Capitolo 32
A bordo della nave, Gwen aveva chiesto a Laurence con chi avesse parlato al telefono, ma lui aveva borbottato qualcosa di incomprensibile dicendo che si trattava di lavoro e si era voltato. Lei si era sentita terribilmente ferita, ma aveva riflettuto che farsi tutto un viaggio per mare cercando di stare lontani l’uno dall’altra non sarebbe stata una grande idea. Poi, non appena arrivarono, ad accoglierli trovarono Verity che puzzava di alcol, tabacco e profumo stantio, e tutto il resto passò in secondo piano.
McGregor aveva già detto loro che non aveva dato alcun peso alle disposizioni di Laurence e aveva continuato a presentarsi a casa loro, vestita sempre peggio, e a trascorrere un paio di notti lì di tanto in tanto. D’altra parte, aveva una copia delle chiavi, ed era riuscita ogni volta ad andarsene prima che McGregor si accorgesse della sua presenza.
Entrò incespicando nel salotto dove Laurence e Gwen si stavano riposando il giorno dopo essere tornati dal loro lungo viaggio. Alla vista di sua sorella così trasandata e avvolta da quell’odore rancido, Laurence si alzò in piedi e, tentando di controllare il tremito della mascella, le chiese cosa stesse succedendo.
Verity crollò su una poltrona a capo chino, e cingendosi le ginocchia tra le mani cominciò a piangere.
Gwen si avvicinò a lei e si inginocchiò accanto alla poltrona. «Vuoi dirci cosa è successo?»
«Non posso», piagnucolò lei. «Ho fatto un casino».
Gwen le prese un mano per confortarla, ma Verity la scostò subito.
«È per Alexander? Magari possiamo aiutarti».
«Nessuno può aiutarmi».
Laurence la guardò, visibilmente a disagio. «Non capisco. Perché l’hai sposato se non ti rende felice? È un bravo ragazzo».
Verity piagnucolò di nuovo, questa volta in tono più angosciato. «Non si tratta di lui… no… non capite».
«E allora cosa c’è? Cosa c’è che non va?»
«Verity? Ti prego, diccelo», disse Gwen. «Come possiamo aiutarti se non ci dici cosa è successo?».
Verity borbottò qualcosa e riprese a singhiozzare. Gwen e Laurence si scambiarono uno sguardo preoccupato. Lui parve esitare e Gwen decise di prendere in mano la faccenda e fare del suo meglio per incoraggiare la cognata a parlare. «Avanti, cara, non può essere una cosa così brutta».
La lunga pausa di silenzio che seguì non fornì loro alcuna risposta.
Gwen si alzò in piedi e prese a fissare il lago fuori dalla finestra, pensando alla cognata. Aveva perso i genitori, certo, ma anche a Fran era successo e loro due non avrebbero potuto essere più diverse. Fran era piena di vita e pronta ad affrontare il mondo, Verity invece era lunatica e insicura. Aveva l’impressione che qualsiasi cosa l’avesse afflitta in tutti quegli anni fosse infine giunta a maturazione. Si voltò di scatto quando sentì Verity parlare, con voce rotta dall’emozione.
«Che cosa?», chiese Laurence. «Cosa hai detto riguardo a Hugh?».
Verity alzò lo sguardo e si morse un labbro. «Mi dispiace tanto».
Era così pallida che Gwen provò pietà per lei, ma non aveva sentito le sue parole, mentre a giudicare dall’espressione di Laurence, lui le aveva intese. Suo marito si riavvicinò a Verity, la fece alzare e le mise le mani sulle spalle.
«Dillo di nuovo, Verity. Gwen deve sentirlo».
La lasciò andare e lei crollò di nuovo sulla poltrona tenendosi la testa tra le mani. Quando vide che non parlava, Laurence la esortò di nuovo.
«Diglielo. Diglielo», ringhiò diventando paonazzo.
Verity lo fissò per un istante, poi tentò di coprirsi il volto con le mani tremanti.
«Dio mio, diglielo o te lo tiro fuori io!».
«Mi dispiace. Mi dispiace».
Gwen fece un passo in avanti. «Per cosa?».
Verity chinò il capo. «Mi sta facendo diventare pazza. Non riesco a perdonarmi. Io lo amo, capite. Dovete credermi».
«Non capisco», disse Gwen. «Si tratta di Savi Ravasinghe? Gli hai fatto qualcosa?».
Verity alzò di scatto lo sguardo.
«Di che si tratta, Verity? Mi stai spaventando».
Verity continuava a fissarla.
«Diglielo», le ordinò Laurence.
Ci fu una pausa durante la quale Verity borbottò qualcosa.
«Ad alta voce».
«Molto bene», disse lei quasi urlando ed enfatizzando ogni parola. «Non ho portato Hugh a fare il vaccino contro la difterite!».
Gwen aggrottò la fronte. «Ma sì. Non ricordi? Io avevo un forte mal di testa, quindi ci sei andata tu».
Verity scosse la testa. «Non mi stai ascoltando».
«Ma, Verity…».
«Non ce l’ho portato. Non capisci? Non ce l’ho portato! Non l’ho fatto».
Verityi ricominciò a singhiozzare e Gwen impallidì. «Ma mi hai detto di averlo fatto», disse a bassa voce.
«Sono andata da Pru Bertram e ho portato Hugh con me. C’erano un po’ di amici e abbiamo bevuto. E io l’ho dimenticato».
Laurence lasciò andare la sorella e la scostò bruscamente, sembrava sul punto di colpirla. Chiuse la mano a pugno e lo sbatté sullo schienale del divano.
Verity si riavvicinò e lo prese per un braccio.
Lui la spinse via. «Lasciami. Non riesco nemmeno a guardarti».
«Ti prego, non dire così, Laurence».
Gwen cominciò ad ansimare. La stanza si fece sfocata e le sagome indistinte di Laurence e della sorella si confusero con l’arredamento. Scosse il capo.
«Perché non l’hai detto? L’avremmo portato un’altra volta», stava dicendo Laurence.
Verity si mordicchiò le unghie mentre parlava. «Avevo paura. Tu eri stato così severo con me. Tutti e due lo eravate».
Gwen rimase immobile, la rabbia le chiudeva la gola. Nel silenzio sconcertato che seguì nessuno parlò e lei seppe che doveva trattenersi o l’avrebbe rimpianto in seguito. Anche se la sua mente era completamente in subbuglio, fu in grado di notare lo sguardo terribile negli occhi di Laurence.
«Mi stai dicendo che mio figlio è quasi morto a causa tua?», disse suo marito con voce gelida, fissando la sorella, che scoppiò di nuovo a piangere.
«Piuttosto che dirci la verità hai messo a rischio la vita di Hugh. Sai quanto sono pericolose queste malattie».
«Lo so, lo so. Pensavo che sarebbe guarito. Ed è guarito, vero? Mi dispiace. Mi dispiace tanto».
«Perché ce lo dici solo adesso?»
«Non ho mai smesso di pensarci. Non riuscivo a dormire. E adesso quella ragazzina nativa mi ricorda tanto Hugh quando stava male… non riuscivo a sopportarlo».
Gwen la fulminò con lo sguardo. «Tu non riuscivi a sopportarlo? Tu! Hai idea di cosa voglia dire perdere un bambino?».
Poi, incapace di resistere di fronte a quella provocazione, rinunciò a qualsiasi sforzo di contenersi e si scagliò sulla cognata.
Prese a tempestarle la schiena di pugni deboli ed esausti e Verity si piegò in due, proteggendosi la testa con le braccia. Gwen smise di colpirla e prese ad ansimare, finché finalmente non scoppiò in singhiozzi. Laurence le fu subito accanto e lei gli permise di allontanarla da Verity. Mentre Gwen si sedeva sul divano, dondolandosi avanti e indietro, lui suonò il campanello per chiedere aiuto.
Dopo qualche istante Gwen alzò lo sguardo. «La prescrizione del medico. Verity, sei stata tu a modificarla?».
Verity scoppiò a piangere e a gridare contemporaneamente. «Lei non c’entrava niente qui. Questa è casa mia. Non ce la volevo».
Laurence rimase impietrito, con il volto deformato dall’angoscia. «Avresti potuto ucciderla», disse con la voce ridotta a un sussurro. L’ultima cosa che Gwen udì prima di svenire fu Laurence che diceva alla sorella di uscire da quella casa e di non aspettarsi più neanche un centesimo da lui.
Quella settimana accadde anche un altro evento, che giunse dopo sette giorni piuttosto duri. Si approssimava la fine di ottobre e presto sarebbero cominciate le piogge. Laurence aveva passato lunghe ore a portare a passeggio i cani, rientrando tardi, e Gwen aveva capito che stava solo cercando di stare il più possibile lontano dall’aura di tristezza della casa. Da parte sua, era vero che aveva sempre voluto che Verity se ne andasse, ma non certo in quel modo, e in ogni caso era troppo scossa per mettersi a dire “te l’avevo detto”. Nonostante la rabbia provava comunque compassione per la cognata e nel pieno delle preoccupazioni per cosa ne sarebbe stato di Verity non se l’era sentita nemmeno di affrontare Laurence in merito alla telefonata che aveva origliato a New York.
Il dottor Partridge era in piedi davanti alla finestra della nursery e guardava il lago.
«Avete una splendida vista», disse riavvicinandosi a Gwen, seduta su una sedia accanto al letto, che stringeva la mano di Liyoni in attesa di sentire la diagnosi. Aveva chiamato il dottore nel momento stesso in cui aveva realizzato che la postura di Liyoni era cambiata, ma lui era a Colombo ed era riuscita a contattarlo solo allora.
Partridge sollevò le braccia di Liyoni, che si accasciarono non appena le lasciò. Lo stesso accadde con le gambe. Poi le testò i riflessi di ginocchia e caviglie. Le reazioni furono minime. Il dottore tossì e si voltò verso Gwen, facendole cenno di venire con lui alla finestra. Gwen si alzò e lanciò un’occhiata Liyoni, sdraiata a fissare il soffitto.
«Non ho buone notizie», disse il dottore a bassa voce. «Temo che le sue condizioni non siano quelle che avevo ipotizzato all’inizio».
Gwen guardò il lago e tentò di abbozzare un sorriso molto poco genuino. «Ma l’ultima volta hai detto che sarebbe stata bene».
«Non si tratta di una carenza alimentare».
Gwen tentò di mantenere il sorriso. «Ma guarirà?»
«Credo che questa bambina possa avere una malattia degenerativa. A volte fa fatica a respirare, o magari ha avuto qualche infezione alle vie respiratorie?».
Gwen annuì.
«E mi hai detto che adesso cammina peggio di prima».
Gwen si morse il labbro, senza riuscire a parlare.
«Non posso esserne del tutto sicuro, ma credo che un deterioramento della colonna vertebrale le stia causando un’atrofia muscolare».
Gwen si portò una mano alla bocca.
«Ma si può curare? Puoi fare qualcosa?».
Lui scosse la testa. «Se ho ragione e si tratta di atrofia non può che peggiorare. E l’esito più probabile è il collasso cardiaco».
Gwen, che fino a quel momento aveva trattenuto le proprie emozioni, si piegò in due come se le avessero dato un pugno nello stomaco.
Il dottore le tese una mano per sostenerla, ma lei non l’accettò. Se gli permetteva di consolarla rischiava di perdere il controllo e di farsi sfuggire i segreti che custodiva. Prese un profondo respiro.
«C’è qualcosa che possiamo fare per lei?», disse tenendo la voce bassa e appoggiandosi allo schienale di una poltrona per stare in piedi. «Liyoni non ha nessuno. Solo Naveena e… noi».
«Vi farò avere una sedia a rotelle».
Gwen rabbrividì e schiuse appena le labbra. «No!».
«Se vuoi sentire un altro parere…».
«Potrà ancora nuotare, vero?».
Il dottore sorrise. «Per un po’. Stare in acqua l’aiuterà a lenire il dolore e la pressione sulla spina dorsale e sulle gambe».
«Ma poi?»
«Mostrerò all’ayah come massaggiarle le gambe». Il mento del dottore guizzò lievemente. «Il resto sta a te».
Gwen esitò un istante. «John, mi stavo chiedendo… se l’avessi portata qui prima…».
«Avresti potuto evitare che si ammalasse? È questo che vuoi sapere?».
Gwen annuì, trattenendo il fiato durante il breve istante di silenzio che seguì.
Il dottore scrollò le spalle. «Difficile a dirsi. È una malattia congenita. Negli adulti può presentarsi in forma cronica e più lenta. Non ne sappiamo molto, a dir la verità. In una bambina così piccola lo sviluppo tende a essere più rapido».
«Quindi?»
«Be’, per rispondere alla tua domanda, non credo che avrebbe fatto molta differenza».
Non appena Partridge se ne fu andato, Gwen si sdraiò sul letto. «Va tutto bene», disse accarezzando la fronte calda di Liyoni. «Andrà tutto bene».
Gwen sapeva che non era vero, ma non voleva spaventare la bambina, perciò si sforzò di non piangere mentre stringeva a sé quel fragile corpicino.
Il mattino dopo, Naveena insisté affinché Liyoni restasse nella nursery, dove poteva tenerla sempre d’occhio. L’ayah aveva ragione. Gwen aveva altre responsabilità da seguire e non poteva rimanere con lei tutto il giorno.
Da sola in camera sua i pensieri di Gwen tornarono alla notte allo Stok Club di New York. Quel viaggio continuava a sembrarle quasi un sogno. Un sogno vivido e ininterrotto, ma pure sempre un sogno. Alla fine Moore era riuscito a spostare alcune delle pubblicità di dicembre di altri clienti e anche se l’impatto sul pubblico sarebbe stato leggermente ridotto rispetto alle previsioni, sarebbe comunque stato sufficiente. Il lancio pubblicitario sarebbe stato ripetuto a febbraio, in modo da schiacciare la concorrenza tra le due campagne.
Gwen era stata di cattivo umore sin dalla confessione di Verity e sapere che le condizioni di Liyoni stavano peggiorando l’aveva completamente devastata. Guardò fuori dalla finestra, verso il lago, sperando che la tranquillità delle acque la calmasse. Invece vide Laurence stagliarsi contro la superficie trasparente e impiegò qualche istante a realizzare che stava portando in braccio Liyoni, seguito a poca distanza da Hugh e dai cani. La vista di Laurence con la bambina le provocò un’ondata di sensazioni così profonda da liberarla dalle sue paure. Afferrò la vestaglia di seta e se la infilò, poi uscì sulla veranda.
L’aria era piena del canto degli uccelli e del ronzio delle zanzare. Rimase ferma per un istante, ascoltando e guardando i pennuti volare avanti e indietro dai loro nidi. Una lieve foschia faceva apparire il giardino leggermente sfocato, con i colori che si mescolavano l’uno all’altro come in un quadro impressionista. Un’aquila si levò in volo all’orizzonte e Gwen si rese conto di che giornata splendida fosse. Guardò la sua famigliola raggiungere il lago. Quel giorno l’acqua era argentata al centro e verde scuro vicino alle sponde, dove il riflesso delle chiome degli alberi creava mille sfumature.
Spew corse fuori dall’acqua e si avvicinò a Gwen, mentre Ginger girava su se stessa rincorrendo la propria coda. Gwen si chinò ad accarezzare il cane, ma quello balzò e le si strofinò addosso. Ogni volta che gli toccava il naso, l’animale le leccava la mano con la sua lingua rosa. La gonna di cotone di Gwen era umida per il contatto con la pelliccia bagnata del cane, che doveva averle lasciato addosso anche un bell’odore.
Liyoni aveva le braccia intorno al collo di Laurence. Lui si avvicinò alla riva e la mise giù delicatamente. Mentre l’immergeva nell’acqua, uno stormo di cormorani si alzò in volo e per un istante il tempo parve fermarsi. Gwen sentì il cuore fermarsi nel petto. L’acqua non era profonda vicino alla riva, perciò la bambina non rischiava di annegare, ma l’assenza di movimenti da parte sua la terrorizzava.
Laurence era pronto ad aiutarla, e Hugh era entrato in acqua e si era messo dietro a Liyoni, in modo da poter intervenire se qualcosa fosse andato storto. La bambina rimase inerte per qualche minuto, poi all’improvviso si voltò e cominciò ad agitare le braccia. Rimase a galleggiare ancora qualche istante per trovare il giusto equilibrio, poi con un agile movimento incominciò a nuotare. Gwen emise un sospiro si sollievo.
Poi prese una tazza di caffè dal tavolo della colazione e si incamminò verso i lago. Sentendola arrivare, Laurence si voltò.
«È stato davvero gentile da parte tua», disse lei con un sorriso, sentendosi sopraffatta dalle emozioni.
Laurence la guardò con una strana espressione e rispose con voce roca: «Partridge mi ha detto delle sue condizioni. E so quanto le sei affezionata. A dir la verità, anche io mi sono abituato ad averla con noi».
Gwen annuì e serrò la mascella, senza azzardarsi ad aprire bocca. Incerta su cosa avesse causato quel cambiamento nell’atteggiamento di Laurence verso la bambina, si ritrasse leggermente, ma il marito si avvicinò e la prese sottobraccio. Gwen prese un bel respiro per calmarsi ed entrambi guardarono Liyoni che avanzava nell’acqua.
«Non dobbiamo farla allontanare troppo», disse Gwen.
«Non ti preoccupare. Al primo segno che qualcosa non va, intervengo io. Quando perdi una persona cara impari quanto conti la famiglia».
«Quindi hai accettato l’idea che Liyoni sia una parente di Naveena?».
Lui mormorò qualcosa e distolse lo sguardo.
«Vorresti raccontarmi cosa è successo quel giorno? A Caroline».
Laurence le rispose con voce tesa. «Lo sai».
«Sì, ma pensavo… mi dispiace chiedertelo, ma… si è buttata in acqua dalla cima?».
Lui scosse la testa. «No. Entrò piano piano in acqua, tenendo Thomas tra le braccia. Era impossibile nuotare e contemporaneamente tenere il bambino. Naveena ha visto tutto».
Gwen tentò di immaginare come dovesse essersi sentito Laurence, ma quel genere di sofferenza era troppo oscura, al punto che non riusciva nemmeno a darle un nome.
Lui espirò lentamente. «L’istino disse a Naveena che qualcosa non andava. Per questo seguì Caroline. Se non l’avesse fatto immagino che forse non avremmo mai saputo cosa era successo. E a volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio così».
Gwen rifletté su ciò che aveva appena detto ed esitò un istante prima di parlare. «Chissà cosa avresti immaginato».
Lui annuì. «Forse hai ragione».
«E Naveena non riuscì a fermarla?».
Laurence abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Accadde tutto troppo in fretta».
«Chi li ritrovò? Sempre Naveena?».
Lui si portò una mano sul petto e fece un profondo respiro, poi tornò a guardare Gwen. Per un attimo sembrò molto più vecchio. Fino a quel momento lei non aveva mai notato che i suoi capelli si erano fatti più grigi.
«Mi dispiace, non avrei dovuto chiedere. Non devi dirmelo per forza».
Lui la guardò negli occhi, schermando i propri dal sole con una mano.
«Non è questo…».
«E allora cosa?».
Laurence scosse la testa. «Naveena venne a chiamarci. McGregor trovò Thomas. Io trovai Caroline. La cosa strana era che indossava il suo abito preferito. Era di un verde vivace, fatto di seta orientale. Era vestita come per andare a una festa. Sembrava una specie di messaggio».
Gwen sentì il cuore accelerare i battiti a quel pensiero, ma non disse nulla e per qualche istante anche lui non parlò. Sembrava preoccupato. Lei percepiva che stava cercando di dirle qualcos’altro e attese.
«Le rapide li avevano separati quasi subito. Thomas era una quindicina di metri più indietro, ma era già morto». Laurence si asciugò la fronte con il dorso della mano. «Prima di uscire di casa Caroline aveva messo tutti i suoi vestitini nel baule che hai trovato».
«Mi dispiace tanto», disse Gwen appoggiandosi a lui.
Le dispiaceva in così tanti modi, pensò, e c’erano così tante altre cose che avrebbe voluto dirgli. Avrebbe voluto dirgli la verità: dirgli che aveva sentito quello che aveva detto a Christina al telefono. Ma non lo fece. Si concentrò sul suo respiro e si tenne tutto dentro.
Quel lunedì, dopo aver riaccompagnato Hugh a scuola, Laurence guidò fino a Colombo, dove avrebbero incontrato Fran. Disse a Gwen di restare in centro, perché nei quartieri poveri della città c’era stato qualche tumulto.
Lei tirò su la testa e disse: «Bah, la folla non mi spaventa».
«Davvero, Gwen. Va’ al negozio e torna subito in hotel. Non te ne andare in giro per i bazar».
Laurence era occupato a preparare i quantitativi supplementari di tè da spedire in America, dove sarebbe stato confezionato nella nuova fabbrica che Christina aveva approntato. Nel frattempo Gwen si dedicò ad alcuni acquisti. L’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere la sera successiva era Verity, che si dondolava con fare un po’ brillo sulla veranda del Galle Face, agitando una sigaretta.
«Cara, eccoti qui», biascicò con un mezzo sorriso. «Avevo sentito che saresti arrivata, ma temo che tu abbia mancato di poco tua cugina. Se n’è andata via con suo marito ieri».
«Di che stai parlando?», disse Gwen avvicinandosi di malavoglia a sua cognata. «Fran non è sposata».
«Be’, adesso lo è», disse Verity accasciandosi su una poltrona. «Phew, ho finito le sigarette».
Sua cognata aveva un aspetto piuttosto trasandato, i suoi fini capelli castani erano incollati al cranio e avevano bisogno di una lavata, e gli abiti erano stropicciati.
Gwen le porse la mano. «Alzati. Ti porto in camera. Ci stanno guardando tutti. Non puoi restare qui in queste condizioni».
«Non ce l’ho una stanza».
«E dove hai passato la scorsa notte?»
«Da questo tizio che ho incontrato. Un tipo carino. Con gli occhi azzurri». Fece una pausa, forse per dare alle sue parole un effetto drammatico. «O forse erano marroni».
Gwen si infastidì, proprio come era nelle intenzioni di Verity. Sua cognata non mostrava alcun segno di pentimento, come se quella terribile scena a casa loro non fosse mai accaduta.
«Non me ne frega niente del colore degli occhi di questo tipo», disse Gwen. «Vieni in camera nostra, subito».
Riuscì a guidare Verity verso la scalinata di sinistra senza troppi problemi, ma a metà della salita la ragazza si fermò e rimase immobile.
«Avanti», la spinse Gwen, «non siamo ancora arrivate».
Verity, in piedi sul gradino più alto, abbassò lo sguardo su Gwen e le premette un dito contro il petto. «Pensi di essere molto intelligente, eh?».
Gwen guardò l’orologio e sospirò. «No, non lo penso affatto. Adesso sbrigati, vorrei che Laurence ti trovasse sobria quando rientrerà. Sai bene che ha detto che non ti vuole più vedere, e trovarti in questo stato certo non lo aiuterà a cambiare idea. Un paio di litri di caffè dovrebbero bastare».
«No. Prima devi starmi a sentire».
Le due donne si scambiarono uno sguardo e Gwen si rassegnò. Non le avrebbe reso le cose facili. Moriva dalla voglia di vedere Fran, ma dopo il pomeriggio trascorso in giro per Colombo aveva capelli e vestiti impolverati e aveva assolutamente bisogno di un bagno caldo. Ripensando a sua cugina, si chiese se Verity avesse per caso detto la verità, e in quel caso chi potesse mai essere l’uomo che Fran aveva sposato senza dire una parola a nessuno.
«Allora, mi stai ascoltando?», disse Verity interrompendo il flusso dei suoi pensieri e inarcando le sopracciglia.
Gwen era abbastanza vicina da sentire l’alito cattivo della cognata e sospirò, non riuscendo a trattenere una risposta sarcastica: «Forza. Che sorprendente rivelazione hai in serbo per me?»
«Tra un minuto la smetterai di ridere». Verity fece un passo in avanti e barcollò.
«Avanti, dobbiamo sbrigarci a salire. Su, prima che tu cada giù dalle scale».
Verity fissò Gwen e borbottò qualcosa.
«Tutto chiarissimo… che hai detto?», chiese Gwen.
«Lo so». Verity socchiuse gli occhi e sorrise.
«Verity, stai cominciando ad annoiarmi. Mi hai già detto di Fran. Adesso vieni, prima che perda la pazienza».
Gwen tentò di spingerla su per le scale, ma Verity annuì lentamente e la fissò con sguardo deciso, avvinghiando le mani alla ringhiera e restando ferma dov’era.
«So che Liyoni è tua figlia».
Nel silenzio che seguì, Gwen rimase perfettamente calma. La sua mente era innaturalmente limpida. Fu la reazione del suo corpo a devastarla. La vampata di calore, quando arrivò, la lasciò confusa. Di colpo seppe cosa voleva dire essere consumati dal desiderio di uccidere. Bastavano due piccoli passi e una spintarella. E niente più Verity. Una caduta da ubriaca, un terribile incidente. Ecco cosa avrebbero detto i giornali. Consumata dalla violenza di quei sentimenti, Gwen tese una mano. Due passi, una sola spinta. Poi quel pensiero svanì improvvisamente come era arrivato, ma anche solo il fatto di aver indugiato su di esso la lasciò sbalordita.
«Hai chiuso il becco, eh?», disse Verity ricominciando a salire le scale.
Senza fiato, Gwen tentò di inspirare ma lo shock le aveva risucchiato tutta l’aria dai polmoni e le parve di non sapere più come si facesse a respirare. Si aggrappò alla ringhiera, aprendo e chiudendo la bocca in preda al panico. Pensò che doveva assomigliare a un pesce agonizzante, immobile lì a boccheggiare. Quell’immagine ridicola stimolò i suoi polmoni a riprendere a lavorare e lei riuscì a recuperare il controllo.
Seguì Verity fino al pianerottolo e indicò la loro porta, senza azzardarsi a parlare. Verity entrò barcollando, poi una volta all’interno si accasciò su una poltrona e rimase a fissare i motivi del parquet. Lanciò un’occhiata a Gwen, che piegava e ripiegava le camicie di Laurence nel tentativo di calmare il proprio cuore, che sentiva battere forte contro le costole.
«Quella l’hai già piegata tre volte. Te l’avevo detto che non avresti riso».
«Cosa?»
«Ti ho sentita parlare con Naveena. Poco prima che portassi quel mostriciattolo a vivere a casa di Laurence».
«Devi aver capito male. Ho ordinato del caffè, appena arriva potrai berlo e smetterla con queste sciocchezze».
Verity scosse la testa, prese a frugare nella sua borsa e tirò fuori un mucchio di disegni a carboncino, sventolandoli in aria. «Sono stati questi a dirmi tutto ciò che dovevo sapere».
Gwen sussultò. Consapevole che il tremito della sua voce avrebbe rivelato quanto fosse spaventata, si limitò a scattare in avanti per strappare di mano i disegni a Verity.
«Oh, no», disse lei allontanandoli dalla sua portata. «Questi me li tengo».
Uno dei fogli si strappò e Gwen si chinò a raccoglierne i frammenti, concedendosi qualche secondo per ricomporsi prima di fronteggiare Verity. «Come osi frugare tra le mie cose. E in ogni caso, non capisco cosa pensi di aver trovato».
Verity sorrise. «Ho letto un interessante articolo su una donna delle Indie Occidentali che aveva partorito due gemelli di colori diversi. Era andata a letto con suo marito, ovviamente, ma anche con il suo padrone. Credo proprio che a Laurence interesserà questa storia. Non trovi?».
Seguì una lunga pausa di silenzio, durante la quale Gwen tentò inutilmente di venire a patti con le proprie sensazioni. Provava rabbia, certo, e anche paura, ma c’era qualcos’altro. Una terribile sensazione di vuoto che non aveva mai provato prima. Da quei disegni Verity aveva constatato che Liyoni aveva imparato a scrivere nella piccola scuola del suo villaggio. Sugli ultimi due la bambina aveva scritto qualcosa su una signora bianca di cui le aveva parlato la madre adottiva. Una signora bianca che un giorno forse sarebbe venuta a cercarla. Naveena le aveva tradotto quelle righe, ma Gwen sapeva che Verity era in grado di capire il singalese.
«Se lo chiedesse a Naveena, lei glielo direbbe, lo sai vero?», disse Verity.
«Adesso basta», disse Gwen, rivolta più a se stessa che a Verity, mentre apriva la finestra. Tentò di calmare il cuore che batteva all’impazzata contemplando l’ampio giardino dell’hotel, la strada che lo attraversava e le piante che crescevano nelle crepe del muretto che lo separava dal mare. Poi però udì il vociare di alcuni bambini che facevano volare un aquilone e le vennero le lacrime agli occhi.
Qualcuno bussò alla porta.
«Ecco il caffè. Ci pensi tu a farmi da mamma?», disse Verity. «Mi pare piuttosto appropriato e comunque sono troppo stanca per muovermi».
Il cameriere se ne andò e Gwen versò il caffè.
Verity sorseggiò il suo. «Ho una proposta per te. Una via d’uscita, se vuoi».
Gwen scosse la testa.
«Se mi prometti di farmi restituire la mia rendita non dirò nulla a Laurence».
«Questo è un ricatto».
Verity inclinò il capo. «La decisione sta a te».
Gwen si sedette e tentò di trovare una risposta adeguata. Mandò giù il caffè bollente e si bruciò le labbra.
«Adesso, tanto per cambiare argomento, non vuoi sapere con chi si è sposata Fran? Mi pare di aver capito che non lo sai».
«Se è un’altra delle tue bugie maligne…».
«Niente bugie. Li ho visti insieme, e quando ho notato l’anello che portava al dito non c’è stato bisogno che dicesse altro. L’anello di fidanzamento aveva un diamante enorme circondato da zaffiri. Ma c’era anche un cerchietto d’oro molto rivelatore e lui ne portava uno uguale, anche se ha cercato di nascondere la mano dietro la schiena».
Gwen incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo schienale della poltrona, chiedendosi cosa stava per sentire.«Allora, lui chi sarebbe?».
Verity sorrise. «Savi Ravasinghe».
Gwen contemplò i raggi del sole che danzavano sul volto della cognata e lottò contro l’istinto di strangolarla.
Verity rise. «Il padre della tua mocciosa. Perché è lui il padre, vero? Deve essere lui. Non conosci altri di colore a parte la servitù, e credo che persino tu non scenderesti così in basso. Potrai anche aver ingannato tutti quanti, Gwen, ma io ci ho visto lungo».
Senza parole, Gwen rimase immobile. Provava l’impulso di mettersi a singhiozzare e le uniche parole che risuonavano nella sua testa erano: “Ti prego, ti prego non dirlo a Laurence”.
«Florence ha detto che vi ha visti salire le scale insieme la notte del ballo e tu sei andata a trovarlo quando Fran era malata. Adesso lui è comproprietario della quota di Fran della piantagione. Laurence non ne sarà affatto felice e se gli dirò anche di tua figlia, be’... sono sicura che mi farà tornare a casa».
Gwen si alzò in piedi. «Molto bene. Parlerò con lui della tua rendita».
«Quindi è vero? Liyoni è tua figlia».
«Non ho detto questo. Stai fraintendendo le mie parole. Voglio solo aiutarti».
Sapeva che la sua voce doveva suonare piuttosto meccanica e ne ebbe la conferma quando Verity gettò il capo all’indietro e scoppiò a ridere.
«Sei troppo trasparente, Gwen. Non ho origliato alcuna conversazione tra te e Naveena. Un giorno ho visto quella bambina seduta accanto a te, con il sole che illuminava le vostre facce in un modo particolare, e allora l’ho visto. Ha la tua stessa struttura ossea, Gwen. E poi i capelli. Di solito sono legati o stirati, ma era appena uscita dall’acqua e, dopo che si erano asciugati, erano diventati ricci come i tuoi».
Gwen tentò di interromperla.
«Stammi a sentire. Dopo avervi viste insieme i tuoi sentimenti per lei sono diventati chiarissimi. Un giorno, mentre eri a New York, sono andata a frugare in camera e tua e ho trovato la scatola e la chiave. Perché mai avresti dovuto conservare in un cassetto i disegni di una bambina indigena? Perché farne tesoro? Perché tenerli sottochiave?».
Gwen sentì il sangue fluirle in volto e si chinò a raccogliere un fiocco di polvere dal pavimento.
.«Quando ho trovato i disegni sono stata sicura della mia intuizione, e adesso la tua reazione mi ha dato la conferma di cui avevo bisogno. È di Savi Ravasinghe, vero? È lui il padre di quel mostriciattolo di bambina. Mi chiedo cosa ne penserà tua cugina».
Gwen si alzò, spostò dietro l’orecchio uno dei suoi riccioli e tentò di respirare regolarmente. «Non capisco perché vuoi ferirmi in questo modo. Non ti importa neanche di ferire tuo fratello?».
Silenzio.
«Be’?»
«Mi importa di Laurence».
Gwen incrociò le braccia sul petto come per darsi un tono. «E allora perché lo fai?»
«Mi serve la mia rendita».
«Ma perché? Hai un marito».
Verity chiuse gli occhi per un istante e prese un profondo respiro. «Non voglio finire come te».
«Cosa intendi?»
«Lascia perdere. Pensa solo a cosa dire a mio fratello».
«E se non lo faccio rovinerai le nostre vite?».
Verity inarcò un sopracciglio. «Mi aspetto di riavere la mia rendita a partire dal mese prossimo. Altrimenti Laurence saprà tutto».
«Sai benissimo che finché la faccenda del marchio non sarà avviata Laurence non è in condizione di farlo».
«In questo caso direi che hai un bel dilemma da risolvere».
«So che hai preso dei soldi dal fondo per la casa. Cosa credi che ne penserà Laurence? Lo so da quando mi sono ammalata. Le provviste scomparivano e poi ricomparivano all’improvviso nella dispensa. Tenevi tu la chiave quando sono stata male, e prima che arrivassi. Puoi essere stata solo tu».
«È stato bello finché è durato. Io e l’appu vendevamo la merce e ci dividevamo i profitti. Che ridere vederti tentare di far quadrare i conti! Ma ti sarà difficile provarlo. Dirò a Laurence che ho solo preso in prestito qualcosa e comunque quando saprà della tua marmocchia credi che gli importerà?»
«Dimmi perché ti servono così tanto questi soldi. E Alexander?».
Verity si rabbuiò. «Ti ho già detto che non hai scelta».
«Potrei provare a convincere Laurence a farti tornare a vivere da noi».
Lanciò un’occhiata a Verity, ma sua cognata si era addormentata.
Mentre Gwen aspettava Laurence, si sentì come sospesa al confine tra la vita reale e un incubo in cui era inavvertitamente incappata. Si aggrappò alla speranza che quella di Verity fosse solo una vuota minaccia e fosse dovuta per lo più all’ubriacatura, ma nel suo cuore sospettava che la cognata fosse capace di questo e altro.
Gwen attese Laurence camminando avanti e indietro dalla finestra, guardando l’orologio e fumando diverse delle orribili sigarette di Verity, che le intensificarono solo la nausea che sentiva già crescere. Avrebbe voluto piangere per sfogarsi, ma le sue lacrime erano come bloccate dento di lei, insieme a qualsiasi speranza che le cose potessero andare a finire bene. Prima di crollare addormentata sulla poltrona, Verity non le aveva detto dov’era andata Fran. Gwen non sapeva neanche se credere alla storia del matrimonio, ma sua cugina era l’unica persona al mondo con cui potesse parlare e doveva trovarla in fretta.