliegia; il frutto era di un bel rosso scuro, ma quando lo morse lo trovò aspro e lo sputò. Si avvolse le spalle con lo scialle e si mise a ispezionare la casa.
Prima esplorò un corridoio ampio e dal soffitto molto alto che percorreva tutto il perimetro dell’edificio. Il pavimento di legno scuro luccicava e le pareti erano punteggiate da lampade a olio. Annusò l’aria. Si sarebbe aspettata che quel posto odorasse di fumo di sigaro, e in effetti era così, ma c’era anche un forte profumo di olio di cocco e di cera aromatizzata. Laurence lo chiamava bungalow, ma Gwen notò una grande scalinata di tek che portava da un salone arioso a un altro piano. Dalla parte opposta rispetto alle scale, una bellissima credenza intarsiata in madreperla era addossata alla parete e accanto c’era una porta. Gwen l’aprì ed entrò in uno spazioso salotto.
Fece un profondo respiro, aprì le imposte marrone scuro di una delle finestre che percorrevano tutta la parete e vide che anche quella stanza si affacciava sul lago. Si guardò attorno, mentre la luce inondava il locale. Le pareti erano del più delicato verdeazzurro che si potesse immaginare e l’impressione generale era di freschezza, con poltrone apparentemente comode e due divani dai colori tenui sovrastati da cuscini ricamati che raffiguravano uccelli, elefanti e fiori esotici. Una pelle di leopardo penzolava dallo schienale di uno dei divani.
Gwen rimase in piedi su uno dei due tappeti persiani color blu marino e crema, e fece una piroetta con le braccia aperte. Che bella sensazione. Veramente bella. Un profondo ringhio la colse di sorpresa. Guardò verso il basso e si accorse di aver calpestato la zampa di un cane dal pelo corto che dormiva. Le sembrava un labrador nero, tuttavia era diverso da quelli che aveva visto. Fece un passo indietro chiedendosi se mordesse. In quel momento uno straniero di mezz’età entrò praticamente senza far rumore nella stanza. Era un uomo dalle spalle strette, con un piccolo viso color zafferano, e indossava un saròng bianco, una giacca bianca e un turbante, anch’esso bianco.
«Il nome del vecchio cane è Tapper, signora. È il cane preferito del padrone. Io sono maggiordomo e qui c’è spuntino». Le mostrò il vassoio che teneva in mano e lo posò su un piccolo set di tavolini. «Il nostro tè Broken Orange Pekoe».
«Ma ho appena fatto colazione».
«Il padrone tornerà dopo mezzogiorno. Sentirà il corno dei lavoratori, signora, e poi lui arriverà». Indicò uno scaffale di legno dietro il caminetto. «Ci sono riviste da leggere».
«Grazie».
Era un grande caminetto in pietra, con i classici arnesi, pinze in ottone, paletta e attizzatoio, e un enorme cesto pieno di ciocchi. Gwen sorrise. Si prospettava una piacevole serata, lui e lei accoccolati accanto al fuoco.
Le rimaneva soltanto un’ora prima che Laurence ritornasse, così, ignorando il tè, decise di esplorare l’esterno della casa. Erano arrivati al tramonto con la nuova Daimler di Laurence, e lei non aveva potuto vedere bene la facciata. Si incamminò lungo il corridoio verso la sala principale, poi aprì una delle porte nere a due battenti, con una bella lunetta decorativa, e si ritrovò sulla soglia del portone, sotto il portico ombreggiato. Un vialetto di ghiaia, fiancheggiato da liriodendri inframmezzati da palme, conduceva fuori dalla casa, e poi svoltava verso le colline. Alcuni boccioli giacevano a terra sparsi come grandi tulipani arancioni, lucenti sul ciglio erboso.
Gwen aveva voglia di salire sulle colline, ma prima fece il giro attorno alla casa, e trovò una veranda rivolta verso il lago, sebbene con un’angolazione leggermente diversa rispetto alla sua camera da letto. Quella stanza aveva otto colonne di legno nero, un pavimento di marmo e mobili di malacca. Il tavolo era già apparecchiato per il pranzo. Quando un piccolo scoiattolo striato si arrampicò su una delle colonne e scomparve dietro una trave, lei batté le mani. Come sarebbe stata bella la sua vita a Ceylon.
Ritornando sui suoi passi, cominciò a salire per il vialetto di ghiaia. Più si inerpicava più si sentiva appiccicosa, ma non voleva voltarsi finché non fosse arrivata a venti. Mentre contava gli alberi e odorava il profumo delle rose persiane, il calore aumentava, anche se fortunatamente non c’era paragone con il cuore rovente di Colombo. Da una parte e dall’altra, lungo il ciglio della strada c’erano arbusti zeppi di grandi foglie a forma di cuore e di bianchi fiori di pesco.
Al ventesimo albero si tolse lo scialle, chiuse gli occhi e si voltò. Tutto splendeva. Il lago, il tetto rosso della casa, perfino l’aria. Fece un profondo respiro, come se così facendo potesse assorbire ogni particella della bellezza che aveva davanti agli occhi: i fiori profumati, il brivido di quella vista, il verde brillante delle piantagioni sulle colline, il cinguettio degli uccelli. Era tutto inebriante. Non c’era nulla di fermo, e l’aria, brulicante di vita, ronzava, in continuo movimento.
Da quella posizione privilegiata la sagoma della casa era chiara. Il prospetto era parallelo al lago, con la veranda sulla destra, e su un lato sembrava che fosse stata aggiunta un’ala per formare una “L”. Accanto a essa c’era un cortile e un sentiero che spariva dietro un muro di alberi altissimi. Gwen inspirò diverse boccate d’aria pulita. L’orribile e fortissimo fischio del corno di mezzogiorno turbò la tranquillità. Aveva perso la nozione del tempo, ma il cuore le sobbalzò nel petto quando intravide Laurence insieme a un altro uomo procedere a grandi passi verso casa. Lui sembrava a proprio agio, forte e autoritario. Si rimise lo scialle attorno alle spalle e si precipitò verso di loro, ma correre giù per la ripida discesa era più difficile che salirla e dopo qualche minuto scivolò sulla ghiaia, inciampò in una radice, perse l’equilibrio e cadde in avanti così violentemente che si sentì mancare l’aria nei polmoni.
Quando riuscì a respirare di nuovo e cercò di alzarsi in piedi, la caviglia sinistra le cedette. Gwen si sfiorò la fronte graffiata e si sentì così frastornata che si mise a sedere, sentendo già le avvisaglie di un altro mal di testa, un colpo di calore. L’aria le era parsa così fresca prima che non aveva pensato a mettersi un cappello. Da dietro gli alti alberi udì uno strillo spaventoso, come di un gatto o di un bambino sofferente, o forse di uno sciacallo. Non volendo attardarsi a scoprirlo, cercò di nuovo di alzarsi in piedi. Questa volta riuscì a non cedere al dolore, e cominciò a saltellare verso casa.
Quando fu chiaramente visibile dalla porta principale, Laurence si precipitò verso di lei.
«Sono così contenta di vederti», disse con il respiro affannoso. «Sono salita per godermi la vista ma sono caduta».
«Tesoro, è pericoloso. Ci sono serpenti. Serpenti d’erba e serpenti che vivono sugli alberi. Liberano il giardino dai topi. E poi ci sono formiche che pungono e scarafaggi. È meglio che tu non vada in giro da sola. Non ancora».
Lei puntò il dito verso le contadine che stavano raccogliendo il tè. «Non sono così delicata come sembro, e quelle donne erano lì in mezzo alla campagna».
«I tàmil conoscono la terra», disse lui, mentre le si avvicinava. «Non importa, reggiti al mio braccio. Ti portiamo dentro, e chiederò a Naveena di fasciarti la caviglia. Posso far venire il dottore da Hatton se vuoi».
«Naveena?»
«La ayah».
«Ah, certo».
«Mi ha cresciuto, e le sono affezionato. Quando avremo dei bambini…».
Gwen inarcò le sopracciglia e gli sorrise. Lui le sorrise a sua volta e poi finì la frase: «Si occuperà di loro».
Gwen gli strinse il braccio. «E io cosa farò?»
«C’è molto da fare. Lo scoprirai presto».
Ritornando verso casa, Gwen percepì il calore del corpo di lui. Nonostante il dolore alla caviglia, sentì quel formicolio familiare e alzò una mano per toccare la profonda fossetta del suo mento.
Dopo che le fu fasciata la caviglia, si sedettero entrambi nella veranda.
«Be’», disse lui con un luccichio negli occhi. «Ti è piaciuto quello che hai visto?»
«È perfetto, Laurence. Sarò molto felice qui con te».
«È colpa mia se sei caduta. Volevo dirtelo ieri sera, ma avevi un mal di testa così forte che ho deciso di aspettare. Ci sono un po’ di cose di cui devo parlarti».
Lei alzò lo sguardo, con aria interrogativa.
I solchi sulla sua fronte divennero più profondi e quando strinse gli occhi fu chiaro che era stato il sole a scavargli le rughe sul volto.
«Per la tua sicurezza, tieniti alla larga dagli operai. Non ti avventurare nei loro slum».
«Nei loro cosa, di grazia?»
«Sono gli alloggi in cui vivono i lavoratori della piantagione e le loro famiglie».
«Ma sembra interessante».
«A essere sinceri, non c’è molto da vedere».
Gwen alzò le spalle. «Nient’altro?»
«È meglio che tu non vada in giro da sola».
Lei fece una risatina.
«Almeno finché non ti sarai ambientata un po’ di più».
«Molto bene».
«Permetti soltanto a Naveena di vederti in camicia da notte. Lei ti porterà il tè della mattina alle otto. Il tè del letto, lo chiamano loro».
Lei sorrise. «E tu starai con me durante il tè del letto?»
«Tutte le volte che potrò».
Gli mandò un bacio dall’altra parte del tavolo. «Non vedo l’ora».
«Anch’io. Non preoccuparti di nulla. Ti renderai presto conto di come vanno le cose. Domani incontrerai alcune delle mogli degli altri coltivatori. Tra di loro c’è una signora strana, Florence Shoebotham, che però potrebbe esserti di grande aiuto».
«Non ho niente da mettermi».
Lui ridacchiò. «Mia dolce ragazza. McGregor ha già mandato qualcuno con un carro a prendere il tuo baule alla stazione di Hatton. Più tardi ti presenterò al personale, ma a quanto pare c’è anche una cassa di Selfridges che ti aspetta. Roba che hai ordinato prima di venire, immagino».
Lei allungò le braccia, sentendosi improvvisamente meglio al pensiero dei cristalli Waterford e del meraviglioso nuovo abito da sera. Il vestito era proprio quello che ci voleva, corto e a frange rosa e argentate. Le venne in mente il giorno a Londra in cui Fran aveva insistito perché se lo facesse confezionare. Ancora dieci giorni e sarebbe arrivata anche lei. Una grande taccola svolazzò sul tavolo e in un batter d’occhio agguantò un panino dal cestino. Gwen si mise a ridere e anche Laurence.
«Ci sono un sacco di animali selvatici. Ho visto uno scoiattolo striato che si infilava dentro il tetto della veranda».
«Ce ne sono due. Hanno un nido qua sopra. Sono innocui».
«Mi piacciono». Lei gli toccò la mano e quando lui la alzò per baciarle il palmo un brivido la percorse.
«Un’ultima cosa, cara. Me n’ero quasi dimenticato, ma forse è la questione più importante. La gestione della casa è interamente a tua discrezione. Io non interferirò. Il personale domestico risponde a te e soltanto a te».
Fece una pausa.
«Potresti accorgerti che alcune cose non vanno per il verso giusto. I domestici hanno fatto a modo loro per troppo tempo. Sarà dura, ma sono sicuro che li rimetterai in riga».
«Laurence, mi piacerà tantissimo. Ma non mi hai ancora detto molto della piantagione».
«Be’, la manodopera è soprattutto tàmil. I tàmil sono lavoratori eccellenti, non come la maggior parte dei singalesi. Noi ne ospitiamo almeno cinquecento. Mettiamo a loro disposizione una specie di scuola, un dispensario e gli forniamo l’assistenza sanitaria di base. Hanno molti benefici, un negozio, riso a prezzi sussidiari».
«E la preparazione del tè vera e propria?»
«Viene fatto tutto nella nostra fabbrica. È un processo lungo, ma un giorno te lo mostrerò, se vuoi».
«Mi piacerebbe tanto».
«Bene. E ora che è tutto chiaro, suggerisco un riposino pomeridiano», disse lui, alzandosi.
Lei guardò i resti del pranzo e gongolò. Fece un profondo respiro ed espirò lentamente. Era giunto il momento. Chiuse gli occhi e non provò nemmeno a dissimulare il sorriso di piacere, mentre Laurence si chinava per baciarle la fronte. Ma quando riaprì gli occhi, vide che lui se ne stava già andando.
«Ci vediamo stasera», disse. «Mi dispiace tanto, tesoro, ma devo vedere McGregor ora. Il corno della fabbrica del tè suonerà alle quattro, e io sarò già andato via, ma tu continua a dormire».
Le lacrime le pizzicavano le palpebre, ma Gwen si asciugò gli occhi con il tovagliolo. Sapeva quanto fosse occupato Laurence e, ovviamente, la piantagione veniva prima di tutto. Ma era una sua impressione, o il suo adorabile e sensibile marito si stava comportando in modo un po’ freddo?